Fab.1
I compagni di
Ulisse
(Al signor duca di
Borgogna)
O dei Numi immortali unico oggetto
e cura e amor, a me date ch'io possa
i vostri altari, o Principe, quest'oggi
di qualche profumar nobile incenso.
È un poco tardi e a me scendono gli anni
ahimè! già troppi, onde il mio spirto giace
languido e stanco, mentre in voi ribolle
e cresce e grida giovinezza e vola
come avesse cent'ali.
Il grand'Eroe,
dal qual traeste qualità sì belle,
non arde men, quando lo chiama il suono
della bellica tromba, e a lunghi passi
andrebbe solo a stringer la vittoria
entro la man, ove non fosse un dio
(il gran Luigi, io dico, avolo vostro)
che il trattenesse. Vincitor del Reno
in un breve girar di soli il mondo
lo vide, quando fulmine di guerra
scese con arte, che sarebbe ardita
oggi, e fu bella al minacciar dei mali.
Ma basta, Signor mio. Riso ed Amore,
che in casa vostra sono i tutelari
geni e vi seguon sempre ombre fedeli,
non aman le noiose litanie.
Altri Dèi favorevoli governano
le cose vostre, io dico la Ragione
ed il Buonsenso con sicuro impero.
Se voi li consultate, a voi diranno
qual senso ascoso si rimpiatti in fondo
di quel racconto, in cui detto è dei Greci
che, pazzi ed imprudenti, entro condotti
alle vane lusinghe, in sozze e cieche
bestie cangiaron l'immortal natura.
Dopo dieci anni di sofferti affanni
i compagni d'Ulisse in preda al vento
ivan perduti e di lor sorte incerti;
quando approdâr ove sua corte tiene
con lusinghieri inganni
Circe, figlia del Sol. In un momento
per opra di velen dolce e sottile
a lor guastò le vene
e tolse il lume di ragion. Ed ecco
non molto tempo dopo,
a qual spuntan le corna, a quale il becco,
chi diventa elefante, orso o leone,
e chi ridotto in picciola misura
ti piglia la figura
d'una talpa, d'un rettile, d'un topo.
Soltanto Ulisse, al qual diede natura
astuto accorgimento,
sfuggì della malvagia al tradimento.
E poi che unisce a saggio accorgimento
alto valore e nobile figura,
a veleno opponendo altro veleno,
trasse la maga in quel soave ardore
che sforza a favellar voci d'amore.
Nessuna dea, si dice, può nascondere
la fiamma ch'ha nel core.
Ulisse prese la parola al volo
e comperò il riscatto facilmente
di tutta la sua gente.
- Vorran essi tornar, - dicea la diva,-
alla sembianza loro primitiva?
Per me poco lo credo,
ma di farlo, se credi, lo concedo.-
Subito Ulisse vola
dove sen stanno come porci in brago
i suoi compagni e dice: - Ogni veleno
ha il suo rimedio e questo io tengo in mano.
Di voi, se alcuno è vago
di ripigliar l'antico volto umano,
parli, ché ridonata è la parola.
Parla il Leon, credendo di ruggire:
- Per me non son sì matto,
e rinunciar non voglio ad ogni patto
ai beni che acquistai nel divenire
Leon con ugne e denti,
che fan tanta paura ai prepotenti.
Oggi son re; ma se si cangia il fato,
e torno ancora cittadino d'Itaca,
il re ritorna un umile soldato.-
Ulisse allora si rivolge all'Orso
e: - Amico, - esclama, - o amico poveretto,
quanto mutato d'animo e d'aspetto!
- Qual male? - all'uomo saggio
rispondeva il buon Orso in suo linguaggio.
- Per orso son ben fatto,
né devi giudicar che il bello sia
soltanto in una forma e in armonia
col tuo giudizio ovver col tuo ritratto.
Che se non credi ancora,
dimandalo a quest'orsa che mi adora.
Se ti dispiace, va',
lascia ch'io goda in pace
il mio far nulla e la mia libertà.
È bello quel che piace.-
Ulisse, il greco principe, si volta
al Lupo e, prevenendo la risposta:
- Fratello, - dice, - ah! quanto al cor mi costa
che tu sia così tristo doventato.
Tu fosti valentuomo un'altra volta
pronto a salvar gli armenti,
ed ora, Lupo cieco ed arrabbiato,
le pecore spaventi,
e di tue stragi fai pianger la bella
gentile pastorella.
- E ciò che importa a me, padrone Ulisse?-
il tristo Lupo disse.
- E tu chi sei, che a me parli d'amore
e sensi di pietà?
Senza di me non vedo forse gli uomini
mangiar montoni e pecore
e nei villaggi spargere il dolore?
Uomo posso tornar, ma non umano,
per la mia fe', s'io miro
come in fraterne stragi l'uom deliro
insanguina la mano,
e Lupo di se stesso anche diviene.
Tutto sommato adunque il male e il bene,
visto, considerato
che scellerato vale scellerato,
e che d'essere Lupo ancor conviene,
non voglio cangiar stato.-
A quanti Ulisse fece la proposta
non ebbe altra risposta.
Grandi e piccini tutti preferivano
la libertà, l'aperta
aria dei boschi e il far quel che più pare
alla gloria difficile ed incerta
delle belle virtù.
E mentre si credean dai ceppi liberi,
cadevan di se stessi in servitù.
Avrei voluto, o Principe, un felice
argomento inventar, nel qual commisto
fosse l'utile al dolce: ma vi è noto,
Signore, come forma non si accorda
molte fiate all'intenzion dell'arte.
Ben venga Ulisse co' compagni suoi,
io dissi alfin, di cui l'esempio è vivo
ancor nel mondo; questi stolti (e sono
molti i seguaci) avran nell'alto e santo
sdegno del vostro cor giusto castigo.
Fab.2
Il Gatto e i due Passeri
Al signor duca di Borgogna
Fin dalla prima infanzia
un Gatto e un Passerino
all'ombra degli stessi Dèi penati
vivean, l'un nella gabbia,
e in un canestro l'altro a lui vicino.
Le mie due care bestie
facean spesse baruffe
col becco l'una e l'altra colla morbida
zampa. Non eran zuffe
tremende, no, che il tenero gattino
non armava d'artigli lo zampino.
Spesso con colpo secco
il Passero col becco
dai ferri gli rispose,
ma il Gatto compativalo.
Tra vecchi amici è sempre buono ed utile
non inasprir le cose.
Eran cresciuti insieme
in lunga consuetudine,
e più che in lotte estreme
finian le lotte in giochi ed in facezie.
Un giorno arriva a un tratto
un Passero a trovar il Passerino,
e ruppe l'armonia che il giusto Gatto
avea col suo vicino.
Mi spiego. Tra i due passeri seguia
ben presto una discordia:
e Mangiatopi disse: - In fede mia,
ad insultar costui vien l'amicizia.
Non voglio che un estraneo
venga a strozzar il mio vecchio vicino.
No, pei gatti immortali! - e frammischiatosi,
fece del tristo uccello un bocconcino.
Ma intanto ch'ei rosicchia
il forestiero uccello,
- Perbacco! - dice in cor, - un fegatello
scommetto che non è di questi passeri
più molle ed eccellente.-
E questa riflession naturalmente
indusse il Gatto scaltro
a rosicchiar in pace anche quell'altro.
Qual morale si può da questo fatto
tirar, lettori miei? Senza morale
la favola è un boccone senza sale.
Non è difficil spremerne l'estratto,
ma non vorrei sbagliare.
A voi lascio, Signor, l'indovinare.
