XXXVI.
L'Aquila e il Gufo
Mentre di notte amica
Dormían fra i cheti orrori
Gli augelli in piaggia aprica,
Da un cavo tronco fuori
Un gufo all' aer esce;
Vola, e a sè stesso incresce.
Oh ciel! che bujo è questo!
In suo triste linguaggio
Ei grida afflitto e mesto.
Non mai di sole un raggio?
Non per poco interrotte
L' ombre mai della notte?
A quel dolente grido
L' aquila risvegliossi.
E allo sportel del nido,
Sì dicendo, affacciossi:
Ed a che i sonni miei
Rompi con tanti omei?
Perchè ora è l'aer bruno
Ti disconforti e piagni?
Eh via taci, importuno:
E di che mai ti lagni,
Se in odio per costume
Hai tu del giorno il lume?
Come da me si suole,
Esci in su l' alba; e i rai
Del benefico sole
Tu pur goder potrai.
Ora t'accheta; o ch' io ...
Tu m'intendesti. Addio.
Luce dell' alma il vero
Al Sol si rassomiglia.
Com' aquile (io lo spero)
In lui fissar le ciglia
Su l'alba, o giovanetti,
Ciascun di voi s' aff'retti.
Per ergervi al suo lume
Capaci la natura
Occhi vi diede e piume:
Nè vogliate d' oscura
Notte, quai gufi stolti,
Restar nel bujo m voli.
XXXVII.
La vecchia Cerva
e il Volpone
Già da lunga stagione
Amica d'un volpone
D'indol empia e proterva
Era un' antica cerva.
E un dì la buona vecchia,
Deh porgi, disse, orecchia
(Troppo di te mi preme)
Alle mie voci estreme.
Era a morir vicina
Quella cerva meschina,
E tutto ad un che muore
Sen vien sul labbro il core.
Però, Senti, ella dice,
Se vuoi esser felice,
Il bene eleggi, e saggio
Fuggi il mal con coraggio.
Volea più dir; ma in gola
Insiem con la parola
Angoscioso un sospiro
Le soffocò il respiro.
Il volpon ch'era stato
Sempre uno scapestrato,
Che mal! gridò, che bene!
Del par tutto conviene;
E conchiuse ridendo:
Eh vaneggiò morendo.
Allegro quindi e gajo
Sen corre ad un pollajo,
Ove spera quel ladro
Metter tutto a soqquadro.
Eccolo; quatto quatto
Ei v' entra di soppiatto.
Ma qual romor vi s' ode?
Del pollajo custode
Un cau tra il capo e il dorso
Te l'afferrò col morso.
Indarno ei si dimena;
Chè dee la giusta pena
Pagar del suo delitto.
Allora ei grida afflitto:
Ah perchè mai fui sordo
Della cerva al ricordo!
E pur, che il ver dicea,
Il cor mel ripetea.
La lor voce ho schernita,
E ci perdo la vita.
L' idea del ben, del male
Nell' alma a tutti è infusa.
D' ignorarla si scusa
L' empio; ma ciò che vale?
Se ognora a suo dispetto
Scritta ei la trova in petto.
XXXVIII.
L'Anitra, la Talpa
e il Topo
La talpa in compagnía
Dell' anitra sen gia;
E con lor poco dopo
Terzo si aggiunse il topo.
Stava il topo ad udire,
Mentre intente a garrire
Erano l'altre due.
Pria ciascuno le sue
Narrò varie vicende;
Poi la talpa a dir prende:
Ah! dagli uomini sciocchi
Che me credon senz' occhi,
Qual onta mi si reca?
Io son senz' occhi? io cieca?
Io che veggo fin dentro
Del suol, se voglio, al centro?
E affè nemmen da lunge
Occhio uman là non giunge
Con voci clamorose
L' anitra le rispose:
L'uomo è pieno d'orgoglio,
E anch' io provare il soglio;
Ch' ei m'insulta e mi dice
Garrula cianciatrice.
E non riguarda intanto
Qual io godo bel vanto,
Del quale ei certo è privo;
Chè su la terra io vivo,
E vivo a mio talento
Nel liquido elemento.
Com' io (scoppii di rabbia)
Stanza nell'acque ei s' abbia.
E' non è maraviglia,
La talpa a dir ripiglia;
L'uom con ridicol salto
Un palmo appena in alto
Si solleva dal suolo;
E pur gli augei nel volo
Di superar si crede;
Quasi ei possa col piede
Scorrer tra gli astri e il sole
Tutta l' eterea mole.
