XCI.
Il Fanciullo e le Lucciolette
Mentre la notte gía
Fanciul per cupa via,
Seco solca l' ajuto
D'una lanterna prendere;
Ma poi ch'ivi ha veduto
Più Lucciolette splendere,
La lanterna lasciò.
E a quelle si affidò.
Dietro al lume volante
Già franco il piede ha mosso;
Ma che? dopo un istante
Precipitò nel fosso.
Giurò fiere vendette
Contro alle Lucciolette,
Che udendo i suoi lamenti,
Espresser questi accenti:
Si lagni di sè stesso,
Se in mezzo a' guai si vede
Chi il certo ajuto ha omesso,
Dando all'incerto fede.
XCII.
Il Torrente e il Ponte
Si stizzava col suo Ponte
Il più altero de' Torrenti:
Che ti ruppi ogni anno il fronte,
Gli dicea, so che rammenti:
Dunque a che contro mia possa
Cingi tu rinforzi vani?
Cento danni in una scossa.
Se non oggi, avrai dimani.
E al torrente il Ponte dice:
Ti resisto infin che lice;
Il dover d'un ponte è questo,
Curi poscia il Ciel del resto.
Non periglio, non minaccia
Ciò che déi lasciar ti faccia.
XCIII.
La Farfalla sulla Rosa
Farfalletta dorata
Sulla Rosa sedea,
E superba dicea:
Per me la Rosa è nata.
E spiegava le alette,
E le fresche cimette
Del fior giva scotendo;
E scherzando e giojendo,
Ripetea baldanzosa:
Nata è per me la Rosa.
Or mentre qual reina
Sta su quel trono e parla,
Giovane contadina
S' invoglia di predarla:
La man furtiva stende,
Entro il pugno la prende;
Le pinte ali le toglie,
E poi la Rosa coglie.
Non ti fidar, se infiora
Tuoi dì sorte pomposa;
Pensa che sei tu ancora
Farfalla sulla Rosa.
XCIV.
Il Ruscello e l'Armento
Un ruscel limpido disse all' Armento:
Perchè m'intorbidi l'onda d'argento?
Io qui di bevere già non ti vieto;
Ma lento scendere potresti e cheto.
Di non intendere finse l'ingrato,
E il rio fe' torbido più dell' usato.
Giova; ma limiti se al ben non metti,
Invano gli uomini discreti aspetti.
XCV.
Lo Sparviere e il
Rosignuolo
Lo sparvier del Rosignuolo
Deridea la debolezza:
Ali inette a lungo volo,
Becco vil che nulla spezza,
Gambe tisiche, e a che buone?
Mi fai proprio compassione.
Quei rispòse allo Sparviere:
Queste tempre dilicate,
Che Natura hammi donate,
Son conformi al mio mestiere.
Tienti i doni a te concessi;
Pago io son de' beni miei:
Di Sparvier se membra avessi,
Questa voce aver potrei?
Se di forze alcun ti cede,
Avvilirlo indarno pensi:
Giusto é il Cielo, e il Ciel gli diede
Non ignobili compensi.
XCVI.
Il Colombo
solitario e la Tortora viaggiatrice
Vivea colombo qual neve bianco
Della fedele colomba al fianco;
Vivea contento, vivea romito,
Senza conoscere che il natio lito.
Allor che il vento nemboso romba,
Nell' antro chiudersi colla colomba,
O gir dove ombre la selva spande,
De' suoi vïaggi questo é il più grande.
Venia da clima oltramarino,
E passò tortora di là vicino;
Vide il colombo, fermò le penne;
E a parlamento tra lor si venne.
Tortora:
Gran terre scorsi! gran cose appresi;
Tu quai vedesti genti e paesi?
Colombo:
Sol questo prato, sol questo bosco,
La mia colomba solo conosco.
Tortora:
Non perché amante vivi ed amato,
D' uopo t' é starti qui rinserrato;
Aneli' io mi vanto di un molle core,
Né alle colombe cedo in amore:
Ma d' un deserto per sempre in fondo?
Ah é un gran piacer veder del mondo!
Colombo:
Per un colombo ch' ami da vero,
In un deserto v' é il mondo intero.
XCVII.