Son giochi adatti al vostro genio; è stanca
la Musa e quello spirito le manca
che brilla in voi, Signore;
con lei son stanche tutte l'altre suore.
Fab.3
L'Avaro e la Scimmia
Un certo Avar (e sai che la passione
porta al furor) amava il mucchio grosso.
E ver che s'io non posso
usarlo, anche un tesor è inconcludente
e meno che niente,
ma quell'Avar specchiavasi nell'oro,
ne' suoi ducati, nelle sue doppione,
che del mare deserto su una riva
in un sicuro luogo custodiva.
Ben difeso dai ladri, ivi il vecchietto
s'inebriava d'un piacer, che a me
può mettere dispetto,
e a lui pareva invece un paradiso.
Solo, chiuso, dagli uomini diviso,
ei tutto il tempo suo solea passare
a contare, a contare, a ricontare.
Ma per quanto pigliasse immenso gusto,
non sapea dir perché,
il conto non venivagli mai giusto.
Stavolta la ragion era una Scimmia
più saggia, a senso mio, del suo padrone,
che, mentre egli era fuori, divertivasi
a gettare nel mar delle doppione,
che il vecchio, chiuso l'uscio a doppia toppa,
lasciava sulla tavola,
e ciò facea la somma sempre zoppa.
S'io confronto il piacer che questa bestia
provava nel gettare il suo denaro,
con quello dell'avaro,
non so qual sia più bello e più di spirito.
La gente anzi dimostra simpatia
(lasciamo star se è cosa ragionevole)
a chi più butta via.
Un dì che si sentiva Bertuccina
di far qualche dispetto,
prese un ducato nuovo dal sacchetto,
e quindi una sterlina
e quindi ancora delle piastre belle,
e con queste rotelle,
che fanno tanto correre i mortali,
giocava alle piastrelle.
È tanto il gusto e tanta
la sua rapidità,
che il mucchio a poco a poco se ne va.
Quando a un tratto il padron fe' risonare
la chiave nella toppa
e pose fine al gioco singolare.
Madonna Bertuccina molto destra
avria fatto volar dalla finestra
tutto l'argento fino e tutto l'oro,
gettandolo nel mar che tutto inghiotte,
e che di barche rotte fa tesoro.
Io nutro la speranza
e prego il ciel che meglio me li spendano
certi nostri ministri di finanza.
Fab.4
Le due Capre
Quand'han mangiato, tratte da uno spirito
di libertà, le Capre ecco si sbandano
qua e là su per le bricche più deserte
in cerca di fortuna.
In luoghi senza strade e su per l'erte
rocce e su balze aeree,
che a vederle ti metton raccapriccio,
vanno queste signore ad una ad una
senza paura a spasso per capriccio.
Due Capre dal piedin sottile e candido,
ciascuna per suo conto, in luoghi andavano
tranquilli ed isolati dalla gente,
quando il caso le fece viso a viso
incontrarsi sul ponte d'un torrente
fatto d'un'asse sì meschina e stretta,
che a stento vi passava, io son d'avviso,
non che due grosse capre, una capretta.
Aggiungete che l'onda rapidissima
e assai profonda alle cornute amazzoni
dovette un poco far tremare il petto.
E tuttavia comincia una di qua,
e poi l'altra di là
a fare un passo su quel tronco stretto,
nessuna indietro torna
fin che quasi si toccan con le corna.
Così Luigi il Grande immaginatevi
che con Filippo quarto re di Spagna
s'incontrò un dì nell'isola,
che della Conferenza il nome prese.
Le nostre avventuriere già si toccano,
naso a naso, già vengono alle prese,
per non ceder nessuna, in mezzo al ponte,
entrambe fiere, insofferenti, impronte.
Ciascuna avea la gloria
di contare nel quadro di famiglia,
l'una la capra celebre
di cui, narra l'istoria,
fece un don Polifemo a Galatea,
l'altra quella che a Giove fe' di balia,
non men nota, Amaltea.
Con questi precedenti, anzi che cedere,
nell'acqua tutte e due precipitarono.
Avvien che spesso accada
questo accidente a chi della fortuna
cammina sulla strada.
Il Gatto e il Topo
Al signor duca di Borgogna che aveva chiesto
a La Fontaine una favola
Per obbedir al giovinetto principe,
al qual propizio invoco oggi il Destino,
io devo intitolar questa mia favola
il Gatto e il Topolino.
Che devo dir? dipingerò di femmina
crudele il lusinghier dolce ritratto,
che con un cor si gioca, come vedesi
col Topolino il Gatto?
O pingerò della fortuna instabile
gl'inganni, da cui tratto è il poverino,
siccome tratto a perdizion di solito
dal Gatto è il Topolino?
O canterò d'un re, che vince e domina
della Fortuna anche il capriccio matto,
che ne arresta la ruota e allegro ridesi
de' suoi nemici come fa per celia
del Topolino il Gatto?
Ahimè! per questa strada io perdo il bandolo
e giro come ruota di molino,
se delle ciarle mie si ride il principe,
egli il Gatto sarà della mia favola
che burla il Topolino.
Fab.5
Il vecchio Gatto e il Topolino
Un Topolino senza esperienza,
caduto nelle zampe a un vecchio Gatto,
ne implora la clemenza
e crede di commuover Mangiaratto.
- Pietà, lasciami vivere,
un topolin sì piccolo
non può recar offesa
alla casa e al padron esser di spesa.
D'un chicco io vivo al moderato prezzo
e d'una noce m'arrotondo tanto
che quasi crepo in mezzo.
Son magro, aspetta almeno
a darmi a' figli tuoi
quando sarò più pieno.-
Così pregava il povero animale,
ma l'altro: - Caro, addio,
ti pare naturale
un tal discorso fatto a un pari mio?
Saresti men balordo
se la contassi a un sordo.
Gatto e vecchio giammai non la perdonano.
Muori dunque e discendi a raccontarla
questa tua bella ciarla
alle tre filatrici del diavolo.
I figli miei ci penseran da sé,
intanto io penso a me -
Se vuoi che una moral adesso stringa,
è questa: - Giovinezza si lusinga
e spera d'ottener sempre pietà,
ma la vecchiezza viscere non ha.
Fab.6
Il Cervo malato
Nel paese dei cervi un ricco Cervo
cadde malato. Accorrono gli amici
al mesto capezzale
a visitarlo e voglion sollevarlo,
o almeno consolarlo.
- Ma, cari amici, - esclama l'animale,
che già si secca della cortesia, -
cessi il pianto e lasciate ch'io men vada,
come van tutti, anch'io per la mia strada.-
Ma niente affatto. Quella processione
non si partì dal letto,
se non ebbe compiuta la missione
di togliere il respiro al poveretto.
E quand'ebbe compiuto il suo dovere,
andò, ma volle bere
prima alla fonte e pascolar nel prato
del povero malato,
e bevi e mangia, ed erba mangia e strame,
non lasciarono al Cervo che la via,
o digiunar, oppur morir di fame.
Così fanno a questi lumi
anche i medici e coloro
che ti curan la coscienza
e ti costano un tesoro.
O che tempi, o che costumi!
Ma che far? ci vuol pazienza.
Fab.7
L'Anitra, il
Cespuglio e il Pipistrello
Un'Anitra, un Cespuglio e un Pipistrello,
non trovando fortuna nel paese,
fanno una lega ed a comuni spese
vanno in cerca d'un sito un po' più bello.
Con agenti e commessi una gran banca
aprirono e un'azienda, in cui non manca
un registro, una penna, un calamaio.
Ma sul più buon scoppiò subito un guaio.