Qui con grande schiamazzo
L' anitra esclama: Oh pazzo!
Indi al topo rivolta,
Che pur tacende ascolta,
Gli dice: E tu non ridi?
E lui pazzo non gridi?
Il topo veritiero,
Certo, rispose, è vero
Che le viscere ignote
Della terra non puote
L' uom veder; ch' ei nell' acque
Non vive, e al vol non nacque,
Pur quante io rôse ho carte!
In cui a parte a parte
Dall' uomo si disvela
Quanto racchiuso cela
E il sotterraneo mondo
E il vasto mar profondo,
E del ciel, delle stelle
Tutte le cose belle.
Di lunghe pene frutto
Il credo io sì; ma tutto
L'uom di natura il regno
Possedè coll' ingegno.
XXXIX.
Il Figliolino del
padrone e il Giardiniero
Del paterno giardin
Per le ajuole odorose
Il piccioì padroncin
Cogliea viole e rose.
Ma con esperta man
Pianta, sterpa, recide
Travagliando il villan.
Guarda il fanciullo e ride.
E a che, gli dice, a che,
Buon uom, tanti sudori?
Il fertil suol da sè
Ecco produce i fiori.
T' inganni; anzi che fior,
Senza le mie fatiche,
Gli rispose il cultor,
Ti produrrebbe ortiche.
Ah! perchè sia il terren
Di fior cortese e largo,
(Pensaci per tuo ben)
Di sudor lo cospargo.
Tu pur, tu pur così
Fra quanti all'anni e studi
Per esser saggio un dì
D' uopo sarà che sudi!
Ma qual n' avrai piacer,
Mio caro padroncino,
Se tanto io n' ho in veder
Fiorito il mio giardino!
Simile a fertil suol
Ben è la nostra mente.
Saggia sarà; ma vuol
Cultura diligente.
XL.
Lo Scolaro e l'Asino
Un fanciul di scuola uscia;
E in quel punto un asinello
Trapassava per la via.
Tosto esclama: Oh vêllo! vêllo!
E a lui corre come un pazzo
Con altissimo schiamazzo.
Animal dai lunghi orecchi,
Dice poi, su leva il trotto;
E con colpi ben parecchi
Or ne' fianchi, or sopra, or sotto,
In man preso il calamaro,
Punge il povero somaro.
Tutto ei s'agita e si scote,
E dà calci all' aria in vano;
E il fanciul più lo percote.
L'un di gioja, e l'altro insano
Par di rabbia, e un raglio fuori
Manda alfin de' più sonori.
Chi può dir, quanto ne rida
Lo scolaro? Oh voce amena!
Tra gli scherni e i salti ei grida:
Bene il basto in su la schiena
E la soma, o bestia sciocca,
Ti conviene, e il morso in bocca.
Fosse caso, o dal romore
Tratto fosse, in quell' istante
Sopravviene il precettore.
Si scolora nel sembiante
Il fanciullo tristanzuolo,
Ed abbassa gli occhi al suolo.
Ma il maestro: Olà! che vidi?
Con si barbaro disprezzo
L' asinel pungi e deridi?
Che al padron pur tanti è avvezzo
Apprestar servigi, e chiede
Poca paglia per mercede.
Ah, se meglio non attendi
Allo studio, e se con esso
A ben far tu non apprendi,
Alla patria ed a te stesso
Grave, un giorno ah meh d' assai
Tu di un asino sarai.
L' ignoranza o induce al male,
O più inutili ci rende
D' uno stupido animale.
E allo studio non s' attende,
Per cui sol da questo stato
Uscir, giovani, v' è dato?
XLI.
Lo Stornello e gli
Augelli
Entro il bosco nativo
Su le agitate penne
Uno stornel pervenne:
E tosto alza giulivo
Un grido; e agli altri augelli
Dice: Udite, o fratelli.
Messaggier vengo a voi
Di felice novella.
Credetemi; una bella
Città fatta è per noi
Colà fra il colle e il piano,
Dove è l' aer più sano.
In giro ella si stende;
E a renderla sicura
Tese maglie ha per mura;
Da cui non si contende
Del bel mattino al raggio
E all' aurette il passaggio.
Là cibo è in abbondanza
E il più scelto ad ognora;
Là il verde suol s' infiora;
E per ci asciai v' è stanza
Costrutta in nuova foggia,
E già più il' un v' alloggia.
Oh con che lieti canti
Quei cittadin canori
Spieganvi i loro amori!
Come a tutti gì' istanti
Colà ripeter s' ode:
Venite; qui si gode.