Il Fonte e il
Passeggiero
Scaturiva da un masso
Fonte che a bere invoglia
Pur chi non abbia sete;
L'onda fra sasso e sasso
Per fresche vie secrete
Dolcemente gorgoglia;
Cento vaghezze e odori
Spargono erbette e fiori
Sul margo, e all'onda amica,
Fermati, par ch' ei dica.
Da sudor, da stanchezza
Oppresso un passeggiero
La scopre, e la dolcezza
Già ne bee nel pensiero:
Saltando s'avvicina,
Sotto al canal si china:
Ma oimè! cocente e amara
Labbra morde e palato
Pregna di solfi e sali
La bugiarda acqua chiara,
Ch' era rifugio ingrato
Di squallidi spedali.
Ah! fonte menzognero,
Il povero uom dicea:
Cotai fansi da te
Inganni al passeggiero?
E il fonte rispondea:
Folle è ben chi sua fe
Nell' apparenza pone.
E il fonte avea ragione.
XCVIII.
La Tigre e il Leone
Senza denti, carchi d' anni,
Travagliati da' malanni,
Con incerto e lento passo
Strascinando il fianco lasso,
Non so dove s' incontrarono
Una tigre ed un leone,
E tra lor così parlarono:
Or non più fra noi tenzone;
Viene il senno coll' età:
Clie follía star sempre in guerra!
Stiamo in pace, e per metà
Dividiamoci la terra.
Disse l'ùna; e poi che a' patti
Godè l' altro acconsentire,
Ambo amici e soddisfatti
Si sdrajarono a dormire.
Ma fur brevi i lor riposi:
Di ruggiti strepitosi
Li destò l'orrendo eccheggio;
Tigri giovani e leoni
Per lievissime cagioni
Gian battendosi alla peggio.
Oh perchè, la tigre disse,
Non è in quelli egual saviezza?
L'altro a lei: Non faran risse
Quando opprimali vecchiezza.
Or che infermo il corpo giace,
Mal ti vanti di prudenza:
Sai perchè noi stiamo in pace?
Per reciproca impotenza.
XCIX.
Il Fiore e la Rovere
Vedendo rovere annosa e forte,
Un fior lagnavasi della sua sorte:
La vil d'un albero fosca verdura
Pur fino al termine d'autunno dura;
Ed io d' amabili colori adorno
Ho sol la misera vita d'un giorno.
Udì la rovere, e al fior rispose:
Son tutte fragili le belle cose.
C.
Il Pescatore e lo
Scarpellino
Eran l' onde del mare
Tutte tranquille e chiare,
E il raggio del mattino
Ridea sul lor turchino:
Quand' ecco colla rete
Un pescator discendere,
In seno all' acque chete
Le usate insidie a tendere,
E scorsa un' ora appena,
Tira la rete piena.
Sopra un masso vicino
Percotendo sudava
Un vecchio scappellino,
Che mentre quei pescava.
Disse fra sè: Ben parmi
Quello il mestier migliore,
Ozio e guadagno! ch farmi
Anch' io vo' pescatore.
Vendè lutti i martelli,
E tutti gli scalpelli,
E il danar che ne trasse
In reti spese e in nasse;
Ma il mar non ogni dì
Bello trovò così.
Il vento tempestoso
Talor gli fu nojoso;
Talor giornate intere
Il povero messere
Languendo d' appetito.
Bagnato, intirizzito
Alla pesca attendea,
Nè un pesce eol prendea.
Alfin comprese il vero,
Pien di vergogna e rabbia,
Che non si da mestiero,
Ove a stentar non s' abbia.
CI.
Il Rosignuolo vecchio
Un rosignuolo vecchio spennato,
Fuori penoso traenclo il fiato,
In sul ritorno di primavera
D'amor cantava ja notte intera.
Giovane augello l' ode, e gli dice:
Or questo canto più a te non lice:
Canta le fronde, canta i fioretti;
Nella natura son tanti oggetti;
Ma tal che male su' piè ti stai,
D'amor cantando, rider farai.
Quello un sospiro diede, e rispose:
Canto le prime fiamme amorose,
La mia vezzosa fida usignuola,
Che ho sempre amata, che amata ho sola.
Meco su questa verzura nova
Spiegava l'ali, cantava a prova;
Oggi altre cure mi stanno accanto,
Ma pur l' ho in mente, ma pur la canto.
Tutto cogli anni si strugge e svia;
Ma il primo amore mai non s' oblia.
CII.