Tirato in stretti gorghi il capitale
e in un mar pien di scogli, in un momento
precipitò nel baratro infernale,
che dal volgo si chiama fallimento.
Ma il mio terzetto non strillò. Sapienza
è invece d'ogni straccio di mercante,
quando perde, di far sempre sembiante
che guadagna e salvare l'apparenza.
Ma questa volta il tonfo è così grande,
che la voce in un subito si spande:
senza denari, credito e soccorso,
eran ridotti a far ballare l'orso.
Con sbirri, e carte, e citazioni intorno,
con creditori indocili, indiscreti,
un momento non erano quieti
dallo spuntare al tramontar del giorno.
E congiuravan per trovar appigli
di non pagar; ma inutilmente, credi,
il Cespuglio cacciavasi fra i piedi
della gente per chiedere consigli;
tormentato dai birri iva anche lui
il Pipistrel negli angoli più bui,
e l'Anitra tuffavasi nel mare
la mercanzia perduta a ricercare.
Conosco debitori, che non sono
Pipistrelli, non Anitre e Cespugli,
ma nobiloni, i quali han questo dono
d'uscir per la scaletta dei garbugli.
Fab.8
Lite
dei Cani e dei Gatti, dei Gatti e dei Topi
Sempre nell'universo la Discordia
regnò sovrana in tutti quanti i tempi,
come a mille dimostrano gli esempi.
L'aria, l'acqua, la terra, il foco stridono
sempre fra lor, ed oltre agli elementi,
non si fanno la guerra anche i viventi?
Ho sempre e in tutti gli ordini veduto
la gente a questa dea pagar tributo.
Con decreti solenni e indiscutibili
tra i molti Cani d'una casa e i Gatti
fu messa un po' di pace, a questi patti:
che chi mancasse agli ordini e alle regole
dei pasti e delle varie occupazioni
provasse della frusta le ragioni.
In un momento le bestie ribelli
divennero cugini, anzi fratelli.
Quest'amicizia così dolce e armonica
valea per gli altri più che le parole,
ma non durò più che la neve al sole.
Per cagione d'un piatto, od anche dicono
per un osso concesso a un prediletto,
scoppiò di nuovo la tempesta in ghetto.
(Qualcuno parla di parzialità
verso una cagna incinta e chi lo sa?)
Comunque avvenne, questa babilonia
mise sossopra, a chiasso ed a rovina
il granaio, la sala e la cucina.
Si radunano i Cani e si lamentano
i Gatti, perché dicon che si fanno
violazioni tutte a loro danno.
Ribeccan gli avvocati e infin si vuole
vedere del decreto le parole.
Vanno dunque a cercar la cartapecora
che stava in un cantuccio sotterrata,
ma i topi se l'avevano mangiata.
Onde nuovo fracasso e nuove smanie
dei Gatti contro il popolo sorcino,
che vide decretato il suo destino.
I vecchi Gatti astuti, dalle buone
gambe, la casa tutta ripulirono.
Chi guadagnò stavolta fu il padrone.
Tornando al tema io dico che natura
ha stabilito ch'ogni creatura
abbia il suo contrapposto, e inutil è
di queste leggi il chiedere un perché.
Iddio fa ben ciò ch'egli fa, ciò basti,
umane genti, a vostra salvazione.
Il perder tempo sulle parolone
e a decifrar difficili contrasti
è cosa che vi stanca
e fa la barba bianca.
Fab.9
Il Lupo e la Volpe
Al signor duca di Borgogna
Come avvien che del suo stato
non vi sia nessun contento?
Dal soldato spesso sento
invidiato
chi vorrebbe esser soldato.
Che una Volpe cerchi e voglia
far da lupo è naturale,
ma chi sa che non esista
qualche Lupo originale,
che in suo cor non trovi bello
il mestiere dell'agnello?
Fanciulletto questa cosa
hai narrato in bella prosa,
o gentil principe mio.
Oggi indarno provo anch'io,
vecchio bianco, all'argomento
far coi versi un ornamento.
Ardua impresa a quei che esprime
coll'impaccio delle rime
dare il garbo e dar quel sale
che tu versi naturale.
Pastor semplice qual sono
sulle canne io canto e suono,
e sebben non sia profeta,
il dover però m'incombe
in tua gloria un dì poeta
di dar fiato anche alle trombe.
Scritto è in ciel, e scritto è il vero,
che del principe cortese
le famose e grandi imprese
desteran più d'un Omero.
Il tuo core non c'incolpi,
se, lasciando i grandi eroi,
nel frattempo cantiam noi
lupi e volpi.
Disse al Lupo una Volpe: - O buon amico,
per il mio desinar non ho di solito
che qualche gallinetta o qualche antico
gallaccio miserabile
che a guardarlo ti toglie l'appetito.
In questo affar tu sei meglio servito,
e mentre intorno alle cascine io ronzo,
più libero tu vai pei boschi a zonzo.
Insegnami il mestier, Lupo mio bello,
e fa' ch'io sia la prima di mia gente
ad assaggiar la carne d'un agnello.
Vedrai che ti sarò riconoscente.
- Va ben, - rispose il Lupo, - è giusto morto
un lupo mio fratello,
andiamo e vestirai del vecchio morto
il ruvido mantello -.
E vanno, e dice il Lupo: - A te, mia cara,
a far la nuova parte adesso impara,
se vuoi sfuggire al fino accorgimento
dei cani dell'armento.-
La Volpe, tolta la sua pelle nuova,
ripete del maestro la lezione,
stenta in principio, ma prova e riprova,
impara il suo mestier a perfezione.
Quand'ecco arriva un gregge. Entra il novello
Lupo e vi sparge subito il terrore,
come Patròclo il dì, quando lo vide
entro l'armi vestito del Pelide
il popolo troiano, e vecchie e nuore
e madri tutte corsero a gridare
ai piedi dell'altare.
Così credette il popolo belante
veder cinquanta lupi in quell'istante.
Cani, pastori e pecore
fuggon lasciando un agnellino in pegno
che il falso lupo non pigliava a sdegno.
Se non che sul più buono,
udito un gallo a far chicchiricchì,
la Volpe pianta lì
la lezione, la pecora e il maestro,
e corre dietro di natura all'estro.
Che vale contraffare di natura
l'ingegno ed il formarsi un'illusione?
La vita all'artificio poco dura
e scatta sulla prima tentazione.
Da te, mio giovin principe,
ho preso l'argomento,
ho preso il sentimento e tal e quale
dialogo e morale.
Fab.10
La Gambaressa e sua Figlia
Io vedo spesso i saggi che fanno come i gàmberi:
quando toccar desiderano i più sicuri il porto,
camminano a ritroso. Così verso un contrario
punto coi remi tendono talvolta i marinari,
mirando a un altro, e intanto ingannan gli avversari.
Potrei questo mio tema con gran volo di penna
a qualche riferirlo nostro conquistatore,
che scioglie d'una lega a cento capi il bandolo
coll'arte sua segreta. Ancora non accenna,
e già fulmineo scende Luigi vincitore.
Invan cercano i popoli entro al suo cor di leggere.
Chi legge del Destino nel libro? è tempo perso.
Fatal trabocca il fiume e cento iddii son deboli
incontro a Giove. Io dico (e poi vengo alla favola)
che Luigi e il Destino conducon l'universo.
La Gambaressa un giorno alla figliola
dicea: - Come cammini? tu vai storta.
- E tu? - rispose la figliola accorta,-
come cammini? io sono alla tua scola.