Su, miei fratelli, andiamo.
Se da voi fede acquista
Un testimon di vista,
Andiam, che più tardiamo?
Oh che dolce, oh che bello
Per noi viver fia quello!
Là certo io non mi reco,
Fra la gente pennuta
Una passera astuta
Disse con guardo bieco.
Se meglio non ci vedo,
Affè credo e non credo.
Cui gli altri: Uh! l' ignorante
Che sei! forse conviene
Trascurar sì gran bene?
Queste infeconde piante
Lascinsi omai; si vada.
Tu resta, se ti aggrada.
Colà tosto li guida
Lo stornel che precede.
Già la città si vede;
Eccola; già si grida;
Già sono in essa entrati;
Già si credon beati.
D'alto li mira appena
In capannuola ascosto
L' uccellator, che tosto
Con quanto egli ha di lena,
Quasi a predarli, il finto
Sparvier per l'aria ha spinto;
E lungo acuto fischio
V' accoppia. D' ogni lato
Fugge il popolo alato;
E per sottrarsi al rischio
Dà nelle reti, ahi stolto!
E resta in esse avvolto.
Scende l' uccellatore;
Gli slaccia; alcuni in gabbia
Chiude a fremer di rabbia;
Premendo agli altri il core
Senza pietà gli uccide:
Esulta intanto e ride.
La passera che il volo
Fermò da lungi, Ahi quale,
Disse, scempio fatale
Per l' errore di un solo!
La mia chiamar ben lice
Ignoranza felice.
Dell'ignoranza è figlio,
Di lei spesso peggiore,
O giovani, l' errore.
Ma deh! con qual consiglio
Schivarli ambo potremo?
Or or noi lo vedremo.
XLII.
Lo Struzzo e l' Oca
Per volar basta aver l' ali:
A uno struzzo disse un' oca:
Noi le abbiamo; e sol con poca
Pena agli altri augelli uguali
Noi possiam levarci a volo.
Su però, si lasci il suolo.
Cui lo struzzo. Tu t' inganni
E mal giudichi, rispose.
Là per vie sì perigliose
Ben trattar fa d' uopo i vanni.
Più: bisogno é ch' e' sien fatti
Come al moto, al peso adatti.
Tai non sono i nostri, amica:
Qui però sul suol si resti
L' oca allora: Oh quai pretesti,
Il mio ser fuggifatica,
Sai tu addurmi? e che? non giova
Che si faccia almen la prova?
In sì dir battè le penne,
E coi piè sforzossi in alto
Di levarsi; e fatto un salto
Su la terra a cader venne.
Con pari esito la stolta
Fe' il simil più d' una volta.
Ma lo struzzo: Ah cangia omai,
Dice a lei, cangia consiglio;
Per esporti a un van periglio
Tu ridicola ti fai,
E ti mostri (deh mi scusa)
Ignorante a un tempo e illusa.
D'ira l' oca avvampa e bolle,
Ché le par d' esser derisa.
Nello struzzo alfin s' affisa;
E siccome in su d'un colle
Eran essi: Or ve', gli dice,
Se volare a me non lice.
Io di qua mi slancio; e sotto
Delle penne l' aere stringo;
Pel ciel quindi a vol mi spingo.
Detto fatto, ecco di botto
Ali a terra e piedi e pancia
Comprimendo ella si slancia.
Giù nel pian v' era uno stuolo
D'anitrelle che la vide.
E fi! fi! gridando ride;
L' oca va per l' aria a volo:
Quando a un tratto la meschina
Cede, manca, e giù rovina.
Giù rovina a precipizio
Nella valle; e rolto il collo
Già vi dà P ultimo crollo.
Ma lo struzzo che giudizio
Miglior ebbe e raziocinio
Ben fuggì tanto esterminio.
Fuggir, giovani, volete
L' ignoranza e in un l' errore,
E il mal d' ambo ed il rossore?
Cauti ognor cercar dovete
Che a voi vengano in soccorso
Buon giudizio e buon discorso.
XLIII.
Il Toro e la Vacca
D' un fiumicello in su la destra sponda
Gía pascendo una vacca; e in su la riva
Sinistra un toro pur pascendo giva.
Tra lor di mezzo è l onda:
Però vago di fare insiem soggiorno
Il toro, cui d'amore
Stimolo acuto pungea forte il core,
Disse alla vacca un giorno:
Deh, mia cara, e fin quando
Sol di lontan noi ci starem guatando?
A cui la vacca: Amico, a te si sta
Di saltare di qua.
Fatti coraggio; ch' e' non v' è periglio.