La Viaggiatrice
imprudente
Messaggiera ingannevole
Della stagion novella,
A errar pei tetti e a stridere
Venne una rondinella.
Pur non anco spuntavano
Cime d'erbetta lievi,
Nè scosso anco avean gli alberi
Il peso delle nevi.
Intollerante femmina,
Che far dovea vïaggio,
Vista volar la rondine,
Si accese di coraggio;
Nè d'altro più sollecita,
Sorse di buon mattino:
Ecco il fardello apprestasi,
Ed eccola in cammino.
Come in gennajo cadono,
Brine cadean mordenti;
Poi sul meriggio uscirono
Nunzj del nembo i venti.
Quella dicea: Dal torbido
Il dì sereno spunta;
Come potrei non crederlo,
Se primavera è giunta?
Ma quattro dì la misera
In tristo albergo mena,
Ostinata ad attendere
Invan l' aria serena.
Sempre più fieri i turbini,
Il ciel sempre più tetro.
Alfin dovè ricredersi,
Il piè volgendo indietro.
E fu talun che dissele:
Credi a sentenza vera:
L' arrivo d'una rondine
Non porta primavera.
CIII..
L Augello favorito
Fra' sommi augelli accolto
Era un augel civile.
E con benigno volto
L' aquila signorile,
Il falco e gli altri grandi
Lo volevano a' prandi,
Alle feste, alle cene:
Non si godea d' un bene
A cui l' augello amato
Non venisse chiamato.
Curïoso a vedere
Era un furor di gare;
Ché ognun seco tenere
Volealo a pernottare:
Festevole, giocondo
Di molto era e facondo;
E i grandi insieme uniti
Tenea ben divertiti.
Abitator di un lido
Remoto ei si dicea;
Ma fatto sta che nido
Il miser non avea.
Né farsen un potea.
Sentia qualche vergogna
A dir la sua bisogna;
Alfin tra sé discorre:
Eh son questi i momenti
Onde frutto raccorre
Da amici sì potenti.
Col suo narrar faceto
Un dì, dopo aver messo
In umor assai lieto
Tutta la compagnía,
Parlar, disse, è permesso
Della persona mia?
Nulla celar più vo':
Stanza ove prender posa
Sappiate ch' io non ho;
Nè trovarne ho speranza
Or che il verno s' avanza;
Di fabbricarla io stesso
Ho invan brama nutrito;
Invan tentailo e spesso:
Nelle gambe ferito
Sono di forze privo;
Ed é mirabil cosa,
Se dopo il colpo io vivo.
Questa che tra voi meno
Vita è ben dilettosa;
Ma potría venir meno.
Di tanti augei magnati
Alcun può facilmente
Un de' nidi più usati
Cedere all' indigente.
Ognuno a lui sorrise;
E monti e mar promise:
Ma da quel giorno innanzi
Alcun più non gli fea
Invito a cene o a pranzi,
E quando lo vedea,
Servo a vosignoria,
Dicea da lunge, e via.
Aspro ver ti si svela:
Vuoi dagli uomini ajuto?
Il tuo bisogno cela;
Se il mostri, sei perduto.
CIV.
La Polvere di
Cipro e il Belletto
Polvere di Cipro:
Veramente nobil cosa
Imitar tinta di rosa!
Eh le gote indarno abbellì,
Se le rughe non cancelli.
Belletto:
Lieta immago almen presento;
Ma tu il crin tinger d' argento!
Folle è ben chi non disprezza
Quel color della vecchiezza.
Polvere di Cipro:
Oh potessi tu col rosso
Ingannar, siccome io posso!
Crin del tempo in preda ai danni
Per me sfida un di vent' anni.
Belletto:
Ma che fai su calva zucca?
Polvere di Cipro:
Mancan mezzi? una parrucca.
Belletto:
D' ambo dunque poco è scaltra,
Puerile anzi è la cura,
Se mal basta l'uno o l' altra
Al difetto di natura.
Studia invano, e i rozzi parti
Freddo autor lecca e pulisce;
A dispetto di cent' arti
La natura lo tradisce.
CV.
Un Garzone e il Genio
Un garzon si gía lagnando
Che al travaglio era sol nato;
E il suo genio iva pregando,
Che cangiar volea di stato:
Il suo genio era cortese,
E a que' voti condiscese.