Andar dritta non oso
dove tutti camminano a ritroso.-
Avea ragion, mi pare,
che l'esempio di casa tanto vale
nel ben, come nel male,
e fa gli stolti e fa gli uomini onesti
(ma più forse di quelli che di questi).
Del voltare le spalle or torno al tema:
e in certi casi, dico, è un buon sistema
che giova nel mestier anche di Marte,
purché si faccia a tempo e con buon'arte.
Fab.11
L'Aquila e la Gazza
Dall'aria la regina, io dico l'Aquila,
in compagnia di monna Berta un giorno
(sì diverse fra lor di vesti e d'anima)
volavan d'un bel prato verde intorno.
Giunte in un luogo alquanto solitario,
la Gazza ebbe timor; ma la Signora,
che si sentiva per quel giorno sazia,
con parole amorose la rincora.
Poi dice: - Se il buon Dio dentro le nuvole
s'annoia a contemplar le stelle e il sole,
anch'io posso annoiarmi che son l'Aquila
sua serva. Orsù, scambiam quattro parole.
Discorriamo, rompiam questa tetraggine,
sorella mia, con qualche fatterello.-
E volentier ciarlò Gazza pettegola,
qua e là mettendo il becco, in questo, in quello.
Quel tal ciarlon di cui racconta Orazio,
che il bene e il mal dicea d'ogni persona,
non sapeva che cosa fosse chiacchiera
di fronte a questa Gazza cicalona.
Ella ch'è buona spia, tosto s'incarica
di riferir le grandi novità,
ascoltando, girando, e quindi all'Aquila
ridirà tutto ciò ch'ella saprà.
Ma l'Aquila, che già freme di collera,
- Addio, - grida, - ciarlona, resta qui:
non voglio alla mia corte una pettegola;
e con piacer dell'altra sen partì.
Seder presso gli dèi non è sì facile,
come si crede, e costa immenso affanno.
Ciarloni, spie, persone a fondo doppio
a stento il posto lor vi troveranno.
Fab.12
Il Re, il Nibbio e il
Cacciatore
Al principe di Conti
Poiché son buoni, buoni desiderano
gli dèi che siano in terra i re.
Non perdonare, ma sol di fulmini
andar superbi santo non è.
Questa è legge per voi, Principe, in cui
non nasce quasi che già vinto muore
ogni corruccio. In ciò più che il Pelide
voi siete grande, il qual fu meno eroe
quel dì che schiava rese l'alma all'ira.
Di questo nome è sol degno colui,
che come già nell'aurea età, di mille
benefici beata empie la terra.
Pochi nascono grandi in questa nostra
umile etade, ed è sol grato il mondo
del mal che i grandi agli uomini non fanno.
Non che seguir questi comuni esempi,
per mille generosi atti, o Signore,
avrete più d'un tempio ove d'Apollo
del vostro nome suonerà la cetra.
Poi che sarete un secolo rimasto
nell'amplesso d'Imene in mezzo a noi
(né vuole oltre i cent'anni il desiderio
rimanere quaggiù) entro il palagio
andrete ove vi attendono gli dèi.
Imene intanto co' suoi dolci affetti
compone a voi corona ed alla sposa,
qual meritate, e qual possono i tempi
concedere quaggiù. Meno non vuole
l'alta bellezza di colei ch'è vostra,
né meno il valor vostro, onde nei primi
anni, senza rival, vi colma il cielo.
Nel suo spirto regale essa congiunge
e perfeziona ogni celeste incanto,
quel ch'è degno d'amor e in un di stima.
Ma per non dispiegar oggi ai profani
l'intime gioie, qui m'arresto e passo
a rimar quel che fece un uccellaccio.
Da vecchio tempo possessore un Nibbio
del suo bel nido, in mano
un giorno cadde a un Cacciator. Costui
presentasi al Sovrano
e pensa fargli un don degno di lui.
Ma l'uccellaccio, giunto innanzi al re
(se pure il fatto apocrifo non è),
sul naso gli saltò
coll'unghie e lo graffiò.
- Che! che! graffiar sua Maestà? Che caso!
Non aveva ei corona e scettro in mano?-
Che fa lo scettro e la corona? il naso
d'un re val quello d'ogni cristïano.
Corre, grida la gente
e si agita la corte,
ma impassibile il Re si mostra e forte.
Che strilli un re vi par forse decente?
Sopra quel naso lo sfacciato uccello
come nel proprio nido si accovaccia;
invan grida il padron e col zimbello
cerca attirarlo e invano lo minaccia.
Ridendosi di lui, dell'altra gente,
avresti quasi detto
che s'era persuaso
il Nibbio maledetto
di passar la sua notte dolcemente
su quella sacra maestà di naso.
Quando alfin si risolse e prese il volo,
- Lasciatelo partir, - disse il Sovrano,-
e parta anche costui, ma senza duolo.
Ognun fa come può, da nibbio in nibbio
e da villan villano.
Non resta dunque a me
che d'operar da re.-
Ammirano ministri e cortigiani
quella bontà che imitan così poco.
Quanti sono anche i re di questi tempi
ch'aman seguire i generosi esempi?
Il Cacciator partì, lieto che in gioco
finisca la faccenda, ed impararono
uccello e pastricciano
ch'è bene gl'illustrissimi
padroni riverirli da lontano.
Del resto io riconosco
ch'eran felici, se cresciuti liberi
non conoscean che gli uomini del bosco.
Nacque Pilpay che questa istoria scrisse,
sul Gange e sempre in quel paese visse
ove dell'animal sacra è la vita.
Nessun mortal, nessun osa dei re
spargerne il sangue e dicono il perché:
forse lo spirto egli è di qualche principe
che seme ad Ilio fu di grandi eroi,
ciò ch'egli fu non può diventar poi?
Secondo quel che predica Pitagora,
in un cogli animali cangiam noi,
oggi scorpioni od uomini
diman pesci o volatili
che solcan l'aria. e creda chi vuol credere.
Del Nibbio, o falsa o vera
che sia la bella favola,
la contan pure in quest'altra maniera.
Un falconier che preso aveva in caccia
un Nibbio (uccel difficile a pigliare),
al re ne fece dono,
come si fa colle cose che sono
più peregrine e rare.
Prender un nibbio vivo
è il non plus ultra per un falconiere,
e capita di rado di vedere.
Pien di smania e di zelo il Cacciatore
come non fu giammai
si mette in mezzo ai cortigiani e spera
trovar la maniera
di far la sua fortuna collo strano
uccello sulla mano.
Ma l'animal selvaggio, che non è
abituato agli usi del paese,
cogli artigli di ferro il naso prese
del suo padron e il viso gli graffiò.
- Ahi! ahi! - questi gridò.
Ridono i cortigiani e ride il re.
Il riso fa buon sangue e dico il vero
che non avria ceduta la mia parte
nemmen per un impero.
Che un papa sappia ridere
in fede mia non giuro,
ma un re col viso oscuro,
che storcere la bocca mai non sa,
mi fa proprio pietà.
Piacer dei Numi è il ridere,
e in mezzo al grave affanno,
che gli affari del mondo in ciel gli dànno,
ride il buon Giove e ridono
con lui tutti gli dèi che intorno stanno.
Così quel dì che zoppetto zoppino
venne col fiasco in mano
il dio Vulcano,
si sfasciò dalle risa, a quel che narrano,
papà Giove divino.
Lasciamo questa storia
e se gli dèi fecero bene o male:
e invece, della favola
tiriamo una morale:
ed è che fra i viventi
il numero maggior fu sempre ed è
dei falconieri sciocchi, che dei re
pietosi ed indulgenti.