Tu snello e sciolto sei;
E ben costì saltata io già sarei,
Ma troppoi'songrevaccia,e allatto un figlio.
Di farlo il toro non negò; ma chiese
Tempo a pensarvi un mese.
Oh cieli! un mese ancora!
Disse la vacca; ed il tuo ben mi chiami?
Ah non è ver che m' ami;
Tu vuoi veder ch' io di dolor mi mora.
No; raffrena lo sdegno,
Rispose il toro; osserva; or ora io vegno:
Al salto eccomi pronto. Amor mi guida;
E l'impresa è sicura.
E mentre ei così grida,
Tutto col guardo il fiumicel misura:
Prende quindi una corsa; e dalla sponda
Si slancia bravamente in mezzo all' onda.
Da un vortice ravvolto ivi nell' acqua,
Tardi pentito, e sì dicendo ei giacque:
Ahi cieco amore ne' giudicj tui!
Perchè il salto fatale io non sospesi
(Sconsigliato che fui!)
Non un sol, ma più mesi?
Il cor ti turba un vïolento affetto?
Pensa del toro incauto al rio periglio.
Ah sospendere il salto è buon consiglio;
Ché fallace è il giudizio, o ulmen sospetto.
XLIV.
La Lodola, il
Fanello e il Somaro
Contendea con un fanello
Una lodola nel canto:
Un somar pascendo intanto
L'erbe gía d'un praticello:
Essa il vide; e un personaggio
Lo stimò discreto e saggio.
E al fanel, Ve' quel cotale,
Disse, a cui nella misura
Degli orecchi fu natura
Più che agli altri liberale;
Se accettar vuoi la disfida,
Là si canti; ed ei decida.
Di venire, a lei risponde
Il fanello,io non rifiuto;
Chè, se come egli è orecchiuto,
Ugual senno in capo asconde,
Ritrovar non possiam nui
Miglior giudice di lui.
Ecco quindi sciolto il volo,
Ambidue si presentaro
Al cospetto del somaro.
Ei la testa alza dal suolo;
E da lor ben tosto ha intesa
Qual nel canto hanno contesa.
Alla prova, or su, ch'io v' odo,
Con un fare il più imponente
Disse il giudice valente:
Di bel canto anch' io mi lodo;
E d' un raglio acuto e strano
Eccheggiar fe' il colle e il piano.
D'una quercia entro le chiome
Sen volâr di là fuggiti
I due augelli sbalorditi.
Disser poi ridendo: E come,
S' e' non sa di metri e note,
Giudicar del canto ei puote?
Move a riso, se del canto,
Di così bell' arte ignaro,
Si fa giudice il somaro.
Ma ridicolo è altrettanto
Chi di ciò che male intende,
Farsi giudice pretende.
D'uopo è dunque che chi vuole
Giudicar dell altrui merto,
Appien sia dotto ed esperto.
Ahi però ch' oggi si suole
Dar sentenza su di tutto
Da chi appunto è meno istrutto
XLV.
I due Arcieri
Un arciero e un suo rivale
Prova fean di trarre al segno:
Già messo hanno entrambi il pegno;
Preso han già l'arco e lo strale:
Ma l' un d' essi ad arte é lento;
L' altro subito al cimento.
Questi a un tratto incocca il dardo;
E con quanta ha forza e lena
A sè il tragge; e vôlto appena
Fuggitivo al segno un guardo
Già lo scocca: ed, Ecco, grida,
Ecco vinto ho la disfida.
Va lo stral per l' aria a volo:
Pago in cor del proprio vanto
Ei con l' occhio il segue intanto.
Ma l' abbassa tosto al suolo;
Si confonde; arrossa in volto,
Chè nel segno ahi! non ha còlto.
L' altro allora l' arco tende;
Il pié ferma, il corpo libra;
Guarda, osserva, il colpo vibra
Alla fin: ma incerto pende;
E, benchè soave speme
Lo lusinghi, ancora ci teme.
Stral però mai d'arco uscito
Sì nel mezzo appunto appunto
Della meta non è giunto,
Come il suo; tal che applaudito
(Oltre il premio che n' ottiene)
Dal rival suo stesso ei viene.
Seí per dare alcun giudizio?
Prendi norma dall' arciero.
Troppo andrai lungi dal vero
Se tu il fai con precipizio;
Ma cautela usa ed ingegno,
Se pur vuoi coglier nel segno.
XLVI.