Al suo sguardo un dì s'espose
Sopra nuvola di rose,
E parlò: Sarai signore,
Nè saprai che sia fatica;
Ma paventa un mal peggiore:
Vano è omai ch' io più ti dica:
Disse il genio; e detto fatto,
Il garzone è soddisfatto.
Pochi giorni scorsi appena,
Al signor che nulla fa
Sì la noja reca pena,
Che più vivere non sa.
Col suo genio ei fea lamento,
Ma il buon genio si sdegnò:
Per vederti appien contento
Che più far per te dovrò?
T' avea indarno il meglio dato
Del destin la mano amica;
Scegli alfin: che più t' è grato?
Aver noja, o aver fatica?
Son retaggi de' viventi;
Un de' due soffrir convienti.
CVI.
La Rosa vera e la
Rosa finta
Dallo stelo nativo
Passò vergine rosa
A spiegar l' ostro vivo
Sul sen d' adorna sposa,
Dal cui crin torreggiante
Sulla sinistra parte
Pendeva tremolante
Rosa figlia dell' arte;
Ma la copia tal era,
Che parea rosa vera.
Or la rosa del seno
Sdegnò finta sorella,
E detti di veleno
Susurrò contro quella,
Che non so come udendo,
Le venne rispondendo:
Hai pensieri innocenti
Degni del natio loco,
Che t' intendi sì poco
Delle mode presenti:
Soffre altri ancor lo stesso;
Non esser più sdegnosa.
Il finto e il ver nel sesso
Divennero una cosa.
CVII.
Un Cuore e la Gelosia
Cuore:
Perchè mi strazi fra' dubbi affetti,
E sulle piaghe velen mi getti?
Son pur tant' altri servi d'Amore
Senza il sospetto, senza il timore.
Gelosia:
Tu come quelli divieni amante,
E t' abbandono da questo istante.
Pensa che al mondo son belle a mille,
Mentre ami Nice, scherza con Fille ...
Cuore:
Ma che ben s' ami così non veggio.
Gelosia:
Oh se ben ami, teco star deggia.
CVIII.
L' esempio della
Contadina
Verso pingue collina,
Al cui terren fidati
Eran germi pregiati,
Mosse una contadina:
Due de' figli minori
Seco si trasse fuori.
Col piè, col guardo scorre
I solchi già ridenti,
E s' affatica a tôrre
Le piante parasite
Ch' eran d'intorno uscite
Ai germogli crescenti.
Le stacca ad una ad una,
E in fascio le raduna.
Stavansi i figli intenti
All' opere materne.
Ella intanto, che scerne
Come siffatta cura
Troppo tempo le fura,
Ambe le mani affretta:
Or mentre e strappa e getta,
Più d'un util germoglio
Misto all'impuro loglio
Dalle glebe ha disgiunto,
Nè se n' avvede punto.
Tornandosi, per via
I figli ella avvertía:
Tal s'usa diligenza
Coll' utile semenza.
Quelli nel campo istesso
Entran due giorni appresso:
Che fan? seguon l' esempio;
E sì cieco è lo scempio,
Che per lor mano è tolta
Metà della raccolta.
Ove fanciul dimora,
Pon mente a ciò che fai:
Cura non havvi allora,
Che sia soverchia mai.
CIX.
I due Augelletti
Era l'autunno, e Silvia
Trilustre giovinetta
Godea sull' alba chiudersi
Entro la capannetta,
Donde tese guardavano
Le reti i suoi fratelli,
E il gioco regolavano
De' docili zimbelli.
Un dì, poichè s' attesero
Prede lung' ora invano,
Alfin due augelli apparvero
Dal poggio più lontano.
Venían lievi posandosi
Su gli alberi per via;
E un d' essi empiva l' aere
Di dolce melodia.
Presso già son, già adocchiano
I bei cespi fronzoti;
Già s'assicuran: eccoli
Nella rete caduti.
La prima accorrer videsi
Dell' armonico incanto
Silvia invaghita, e prendersi
L' augel dal dolce canto.
Eh no che non ingannasi;
Sceglie de' due quel e' ha
D' azzurre piume e crocee
Insolita beltà.
L' altro, che scuro e ignobile
Ha il manto, appena guarda;
Aver de' al manto simile
Dura gola e codarda.
Il vago augello in picciola
Vien chiuso aurata stanza,
E di pignoli e miglio
Nuota nell'abbondanza.