Fab.13
La Volpe, le Mosche e
il Riccio
Sulle piaghe e sul sangue una ferita
Volpe, dei boschi vecchia abitatrice,
fuggendo, si traea quel parassita,
che in linguaggio volgar mosca si dice.
Ed accusava col destin gli dèi,
che a quella fin volesser condannarla.
È dura, che una Volpe come lei
dovessero le Mosche anche mangiarla!
- A sciami ecco si gettano, - dicea,-
su me, che son dei boschi la padrona,
e Dio la coda inutilmente crea,
se di cacciarle adesso non son buona.
È dunque questa coda inutil peso?
Oh! maledica il ciel questo importuno
animal, che ti succhia il corpo offeso
e dovrebbe succhiare un po' per uno. -
Rispose al malinconico lamento
un nuovo personaggio, il Riccio, il quale
d'infilzare si offriva a cento a cento
le Mosche colla punta dello strale:
- Poveretta, così libero te
da queste bestie che non han pietà.
- No, no, se tu lo fai, povera me!-
gridò la Volpe, - lascia, in carità.
lascia che mangin queste che son piene;
se le cacci dal corpo mio piagato,
un altro sciame subito ne viene
più feroce che ancor non ha mangiato.-
Aristotele aggiunse un po' di frangia
a questa fiaba e disse per morale
che il mondo è pien di gente che ci mangia,
cortigiani, avvocati e gente tale,
che nel paese nostro mangian meno
solo quando ciascuno ha il ventre pieno.
Fab.14
L'Amore e la Follia
Amor è un gran mistero:
mistero i dardi, la faretra, il foco,
e dell'infanzia sua mal noto è il vero.
Non io pretendo adesso
in pochi versi movergli il processo
e spiegar questa scienza, che, confesso,
vuol tempo per chi sa ben decifrarla.
Ma voglio colla solita mia ciarla
narrar soltanto come il cieco iddio
perdesse gli occhi e il mal che ne seguì,
un mal, che a parer mio
potrebbe essere un ben. Ma in questo affare
agli amanti rimetto il giudicare.
Amor giuocava un giorno in compagnia
della Follia.
Aveva il fanciullino in quell'età
aperti gli occhi ch'ora più non ha.
Nata una fiera disputa,
voleva Amor portarla innanzi ai Numi,
ma la Follia, perduta la pazienza,
gli die tal colpo che gli spense i lumi.
Venere, donna e madre, a quella vista
alza le strida e stordisce gli Dèi.
Giove dal cielo e Nemesi
e tutti insieme accorrono con lei
i giudici d'inferno.
La madre piange e narra della trista
l'orrenda azione,
e come il suo bambin non possa, ahi! moversi
senza bastone.
Non c'è pena sì grande,
che corrisponda ad opre sì nefande;
ma poi che riparata esser dovea
l'ingiuria, visto il caso, il danno, il male,
e visto l'interesse generale,
la corte mise fuori questa grida:
- Sempre Follia faccia all'Amor di guida!
Fab.15
Il
Corvo, la Gazzella, la Testuggine e il Topo
Alla signora de La Sablière
Bello io volevo un Tempio a voi, Signora, in queste
mie carte dedicare,
un Tempio su quell'arte divina fabbricare
che vince il tempo, al vostro bel nome assicurato.
Avrei scritto sull'arco: "Palazzo dedicato
ad Iride celeste."
Iride, non già quella
ch'è di Giunone ancella:
Giove e Giunone a questa saranno, sto per dire,
superbi di servire.
Avrei fatto nel mezzo tra raggi luminosi,
e tra gli dèi d'Olimpo, la vostra Apoteosi.
Dipinti andrìan dei fasti di vostra vita i muri,
segni non già d'oscuri e cupi avvenimenti
ai popoli presenti.
Ma in fondo al Tempio immagino nei dolci tratti il viso,
il guardo, il bel sorriso,
e quella che innamora
bell'arte di piacere che pur se stessa ignora.
A questo altar verrebbero, al solo cenno mio,
mortali, grandi eroi,
ed anche forse un dio.
Sì, ciò che il mondo adora
s'inchinerebbe a voi.
Il Topo, la Testuggine, il Corvo, la Gazzella
vivean insiem d'accordo in bella compagnia.
Un certo angolo oscuro asilo a lor offria
lontano dagli sguardi dell'uomo esploratore;
ma fruga l'uomo in fondo
del ciel, del mar, del mondo,
e nulla sfugge all'occhio indagatore.
Gazzella in bocca a un cane (strumento maledetto
che serve al gran diletto dell'uomo cacciatore)
un dì quasi cadea,
ma così ben fuggì che la sua traccia
perdette il can da caccia.
All'ora della cena disse agli amici il Topo:
- Gazzella ci dimentica, dov'è?
Noi siam soltanto tre.
- O Corvo, avessi l'ali, - soggiunse la Testuggine,-
e subito vorrei
volar, cercar di lei,
se mai cattiva stella
(il cor è un triste astrologo)
nuoce alla bestia dalla gamba snella.-
Il Corvo apre le penne e vola come il vento
e giunge in quel momento
che proprio la Gazzella poveretta
invano dibattevasi in una rete stretta.
Ai suoi compagni subito rivola
il Corvo e in vane chiacchiere
non perde il tempo, in come, in quando, in quamquam,
come farebbe un professor di scuola.
Ma tien tosto consiglio, e in esso vien trattato
che i due che son più lesti
si rechino sul luogo che fu da lui segnato,
e l'altra a casa resti
a custodir la porta. Testuggine è sì lunga
a camminar che ha tempo di morire
la poverina, innanzi ch'ella giunga.
E vanno il Corvo e il Topo là dove la compagna
Capretta di montagna sen giace prigioniera.
Invece d'obbedire
sen volle anche la stupida Testuggine partire
e muove alla sua povera maniera,
colla sua gamba corta
e con quel guscio che sul gobbo porta.
Va Rodicordicelle (il nome è di diritto)
i lacci a rosicchiare della gabbia.
Addio, Gazzella! Quando il cacciator rediva,
il Topo scompariva in una macchia,
il Corvo sopra un albero fuggiva,
Gazzella iva in un bosco ov'è più fitto
e il cacciator disfoga la sua rabbia
sulla lenta Testuggine che arriva.
- Tu pagherai per tutti, - gridò quell'uomo a modo,-
e della magra zuppa farai squisito il brodo.-
Ciò detto, in un suo sacco la ripone.
Ma il Corvo che sull'albero faceva da spione,
vola nel bosco in fretta
e chiama la Capretta
che uscì per un istante,
e fingendosi un poco zoppicante,
attrasse l'uomo a sé,
che per meglio inseguirla, in terra getta
il sacco e quel che c'è.
Rode la cordicella ancora e disviluppa
il Topo il sacco, e libera la sua minor sorella,
e lungo restò il brodo della zuppa.
Fab.16
La Foresta e il Boscaiolo
Avendo un Boscaiol rotto o perduto
il legno che fa manico alla scure,
non così presto v'ebbe provveduto,
che la Foresta
non facesse frattanto un po' di festa.
A lei quindi volgendosi, umilmente
la prega di voler lasciarsi un unico
ramo strappare molto dolcemente,
per poter fare un manico alla scure.
Promise pure
che sarebbe partito a cercar pane
in terre più lontane,
lasciando intatte l'alte querce e cheti
i venerandi abeti.
L'innocente Foresta all'uomo indegno
guarnì di nuovo legno
il luccicante acciaro,
ma il beneficio suo pagò ben caro.