Il Bue creduto
reo e catturato
Predati aveva agni e caprette un lupo
Di fitta notte; e su d un prato, i denti
Rotando e l'unghie, strazia, sbrana, uccide,
E il ventre se n'empie ingordo e cupo:
D' ossa intanto e di lacere e languenti
Membra tutto cosparge il suol d'intorno,
E l'erbe e i fior di caldo sangue intride:
Sazia e non paga allin l' infame belva
Previen l'alba vicina, e si rinselva.
Ma un bue su l' apparir del nuovo giorno
Colà rivolge il piede;
Del fier macello i tristi avanzi vede;
Gela d' orror; con l' uno e l' altro corno
Tenta sgombrarne il prato; indi pentito
Alto mette un muggito;
E cosperso di sangue i passi move
Pascolo a ricercar più sano altrove.
Quand' ecco s' ode un belar lungo e misto
D'agni e di capre, e un abbajar di cani,
Che dal bue non lontani
Tutto han per sua sventura inteso e visto.
Ecco l'empio, ecco l'empio
Autor del crudo scempio,
Già da tutti si grida ad una voce:
E una copia feroce
Di mastin già l'insegue; e gia l'arresta
A lui dicendo, Ah traditor, sei còlto.
Che ingiustizia è mai questa?
O quale inganno v' ingombrò la mente?
Ai due cani rivolto
Disse l' ingenuo bue: sono innocente.
In giudizio il vedrem, con guardo bieco
Gli rispondon coloro; e, ad esso in gola
Troncando la parola,
Prigion senza più dire il traggon seco.
Di tal cattura il grido
Fra i greggi, fra gli armenti, in ogni lido
Si sparge: e il bue infelice
Reo per tutto si crede, e reo si dice.
Fallace il volgo spesso
È ne' giudizj suoi.
Temi il grido volgar; se insiem con esso
Tu pure errar non vuoi.
XLVII.
Il Bue in giudizio
Giudice siede un fier molosso; a lui
S' adduce il bue davanti:
Cani, capre ed agnelli ha circostanti
E testimoni e accusatori sui.
Pria del mattin costui
Era, dicon, sul prato,
Che del macello or fia per noi chiamato.
Noi vi giungemmo allora,
Che l'empio ancor non sazio
Del fatto orrendo strazio
Su i membri sparsi infurïava ancora.
Scoperto egli si vide: alto un muggito
Mise il fellon per rabbia; indi è fuggito.
Ma in van, ch' ora qui starsene a' tuoi piedi
Lordo di sangue il vedi.
Con occhio torvo e più che bragia rosso,
Ecco i misfatti tuoi,
Al bue disse il molosso:
Difenditi; se puoi.
L'ora, il luogo, il muggir, la fuga, il sangue
M' accusa, mi condanna;
Rispose il bue; ma l' apparenza inganna.
Un po' pria dell' usato
Di pascolo desio,
La sorte avversa, anzi un demón, crcd' io,
Cola mi trasse al prato.
La strage era seguita: il sanno i numi,
Se d'orror ne gelai:
E i mici lo posson dir miti costumi.
Sgombrar dei tristi avanzi il suol tentai;
Nè reggendomi il core,
Pria mugghiai di dolore;
Poi mossi il piè (ma in vano)
Pascolo altrove a ricercar più sano.
Il Molosso:
Ma chi fu delinquente?
Il Bue:
Nol vidi.
Il Molosso:
E tu nol sei?
Il Bue:
Sono innocente.
Il delitto è palese:
Gridan gli astanti allora; ei mente, ei mento;
E studia indarno mendicar difese.
Il giudice che vuole ir per le corte,
Fa chiudere il processo:
E il bue dannato è a morte,
Qual se fosse convinto e non confesso.
Oimé! dall' apparenza
Quante volte è tradita
La più bella innocenza,
E la fama ne va spesso e la vita!
Che conchiuderne or déi?
Se l' apparenza inganna,
Fidandosi di lei,
Mal si giudica, e peggio si condanna.
XLVIII.
Il Bue
riconosciuto innocente
La sentenza leral fu data appena,
Che un impensato evento
Tutta ad un tratto fe' cambiar la scena.
Zoppicante d' un piè, ma non con lento
Passo, chè a correr, come può, s' aita,
Del bue tratta al periglio
Una capra ferita
In mezzo ecco si fa del gran consiglio.
Di parlar ella chiede:
E tutti son così vaghi d'udire,
Che ognun l' orecchio tende,
Nè quivi alcun si vede
Fiatar, batter palpebra, o bocca aprire.
Benchè, come vedete, ella a dir prende
Piagata in questa coscia,
Benchè trista e dolente,
Benchè con grave angoscia,
Qua venni per salvare un innocente.