Più giorni intanto passano,
L'augel saltella e gode;
Ma Silvia impazientasi,
Chè il canto ancor non ode.
Silvia delusa! attendere
Puote a sua posta il canto:
Era l' amabil musico
L' augel dal brutto manto.
Come Silvia decidere
Sol dal color si vide,
Sempre così degli uomini
Il volgo ancor decide.
CX.
La Mammola
O bella mammola tutta modesta,
Il primo zefiro d' april ti desta:
Vivi rinchiusa, ma in lontananza
La tua ti accusa dolce fragranza.
O bella mammola, mammola bella,
Sii tu l' immagine d' ogni donzella!
Chi brama coglierti, se avanza il piede,
Già sta per premerti, nè ancor ti vede
Pure e gentili le tue fogliette
Tra l' erbe vili giaccion neglette.
O bella mammola, mammola bella,
Sii tu l' immagine d' ogni donzella!
Quando col crescere di primavera
Dei fior più nobili cresce la schiera,
Ch' apron più vaga, più altera foglia,
Ti stai tu paga che niun ti coglia.
O bella mammola, mammola bella,
Sii tu l' immagine d' ogni donzella!
Madre, consolati, se la tua figlia
A bella mammola tutta somiglia;
Nè mai lagnarti, se d'arti è senza:
Che far dell' arti dove è innocenza?
CXI.
L' Insetto e la Siepe
Lagnavasi un insetto
Che la siepe gentile,
Ove sul fin d' aprile
Preso avea suo ricetto,
Nella stagion focosa
Fosse sì polverosa,
Che viver non potea.
La siepe gli dicea:
Va su per gli arboscelli;
E quei: Temo gli augelli.
E ben, va serpeggiante
Su per quell'altre piante,
E cauto ti nascondi
Tra le più folte frondi.
V' é rischio ancor là sopra
Che un nemico mi scopra.
Dunque cerca sotterra
Alloggio più sicuro.
Là giù? mi farà guerra
Qualche insettaccio impuro.
Va ... ma che più consiglio?
Vuoi loco ove digiuno
Sii da noja o periglio?
Non ne conosco alcuno.
CXII.
L' Età dell' Oro
Dicea Lisa al suo Mirida:
Sai tu, sai tu che sia
L'età che d'oro chiamano?
Jeri parlar n' udia.
Presso il padron sedevano
Due gravi cittadini;
Guatandomi s clamavano:
Pastor, pastor meschini!
Come i tempi cambiarono!
Le selve e le pendici
Il solo un giorno furono
Albergo de' felici.
Latte i fiumi scorrevano
Per la pingue pianura,
E frutta davan gli alberi
Senza voler cultura.
Mai ghiacci allor, mai turbini.
Mai doglia, mai lavoro:
Come i tempi cambiarono!
O bella età dell'oro!
S' amava, e senza lagrime,
Senza timor s' amava;
La gelosía quell' anime
Candide non turbava ...
Sì, lo sposo interruppela,
Così s' amava allora:
Ma noi non siamo amandoci
In quella etade ancora?
Tu m'ami, io t'amo; incognita
N' è ad ambo gelosía:
Io di tua fe non dubito,
Tu temi della mia?
Negletta o no sii d'abito,
Io lindo o disadorno,
Ci amiam come ci amavamo
Di nostre nozze il giorno.
Nè meglio amarsi possono
Due fide tortorelle
Che accompagnate crebbero,
Che nacquero gemelle:
S' ameran Lisa e Mirida
Per fino all' ore estreme,
Sempre così cercandosi,
E sempre stando insieme.
La mia più schietta immagine
Già un bambinel ti mostra:
La tua fra poco .. ah credimi,
L' età dell' oro è nostra!
Ma di', frutta che nascano
Senza coltura alcuna,
È poi come la vantano
La così gran fortuna?
E tu vorresti perdere,
Vivendo a etade antica.
Quel bel piacer ch' è solito
Seguir la tua fatica?
E 'l bel piacer che t' anima,
Quand io sudato e stanco,
Ne vengo il premio a cogliere,
Sedendomi al tuo fianco?
È lungo il verno, é rigido;
Ma son pur l' ore care
Quelle di starsi in giolito
Raccolti al focolare:
Quelle talor di porgere
Risforo agl'indigenti,
Che non han come pascersi
Nel cor de' giorni algenti.