Perché colui la sfronda e la dispoglia,
non dando ai rami teneri perdono.
Geme la selva del suo stesso dono.
Così fa il mondo e i suoi seguaci fanno,
che volgon spesso in danno
di quelli che lo fanno il benefizio.
Stanco son di parlarne e vado via,
ma tuttavia
qual uomo al mondo c'è che non si duoli,
vedendo i dolci rami in terra sparsi?
E se non piangi di che pianger suoli?
Invano io grido e chiamo alcun che m'oda:
abuso, ingratitudine
saran sempre di moda.
Fab.17
La Volpe, il Lupo e il
Cavallo
Una giovine Volpe, ma di quelle
che son maestre in ogni furberia,
la prima volta che incontrò per via
il Cavallo, esclamò verso un novizio
Lupo: - Vedessi, oh grande meraviglia!
Un grazioso animale ben formato
vieni a veder che pascola nel prato.-
E il Lupo: - Scusa, amica,
è più forte di noi? tu mi dovresti
a buon conto dipingerne il ritratto.
- Sol ch'io fossi pittor te l'avrei fatto,
per non tardare a te questo piacere,
ma vieni e lo potrai tosto vedere.
Chi sa che anche non sia
un buon boccon che il cielo ne riserba?-
E vanno, e in mezzo all'erba
trovan la bestia.
Un poco stette in dubbio
quando il Caval li vide,
se rimaner od infilar la via,
ché di tal gente non avea diletto.
Ma vien la Volpe e dice: - In cortesia,
il tuo nome qual è? con tuo rispetto
noi siamo servi tuoi.
- Il mio nome? - risponde lor con arte
il mio Cavallo, furbo la sua parte,-
il calzolaio l'ha voluto scrivere
sulla mia suola, e se sapete leggere -
Ma la Volpe si scusa: - Ahimè! di poveri
parenti son la povera figliuola,
e l'uscio non toccai mai d'una scuola.
Io leggere non so,
ma c'è qui messer Lupo, che di nobile
famiglia scende e legge senz'occhiali,
e questo pregherò.-
Lusingato il buon Lupo a udir cotali
elogi, al piede il muso avvicinò.
Ahi trista vanità!
Pronto il Cavallo un tal calcio gli sferra,
che sanguinoso in terra
coi denti rotti voltolar lo fa.
La Volpe esclama: - Ora bisogna credere,
fratello, a ciò che m'hanno predicato
e che sul muso questo t'ha stampato.-
Il saggio, la sentenza così grida,
di ciò che non conosce non si fida.
Fab.18
La Volpe e i Tacchini
Contro i frequenti assalti
d'una Volpe ai Tacchini era una pianta
fortezza inespugnabile.
La perfida sprecava i suoi bei salti,
che sempre in sentinella eran le bestie
contro le insidie. Ond'ella si rodea.
- Costor, - dicea, - si vogliono burlare,
ma per gli dèi! scommetto che una volta
o un'altra saprò ben farla pagare.-
E mantenne il suo dir. Splendea la luna
lucida a favorir l'accampamento
del tacchinesco esercito.
E la Volpe, maestra in argomento
d'assediar città,
ricorse al vecchio sacco delle astuzie.
Salta di qua, di là,
balla sui piè, fa il morto, fa il risorto,
con tanta abilità,
che nessun Arlecchin meglio non sa.
Spiega la coda al bel lume d'argento
ed i Tacchini in guardia sulla pianta
con cento lazzi incanta.
Ma il tener l'occhio fisso e sempre teso
in un oggetto fa che del nemico
si confonda la vista entro una nebbia
quasi di sonno; e tratto dal suo peso
qualcun già casca addormentato e stanco.
A lui la Volpe il fianco
addenta e il porta, nella sua dispensa.
Poi casca un altro, un terzo, e mezzo infine
l'esercito nell'ugne sue volpine.
La paura del mal è l'occasione
che tira qualche volta in perdizione.
Fab.19
La Scimmiotto
Un Scimmiotto di Parigi
prese moglie; ma il carattere
bestial del bestïone
fe' morir la buona scimmia
sotto i colpi del bastone.
Mentre i figli al triste fato
della madre versan lagrime,
il marito innalza grida
che diresti ch'egli rida.
E già cotto innamorato
d'altre scimmie
un'eguale cortesia
lor prepara di bastone,
mentre affoga la passione
dentro i fiaschi all'osteria.
O sia scimmia o sia scrittore
(e quest'ultimo è peggiore)
Dio ti salvi dalla greggia
della gente che scimmieggia.
Fab.20
Il Filosofo di Scizia
Per far la vita sua men lunga e trista
un rigido Filosofo di Scizia
correa la Grecia, quando venne un giorno
d'un vecchierello all'umile soggiorno.
Degno di grande riverenza in vista
pareva il vecchierel di cui Virgilio
narra, felice come i re, beato
come gli dèi nel suo povero stato.
Egli sen stava colla ronca in mano
nel suo giardin e agli alberi gl'inutili
rami toglieva e la crescente chioma,
felice più che adesso il papa a Roma.
Toglieva, recideva il troppo e il vano,
di qua, di là, sicuro: onde il Filosofo
gli chiese: - Perché strazi la natura?
- Perché, - disse, - mi paghi con usura.-
Sembrava al pellegrin poco da saggio
questo tagliar, quest'oltraggiar la vergine
natura colla falce. Basta il danno
che il Tempo fa colla gran falce ogni anno.
- Nessun, - rispose il vecchio, - reco oltraggio
rimovendo il superfluo, ma gli sterili
rami togliendo, fo che i sani arbusti
fioriscano più fertili e robusti.-
Lo Scita torna a' suoi luoghi infelici
piglia la falce e taglia ma corbezzoli!
In lungo e in largo taglia e pare ossesso:
poi vuol che il suo vicin faccia lo stesso.
Ma colle foglie tolse le radici
e i rami schietti e fa il suo campo squallido,
abbattendo così senza ragione,
senza osservar né luna, né stagione.
Vedi in costui l'immagine di tanti
ed indiscreti stoici, che l'anima,
per volerla sfrondar dal sentimento,
fanno morir d'aridità, di stento.
Chi la passione al cor toglie e gl'incanti,
col male tronca il ben e i dolci stimoli.
Gridiam, gridiam contro un'iniqua schiera
che ci porta la notte innanzi sera.
Fab.21
L'Elefante e la
Scimmia di Giove
Aveva l'Elefante contro il Rinoceronte
gran lite a chi toccasse gli onori del comando,
e già stavano in campo armati fronte a fronte
per definir l'ingrata grande querela, quando
si disse che una Scimmia dal ciel era arrivata
col caduceo, di Giove ministra, in ambasciata.
Smorfietta era il suo nome, e l'Elefante, il quale
credea che quella visita non fosse che un onore
da Giove tributato all'alto suo regale
poter, mosse a ricevere tosto l'ambasciatore.
Ma fu un incontro tiepido, anzi capì che punto
rumor della gran lite nel ciel era ancor giunto.
Si tratti d'una mosca ovver d'un elefante
poco ai celesti importa. Onde la bestia degna,
per avviar la storia, fattasi un poco avante
- Il nostro buon Cugino, - disse, - che in cielo regna
e gli altri Numi avranno presto il divertimento
di contemplar dall'alto un gran combattimento.
- Quale combattimento? - disse la Scimmia attenta.
E l'altro: - Non udiste lassù della gran guerra
che Elefantide al regno Rinoceresco intenta,
che sono due nazioni di prim'ordine in terra?