Il bue certo è quel desso:
Ah solo il lupo, ei solo è il reo, vel giuro;
E ben qui del suo dente ho il segno impresso.
Egli al favor del ciel notturno oscuro
Nel nostro penetrò mal chiuso ovile.
Quai non fé' prede e quante!
Ahi! che il caro mio figlio ancor lattante,
Il figlio mio fra tutti il più gentile
(Di dolor vengo meno)
Ei mi strappò dal seno.
Come belando mi chiedea soccorso!
Ed io, che in sua difesa
Mover volea, d'un morso
Fui da quell' empio in questa coscia offesa.
Frenetica di duolo, e fuori uscita
Dell' ovil, lassa! intorno oh quanto errai!
Perduto il figlio, in odio avea la vita.
Alfin sul prato allor mi ritrovai,
Che il lupo indi fuggía: giunsevi poi
Il bue dabbene: io questo
Vi dico solo; a voi
Di già palese è il resto.
Disse la capra. Con immote ciglia
Tacito ognun si resta,
Qual chi seco ragiona e si consiglia.
Poi di voci un susurro ecco si desta;
Ecco del bue sgraziato
Fassi ognun l' avvocato.
Ed a qual pro, dicean, l' orrendo eccesso?
Se il sangue abborre, e sol di fieno e d' erba
Egli si pasce, a che l' avrìa commesso?
Forse per nimistà? ma non si serba
In ogni nostro annale, in ogni istoria
Che la gente bovina è nostra amica?
E questi poi sì mansueto e pio,
Sì avvezzo alla fatica,
Come nutrir poteva odio sì rio?
Ah la capra non mênte;
Il bue certo è innocente.
Disse il giudice allora:
Il comun voto di buon grado ascolto.
Il bue tosto sia sciolto.
Ma il lupo? il lupo mora.
In bosco o in antro cupo
S' asconda, il reo si cerchi: al lupo, al lupo.
Appar da questa favola doversi
Per dar gindizio retto
La cosa esaminar da tutti i versi
E non da un solo aspetto.
Ben dunque a tutto ne' giudizj tuoi
Pon mente in pria, nè dir di te si possa
Che del senno di poi
N' è ripiena ogni fossa.
XLIX.
Il muro senza
fondamenti,
o la Vole e il Volpicino
D' una siepe avea riparo
Un giardin; ma troppo vano
Schermo ai furti è del villano:
E a' suoi servi un dì l' avaro
Padron dice: Affè ch'io tutti
Del giardin per me vo' i frutti.
Tal lo cinga un muro intorno
Che nè men non v' entri un topo.
Danar, gente, e quanto è d' uopo
Al lavor, nel nuovo giorno
Tutto io vo' che sia disposto.
Mano quindi all' opra, e tosto.
Dentro là di quel giardino
Dalla siepe non lontana
Una volpe avea la lana,
Una volpe e un volpicino.
Questi è solo in casa, quando
Il padron dà quel comando.
Quale, oimé, ci si prepara
Rio destin! tremando ei dice.
Sen vien poi la genitrice:
Fuggiam, grida, o madre cara;
Chè di muro cinto in breve
Il giardin tutto esser deve.
Dal padron l' intesi io stesso:
Ah fuggiam. — Ma la sagace
Volpe a lui: Via, datti pace;
Chè tra il fare e il dir v' ha spesso
Gran divario; ed or, mio figlio,
Non c' é, credi, alcun periglio.
Però cauto osserva e spia
Che si fa, quand'io son fuora:
Mel dirai poscia; e in su l' ora
Io saprò quel che a far sia.
Or, se il ciel sempre t' arrida,
Mangia, dormi e a me t' affida.
Sul mattin la volpe riede
Fuor di casa; intanto stassi
L' altro in guardia: e calce e sassi
E mattoni condur vede;
Materiali in somma a carra;
E alla madre ei poscia il narra.
Non parole, ma son fatti,
Dice a lei; che più si tarda
A fuggir? — la volpe il guarda
Come in cor, così negli atti
Amorosa; indi l' esorta
A fidarsi, e sì il conforta:
Tai lavori son pur lenti!
V è la linea da segnare;
V è la terra da scavare;
S' hanno a fare i fondamenti . . .
Da spïar, com' hai fatt' oggi,
Molto hai tu, pria che si sloggi.
L'altro dì per sue faccende
Fuor la volpe a uscir s' affretta.
Ponsi il figlio alla vedetta;
E gli orecchi e il guardo tende.