Calda é la state e incomoda:
Ma qual maggior diletto,
Che verso sera accogliere
Sull'aja il zefiretto;
E il giorno, dove stendono
Ombroso cerchio i mori,
Riposando interrompere
L' affanno de' lavori!
Tremi, se nero il turbine
Da' monti uscir si vede:
Ma quanto poi rallégrati
Più bello il Sol che riede!
Potría benigno e tepido
Di primavera il raggio
Destar sì amabil estasi,
Se fosse sempre maggio?
Non godi il latte spremere
Dal gregge di tua mano,
Più che vederlo scendere,
Come un torrente al piano?
Non godi? .... e seguía Mirida;
Ma Lisa il volto inostra;
L' abbraccia, ed ambo dissero:
L' età dell' oro è nostra.
CXIII.
Il Sibarita in Villa
Lodar colline e boschi
Udia giovin magnate:
Andiam l' aure beate
De' campi a respirar.
Disse, e quattro corsieri
Vie più che pece neri
In un baleno il traggono
I campi ad abitar.
Girando intorno il ciglio
Dal piano alla pendice,
Queste verzure, ei dice,
Il mio giardin non ha?
Ma quel lodato tanto
Ov' è soave incanto?
Ah non risente il misero
L'aure di libertà.
Chiegga alle forosette
Come sian paghi i cori,
Impari da' pastori
A vivere a gioir.
Nella campestre sede
Portar non basta il piede;
Convien portarvi un' anima
Temprata a ben sentir.
CXIV.
L'
Augello industre e gli Augelli censori
Un elegante fabbro augellino
Ove far nido trascelse un pino;
E fabbricandosi gia la sua stanza
Di rami e foglie c'han più fragranza.
Rustici augelli di là passando
L'industre artefice videro, quando
All' opra intento or parte, or riede,
Carico il becco d'acconce prede;
E liscia, stringe, cambia, misura
De' curvi lati la tessitura.
Gli levâr contra di scherno un grido:
Sì gran lavoro per farsi un nido!
Dissero, e risero schernendo ancora.
Quei lascia ridere, tace e lavora.
Indi a non molto fama si mosse
Del più bel nido che al mondo fosse
E que' medesimi censori, quelli
In folla corsero cogli altri augelli;
Ed inarcarono per meraviglia
Sul bel lavoro l' invide ciglia.
Vuoi tu confondere censori audaci?
Prosegui l' opera tranquillo e taci.
CXV.
Il Fanciullo e l'
Augellino
Cadde un tenero augellino
Nelle man di un fanciullino,
Che gli avvolge un filo al piede,
E ne regge i brevi voli;
Indi apprestagli in mercede
Lauta mensa di pignoli.
Schiavitù certo leggiera;
Ma l' augello ha cotal cera,
Che il diresti un infelice:
Perchè mesto, quei gli dice;
Fil di lino t'inquieta?
Io tel cangio in fil di seta.
L'augellino è mesto ancora;
E il fanciul gli pone allora
Laccio al piè di puro argento;
Ma l' augel non è contento.
Cangiò alfin l' argento in oro
Di finissimo lavoro;
E dicea: Con tal catena
Non dèi vivere più in pena.
Gli rispose l' augellino:
O metallo, o seta, o lino
Al mio piè d'intorno sia,
Io son sempre in prigionia.
V' ha taluno, io non l' ignoro,
Che per aurei lacci impazza
Sempre è laccio un laccio d' oro,
Io non son di quella razza.
CXVI.
Il Verdolino e il Tordo
Verdolino:
Quai cibi, o tordo, pingue ti fanno?
È pure il miglio raro quest'anno!
Se non ti spiace, dimmi ove cresca
Ai tuoi desiri pronta tant'esca.
Tordo:
Guarda quel bosco laggiù di vepro,
In mezzo al bosco s'alza un ginepro;
Son le sue bacche succose assai,
Là puoi sfamarti finchè vorrai.
In men che un dardo non fa cammino
Presso al ginepro fu il verdolino;
E delle bacche su i gruppi folti
Fra le pungenti fogliette avvolti
Avidamente gettossi, e fe'
Ogni suo sforzo con becco e piè,
Onde le bacche carpir dai rami;
Ma becco ha piccolo, nervetti ha grami;
E dopo lunga pugna molesta,
Puntosi agli occhi, puntosi in testa,
Non potè, misero, pur una sola
Bramata bacca mandar in gola.