- Sarà, - disse la Scimmia, - ma di codeste cure
gli dèi lassù nel cielo non si occupan neppure.-
Sorpreso e vergognoso l'altro riprese: - E allora
perché tu sei discesa oggi fra noi, signora?
- Di tutto Iddio la cura nel cielo si riserba,
e venni oggi a dividere un fuscellino d'erba
fra due formiche. Intanto non sanno gli Immortali,
ovvero non si curano dei fatti vostri ancora.
Piccoli e grandi agli occhi dei Numi sono eguali.
Fab.22
Un Pazzo e un Saggio
Coi sassi un Pazzerello un dì seguia
un Saggio per la via,
che a lui rivolto, disse: - È bello il gioco,
ma tu lavori troppo e pigli poco.
Prendi uno scudo, to'
(per quanto io posso, amico mio, ti do):
meglio i tuoi conti invece tu farai,
se i sassi tirerai
a quell'uomo laggiù, guarda, che passa
che ha molti scudi in cassa.-
Il Pazzo, del denar tratto alla gola,
prova a fare con lui la sassaiola,
ma questa volta altre monete suonano.
Servi e staffieri accorrono,
lo piglian, lo bastonano.
Mai non manca un buffone
nella casa dei principi, che faccia
alle tue spalle ridere il padrone.
Se tu sputare in faccia
non osi, aizza il can contro un potente,
che sappia bastonare il maldicente.
Fab.23
La Volpe Inglese
Alla signora Harvey
Col buon senso s'accorda in voi buon cuore,
Signora, ed altre belle qualità,
come sarebbe a dir, la nobiltà
del sentire e l'ingegno e il lieto umore,
non che l'arte ingegnosa
d'intendere ogni cosa e dolcemente
commovere la gente.
Nella fortuna lieta e nella misera
sempre leale amica,
per quanto io canti e dica - il panegirico
sempre è minor di voi, cui meglio piace
breve la lode o il labbro che si tace.
Taccio, ma in tenue rima,
lasciate che l'onor, la gloria esprima
di quella terra che nel cor vi sta,
dico Albïon, ove la gente è grave
ne' pensamenti e forte d'onestà,
che delle cose suol guardare in fondo,
e tiene in man la chiave
d'ogni saper nel mondo.
Né questo io dico già per far la corte.
Non son gli inglesi acuti
d'ogni argomento a penetrar le porte?
Perfino i cani in quel paese là
sono più fini e astuti,
perfin le volpi, come sto per dire,
dimostrano una rara abilità.
Una maligna Volpe d'Inghilterra,
per trarsi da un pericolo imprevisto,
ricorse a un stratagemma non mai visto.
Ridotta quasi agli ultimi,
inseguita da cani di buon naso,
ai piedi di un patibolo
un dì giungea per caso,
ove altre volpi e gufi e tassi e cento
animali di tristo sentimento
in aria grave
esempio al passeggier pendean da un trave.
La Volpe, stanca e rotta, si distese
in mezzo ai morti, come fece Annibale
allor che inutil rese
la caccia dell'esercito romano,
e, vecchia volpe, uscì loro di mano.
I Cani della muta giunti al campo,
dove la Volpe finge l'impiccata,
di tale abbaiamento empion le nuvole
che il padrone rispose alla chiamata.
E fattili tacer guarda e non vede
la bestia e non sospetta il tradimento.
Della forca si arresta intanto al piede
perché dei cani il grande abbaiamento
non accenna più in là, dove stan questi
buoni impiccati onesti.
- L'avrà qualche villan ricoverata,-
dice, - ma tornerà. Non sempre è bene
quello che ben per una volta avviene.-
Un altro giorno ancor perseguitata
torna la Volpe all'artifizio vecchio
di salir su quell'orrido apparecchio
e di far come prima l'impiccata.
Ahimè! scoperta e còlta
ci lasciò le calzette questa volta.
Quel bravo cacciatore certamente
non avrebbe trovato un così fino
e pronto espedïente.
Agli inglesi non manca già lo spirito,
tutt'altro, ma non fanno
quel conto del destino
che salva spesso da un estremo danno.
Or torno a voi, Signora, e non mi chiama
desio di nuove e graziose fole;
adulazion la cetra mia non ama
né cerco io già con lusinghieri accenti
andar famoso tra straniere genti.
Un re del vostro amore non indegno
dicea che un piccol segno
d'amor vale un volume di parole.
Udite adunque di una stanca musa
l'estreme voci ch'ella innalza a voi,
di sua pochezza timida e confusa.
Pago sarò se de' favori suoi
l'onorerà con voi,
diva d'amor, l'amabile Mancini,
che muta d'Albïon le fredde nebbie
di Cipro nei giardini.
Fab.24
Il Sole e le Rane
Le rauche degli stagni abitatrici
al Sol d'ogni soccorso e protezione
andavan debitrici.
Né povertà, né guerra, né disastri,
mercé questo gran re di tutti gli astri,
turbavan degli stagni la nazione.
Queste Rane (chiamandole alla fine
col nome lor non reca disonore),
quest'umide regine
osaron contro il Sol levar le ciglia
e maledire al lor benefattore.
Imprudenza, superbia, ingratitudine,
e quanti mali aduna
dentro i cuori leggieri la fortuna,
fecer tanto gridar questa insolente
razza, che il sonno ne perdé la gente.
Sollevar esse credevano
ogni buona creatura
col gracchiar, col rauco stridere
contro l'occhio di natura.
Chi credeva alle parole,
sgocciolar dovea del Sole
la candela e in un momento
spuntar schiere a cento a cento.
E se un cenno, un piccol passo
ei faceva a quei rumori,
era un correre
di gracchianti ambasciatori,
spaventati
degli stagni per gli Stati.
A sentirle in conclusione
iva il mondo in gran sconquasso
per tre rane cicalone.
Non sperar mai di vedere
che le rane un giorno imparino
l'arte bella di tacere.
Ma se il Sole un dì si mette
sui puntigli, poverette!
Fab.25
La lega dei Topi
D'un certo Gatto un Sorcio avea paura
che sempre lo spiava sulla via.
Che fare? volle andar per la sicura
e consultò un vicin molto potente
che aveva una topesca signoria
in luogo ben difeso,
e si vantava che di gatto il dente
né zampa mai di gatta
a lui l'avesse fatta.
- Caro fratel, per quanto io voglia o faccia, -
rispose il fanfarone, -
da sol non posso cacciar via la bestia,
che sempre ti minaccia.
Aduniamoci invece ed al birbone
un tiro potrem fare.
Ti pare o non ti pare? -
Il Sorcio fa una grande riverenza,
salta quell'altro tosto in diligenza,
e corre dove sa che si radunano
molti Topi in consiglio entro un armadio
a mangiar, schiamazzando, d'un cortese
lor ospite alle spese.
Arriva, il petto ansante e col polmone
in bocca. - Ebben che c'è? - dice un collega.
E il Topo in due parole a loro spiega
la grande questione
ond'ei si mosse e che lo fa parlare.
È tempo di finirla e castigare
messer Moina, che da un pezzo in qua
il suo peggior non ha.
Questo Gatto, il diavolo dei gatti,
se non avrà più sorci, è naturale
che senza pepe metterci, né sale,
mangia dei Topi. - È ver, su, su, corriamo,
andiamo, combattiamo! -
Invan le spose piangono, la terra
risuona d'un fragor alto di guerra.
Ciascun provvede ai casi del viaggio
e mette dentro al sacco per foraggio
un pezzo di formaggio.
Parea che a danza e non a morte andasse
ciascun di loro, e lieto suona il canto.