Ecco appar sui primi albori
Il padron coi muratori.
Dice lor l' uomo inesperto:
Alla siepe intorno, il muro
S' alzi, olà. Sodo e sicuro
È il terren: nè voglio io certo
Seppellir, troppo a me cari,
Sotto terra i miei danari.
Dunque, orsù, mano al lavoro.
L' asin leghisi, ove vuole
Il padrone, dir si suole;
E così fanno coloro.
Benchè il capo ognun tentenni,
Eseguiscono i suoi cenni.
Chi può dire, all' agitato
Volpicin per lo timore
Come in sen palpita il core?
Come a lui vien meno il fiato?
Ma la sera il lavor cessa:
Vien la volpe; Ah, dice, è dessa.
Tu mi dài, madre, la vita:
Ma, se non si fugge adesso,
Come avrai qui più l'ingresso?
Come quindi avrai l'uscita?
O in chi mai sperare ajuto
Quando il muro fia compiuto?
Certo il come io lo saprei,
Fassi a dir la volpe a lui:
Figlio mio, dai timor tui
Sono pur diversi i miei!
Temo io sol, se qui si giaccia,
Che a restar s' abbia alla stiaccia.
Muro senza fondamenta
Tosto fia che giù rovini;
Noi siam troppo a lui vicini:
Ecco ciò che mi sgomenta;
Partiam dunque. — Ed ambo a un tratto
Di là presero lo sfratto.
Ben la saggia il ver predisse.
Poco il muro in pié si stette;
Ch 'ei crollò, s' aprì, cadette,
Prima ancor che si compisse;
E restò la tana anch' essa
Tra le sue rovine oppressa.
Fabbricar sul falso? e come
Potè mai quello stivale
Far pazzía sì bestiale?
Mio lettor, si cangi il nome;
E vedrai chc forse ridi
Di te stesso: odi e decidi.
Su principi falsi o lievi
Ergi il tuo ragionamento?
A lui manca il fondamento;
E, ch' ei cada, attender devi.
Togli sol che avvien più spesso,
Ed è iu tutto il caso istesso.
L.
La casa che
rovina, o il Topolino
e il Topo vecchio
Fu chi disse, e disse bene,
Che, qual suole in ramo fronda,
L' un pensier l' altro seconda:
Ecco appunto e' mi sovviene
D' altra fabbrica che in più
Non si resse e giù cadè.
D'una casa or parlo, e questa
Fondamenti avea sicuri;
Ma nel fare i piani e i muri
Mal si usò livello e sesta
Quindi fu che a lei mancò
L' equilibrio e rovinò.
Ahi però, che un imprudente
Topolin vi restò sotto
Tutto quanto pesto e rotto!
Io la sua storia dolente,
Giovanetti, se il gradite,
Vo' narrarvi; or voi l' udito.
Una casa bella e nuova
Vide già quel topolino;
E ad un topo suo vicino
Vecchio e saggio a Intta prova,
Oh qual mai sorte felice!
Abitarla io voglio. ei dice:
Vien tu pur. — Ma il saggio vecchio,
Il ciel guardimi, rispose:
E le luci in lui pietose
Affissando, Ah porgi orecchio,
Gli soggiunge, ai detti miei.
Troppo incauto, oimè! tu sei.
Figlio, udirmi non t'incresca,
Chè così già un tempo anch' io
Far solea con l' avo mio
Nell' etade mia più fresca;
Ed oh quanti (i suoi consigli
Perchè udia) schivai perigli!
Questa casa è nuova e bella,
E ad entrarvi ella t' invita:
Ma, se cara t' è la vita,
(E sì un vecchio a te favella
Che non mai favella in vano)
Fuggirai da lei lontano.
Come vuoi che regger possa?
Ve' che in fuor là d'alto pende;
Che in più lati già si fende
Sbilanciata. Ah, se una scossa
Vicn che l' urti ancor che lieve,
In rovina andar sen deve.
Di tal detti persuaso
Non rimane il pertinace
Topolin; ma pensa e tace:
Ed un po' così rimaso,
Altri fe' per me le spese,
Nè godrolle? a dire ei prese.
Eh! l' età fredda e cadente
Di perigli è sol presaga:
Ma di far suo stato è vaga
L' età nostra intraprendente.
Io pel crine ho già la sorte,
E temer dovrò di morte?
In sì dir la coda scosse:
Vibrò gli occhi; alzò gli orecchi;
Salti fe' qua e là parecchi;
Vèr la casa altin si mosse:
Nè al buon vecchio un guardo volta,
Che gli dice: Ah ferma, ascolta.