Va pien di rabbia del tordo in traccia,
E d'un inganno mal lo rinfaccia.
Breve risposta l'altro gli rese:
Non son per tutti tutte le imprese.
CXVII.
La Pecora e lo Spineto
Una pecora vellosa
Dal pratel d'erbette lieto
Di por piè fu desïosa
In foltissimo spineto;
Nè so qual curiosità
La movesse a entrar colà.
Entra appena, e al lungo vello
Questo spin s' attacca e quello;
A fuggir più che s'affretta,
Avviluppasi più stretta:
Bela, smania; alfin s'intese
Lo spineto a favellare:
Vello e spini! e chi t' apprese
Certo danno a ricercare,
E a venire in cotal sajo
Degli spini nel vivajo?
Va fra l'onde e non bagnarti,
Va nel foco e non bruciarti;
Colle lane oltra ti cacci
Fra gli spini, e non vuoi lacci?
CXVIII.
La Cicala e il
Villanello
Una cicala sul mezzogiorno
Tutta assordava l' aria d' intorno:
Sotto alla pianta, da cui cantava
Un villanello dormir bramava,
Eh, taci, disse, sozza bestiaccia,
Chè quel tuo canto gli orecchi straccia;
Taci: bisogno m' ho di dormire.
Quella in risposta fu udita dire:
Vegliare altri ama; dormir tu agogni,
E il canto è il primo de' miei bisogni.
Se di mia voce non sei contento,
Colla natura fanne lamento.
CXIX.
Il Cavallo e l'Asino
Un cavallo invecchiato,
Che sul giovane dorso
Retto per nobil corso
Più d' un magnate avea,
Da un villanel guidato,
Di fango ingualdrappato
La cittade scorrea,
Carco d' indegna soma;
E pur gía corvettando,
E in armonía levando
Il mal ferrato piè;
E benchè senza chioma
Portava alto la testa
Come il destrier d' un re.
Gli era appresso un somaro,
Il qual carco del paro,
Col muso fino a terra,
Mancando ad ogni passo,
Urtando in ogni sasso,
Così al caval parlò:
Rider farai la gente:
Orgoglio e soma, oibò!
Vien via modestamente,
Imita i passi miei;
Quel ch' eri un dì che importa?
Pensa quel ch' oggi sei.
E l' altro: Io son lo stesso,
Benchè da soma oppresso:
Questo è il mio portamento;
Se fortuna si cangia,
Non cangiasi natura;
E tu pur sotto frangia
Ricca d'oro e d' argento
Avresti ognor figura
Di stupido giumento.
CXX.
L' Altéa e la Mortella
Feano sponda a un viale
L' altéa e la mortella:
Sorgean d'altezza uguale;
Ma l'una intanto è bella
Di fiori a più colori,
E l'altra è senza fiori.
L' altéa parlò primiera:
Nè està, nè primavera
Veggio foglia gentile
Che t'orni il capo vile:
E di sì scuro aspetto
Messami t' han rimpetto?
Rimpetto a me le rose,
I gigli, gli amaranti.
La mortella rispose:
È ver che i fior tu vanti;
Ma che sei poi nel verno?
Io col mio verde eterno,
Quand' anche è freddo il giorno,
Gli ampj viali adorno.
Or che a pregiar più s' ha?
Tua gracile beltà
Che nata appena muore,
O questa mia verdura
Che nell' iberno orrore
Rallegra ancor natura?
CXXI.
Il Marmo e la Stilla
Di marmo un pezzo enorme,
Così duro e ostinato,
Che indarno avean tentato
Dargli contorno e forme
E due scalpelli e tre,
Giacea, ma con orgoglio,
D'aereo masso al piè,
Donde tra il caprifoglio
Scendeva giù tranquilla
D'ermo fonte la stilla.
Sempre nel loco stesso
Quella battea scendendo,
E il lieve urtar ma spesso
Giva sentiero aprendo;
E la marmorea schiena
Se n' accorgeva appena.
Già spuntan concavetti
Gli scabri circoletti;
Già quella nicchia e questa
L' umor trova e s' arresta;
Alfin la stilla casca
Nel seno d'una vasca.
Apprendi ad ottenere:
Sofferenza e maniere.
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