Il bravo Gatto intanto,
che già teneva il Sorcio per la testa,
a fargli preparavasi la festa.
Per liberarlo i Topi ecco si avanzano.
Senza lasciar di stringerlo
nei denti, il Gatto rugge...
fa un piccol passo... e l'esercito fugge.
Nei buchi si rimpiattano
per timore di peggio e stanno in guardia,
quando alcuno esce fuori sulla via,
che il Gatto non ci sia.
Fab.26
Dafni e Alcimaduri
O figliuola gentil d'una gentile
madre, per cui son teneri e devoti
oggi ancor mille cori (e qui non conto
i rispettosi amici e quei che in petto
celan la fiamma d'un segreto amore),
tra l'una e l'altra voglio far che un poco
di questo incenso, ch'io raccolgo in cima
del Parnaso, oggi salga condiviso.
Un segreto io posseggo, il qual ne rende
gradito il fumo. Io vi dirò che cosa?
Dir tutto è troppo quel che canta in core,
e, già per gli anni affievolita e stanca,
è forza ch'io riduca oggi la voce
a pochi temi e su modesta lira.
Io dunque loderò solo del vostro
core la tenerezza e le soavi
grazie e gli affetti e i nobili pensieri,
di cui non vi saria nel mondo esempio
tranne che in voi, se non vivesse quella
che di grazia vi fu madre e maestra.
Voi procurate di salvar sì belle
rose dai troppi spini, il dì che Amore
a voi dirà con voce più gentile
queste ch'io canto flebili parole,
Amor, che acerbo sa punir chi sordo
alle parole sue chiude l'orecchio.
Alcimaduri vaga pastorella,
crudel, non men che bella,
Amor disprezza ed i potenti strali,
e fiera e forte e per le balze snella,
per boschi e prati come avesse l'ali
dietro il capriccio va,
diversa in ogni cosa
dall'altre e più sdegnosa
tranne in quella beltà
che più crudel la fa.
Tutto è piacente in lei, fin quello sdegno
ond'è superba. Or che saria se alcuno
di lei trovasse degno?
Dafni, giovin pastor, nobile e baldo,
che il cor si sente caldo,
invan sospira un guardo, invan impetra
una parola da quel cor di pietra.
Onde pensa morir. Un giorno il passo
ferma alla porta dell'amato bene,
e al vento confidando l'aspre pene,
chiede e sospira invano
ch'apra la porta la pietosa mano.
Alcimaduri fra le sue compagne
celebrava il bel dì della sua festa,
al fior di sua bellezza sulla testa
cingendo i freschi fior delle campagne.
- Oh! potessi morir, dolce tesoro,-
grida il meschin, - davanti a questa porta!
Ma invano questo estremo bene imploro,
da chi ricusa ogni altro ben gentile
e me riguarda come cosa vile.
Me morto, il padre mio, com'ha promesso
al moribondo amante,
ti porterà del mio picciol possesso
i frutti ch'io sacrava ai santi dèi,
e ad essi aggiungo gli agnelletti miei,
e lo stesso mio can... Del tuo sembiante
vorran gli amici un bel tempio adornare,
ove di freschi fiori
rivestiran l'altare.
Di questo tempio al basso
al passeggier dirà l'umil mio sasso:
"Dafni morto d'amor. Ti ferma e piagni
la sciagurata sorte.
Alcimaduri me condusse a morte."
A queste voci tenere si spense
dalla Parca sospinto e dal dolore
il giovine pastore.
Ella invece danzante, ilare, e in festa
esce e nemmen si arresta
a sparger d'una lagrima la terra
che tanto amor rinserra!
E mentre danza e ride
alla statua d'Amor ilare intorno,
questa si rompe in mezzo
e col suo peso la fanciulla uccide.
Voce dal cielo intanto si diffonde,
a cui l'eco risponde:
- Amate, amate, la crudele è morta.-
Rabbrividì di Dafni il nudo spirito
di Stige all'atra porta
quando apparir la vide,
e stupefatto alle parole infide
stette il Regno infernale
quand'ella favellò stette il pastore
rapito come Aiace alle lusinghe
del furbo Ulisse e quale
Didone innanzi al grande traditore.
Fab.27
Il Giudice,
l'Ospitaliero e il Solitario
LTre santi, tutti e tre caldi e zelanti
di lor salute eterna, per diverse
vie camminando ad una mèta stessa
(poi che tutte le vie menano a Roma),
in tre diversi modi al ben dell'alma
provvedeva ciascun.
L'un visto i triboli
e l'angherie vedute che trascinano
seco i processi e quel che vi guadagnano
i legulei, pensò di farsi giudice
gratis, amore Dei senza specifiche.
E destino fatal, sembra, degli uomini
che mezza vita, o per tre quarti, o tutta
passin fra loro in velenosa lite.
Onde il nostro, buon uomo e conciliante,
volle quasi guarir la razza umana
da questa smania.
L'altro invece (e il lodo)
preferì gli ospitali. Il dar soccorso
ai mali è carità ch'io molto apprezzo
sopra l'altre virtù. Fu sempre il mondo
pien di dolori e piaghe, e il nostro pio
ebbe molto da far senza la molta
pazienza. - O Dio! - borbottano i malati
impazienti, crucciosi, noiosi.
Come se all'uno sì, all'altro no
facesse preferenze, e questo e quello.
Ma codeste tristezze erano un nulla
in paragon de' guai, degli imbarazzi
in cui si dibattea l'uom della legge.
Nessun n'era contento e la sentenza
irritavali tutti, anzi accusavanlo
di tenere due pesi e due misure
e una falsa bilancia.
Un giorno il nostro
sant'avvocato corre in cerca e trova
all'ospital il santo degli infermi,
e coll'alma trafitta e titubante
per dover disertar contro gli assalti
il campo, in fondo a un solitario bosco
vanno il pianto a versar delle lor pene.
Entro un'orrida grotta ivi ed accanto
a un limpido ruscello, ove non scende
raggio di sole e dove il vento tace,
trovano il terzo santo e a lui consiglio
richieggon per la vita.
- Egli bisogna,-
risponde l'eremita, - in sé soltanto
attingere consiglio. E chi conosce
i nostri mali meglio che noi stessi?
Conoscere se stessi è il gran precetto
che a noi comanda il Padre onnipotente.
Qui nella pace e non fra il mondo insano
se stessi è dato di trovar. Se l'onda
agitate, l'immagine si turba
di chi si specchia, e la poltiglia è densa
nube che appanna del cristallo i raggi.
Fratelli miei, lasciate che riposi
l'anima vostra. Nel silenzio verde
del deserto l'immagine perduta
troverete di voi.-
Tacque e seguito
fu il suo consiglio salutare e pio.
Non dico io già che debbansi le cure
fuggir del mondo. Poi che il mondo è pieno
di liti, di malanni e vi si muore,
occorrono i dottori e gli avvocati,
di cui penuria non avrà giammai
la terra. È bello, è buon dietro gli onori
e sui guadagni correre, ma quanto
in queste cure, ahimè, l'uomo si oblìa!
O voi, nelle faccende affaccendati
o magistrati, o principi, o ministri
voi tra mille accidenti avvolti e stretti,
voi cui sferza il dolor, guasta fortuna,
quando di voi, quando d'altrui coscienza
v'è concessa? se un poco si raccoglie
è dall'adulazion rotto il pensiero.
Questa bella morale al lungo tema
ponga termine alfin, e possan quelli
che questo tempo chiameranno antico
trarne succo vital. Ai prenci, ai dotti
la raccomando. Una miglior sentenza
dove trovar da porre in fondo al libro?
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