Posto ha in essa appena il piede
Che di nubi un denso velo
Di repente asconde il cielo;
Cupa calma indi succede;
Poi di venti orribil mischia:
L'aria ondeggia e freme e fischia.
Saggio il topo (e l'indovina)
Alla tana si ritira:
Ma del turbo esposta all' ira
Giù la casa va in ruina;
E vi resta il malaccorto
Topolino oppresso e morto.
Sieno solidi e veraci
I principj su cui posi
Il discorso; ma non s' osi
Trarne poi torte e fallaci
Conseguenze: e pur di questa
Usan gli erapj arte funesta.
Di sì stolidi architetti
Ben le fabbriche ad un solo
Urto andran disperse al suolo.
Ma voi lungi, o giovanetti:
Non fuggite? Ahi malaccorti!
Resterete oppressi e morti.
LI.
Neuton o la
'caduta, di un Pomo
Nel suo giardin soletto
Di bella luna al raggio
Neuton, dell'Anglia il saggio,
Passeggiava a diletto.
Scosse, cred' io, le piante
Fean plauso a sì grand' uomo;
Quando gli cade un pomo
Sul capo meditante.
Oh ve', dice; ed arresta
Il piasso; Oh ve' fortuna!
E non potea la luna
Cadermi in su la testa?
Strano pensier, che un riso
Gli chiama passeggero
In sul labbro severo:
Poi si fa serio in viso.
Pensa ... esamina ... e dice:
Che scorgo io mai da lunge?
Ripensa ... indi soggiunge:
Oh! che veder mi lice!
Sì, sì, veggo la certa
Finora ignota legge,
Che l' universo regge:
Eccola; io l'ho scoperta.
Già il mio pensier non erra.
Quale il pomo, la stessa
Legge ha la luna; anch' essa
Gravita in vèr la terra.
Dir quindi pur si vuole,
(Né sogno è di poeti)
Che la terra e i pianeti
Gravitan verso il sole.
Tosto al suo studio ci riede:
Quivi calcoli e prove;
Quivi scoperte nuove;
Quivi e che mai non vede?
Ah di quel pomo al pondo,
Alla caduta, al lieve
Urto tulio si deve
Il sistema del mondo.
Così da ciò eh' è noto,
Una mente che sa,
A discoprir si fa
Ciò ch' a tutt' altri é ignoto.
LII.
La Rondine e gli
Augelletti
Una rondine avea
Più d' un mar valicato;
E deluder sapea
Quante al popolo alato
In cento e cento modi
Dall' uom si tesson frodi.
Veduto quindi un giorno
D' augellini uno stuolo
Che giva d' ogn' intorno
Spiegando incauto il volo
Senza tema o sospetto,
Pietà le nacque in petto.
Fermatevi: sentite;
Lor disse; ah se sapeste
Quai vi son trame ordite,
Certo voi non andreste
Ad incappar sì lieti
In lacci, in panie, in reti.
Per voi così inesperti
Deh quai son tesi inganni!
Io che gli ho discoperti,
Temo sui vostri danni;
Peggio poi, se v'alletta
O zimbello o civetta.
Rimasero a tai detti
Immobili in su l'ali
Quei vaganti augelletti;
E, come tanti mali
Schivar, con gran bisbiglio
Chiedeano a lei consiglio.
Facil non è l'intento,
Diss' ella, e me ne duole.
Si chiede a ciò talento;
Riflessïon vi vuole,
E lunga esperienza:
Ma voi ne siete senza.
Dunque fa d'uopo, o cari,
D' alcun che v' ammaestri:
Su, docili scolari,
Lasciate che io v' addestri;
E porrò in uso ogni opra,
Fin che tutto io vi scopra.
E che? su forti penne
Ciascun di noi già vola,
(A lei risposto venne)
E andrem tuttora a scuola?
Ben la stagion fiorita
A lutt' altro or ne invita.
Dissero; e con un fischio
Via sen fuggiro. Ahi stolti!
Chè furo o presi al vischio,
O in laccio o in rete avvolti;
E divenner ben tosto
Di ghiottoni l' arrosto.
Ditemi, o giovanetti,
Al natural voi stessi
Negl' incauti augelletti
Non ravvisate espressi?
Ugual certo è il periglio,
E ugual vi do consiglio.
Poco, qual siete, esperti,
Sciogliere non vogliate
Le penne a voli incerti;
Ma pria l'arte imparate
Che scopre ove si cela
L'errore, e il ver disvela.
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