Fab.1
La Morte e il
Moribondo
Impreveduta mai piomba la Morte
in capo al Saggio. In ogni tempo a guardia
veglia l'occhio di lui. Pronto è il fardello
a partire, ogni giorno, ogni momento
pel fatal malinconico viaggio.
Ogni tempo del Tempo è un'ora buona
al pagar la scadenza. Infimi e grandi,
soggiaccion tutti al gran tributo, e spesso
nelle culle regali aprono e a un punto
chiudon per sempre le pupille al sole
principiere.
Che val splendor di trono,
beltà che vale e giovinezza e casta
virtù, di fronte all'impudica mano
della Morte che sradica e distrugge?
Giorno verrà che l'Universo intero
il mesto accrescerà regno di morte.
Nella sua grande, universal rovina,
se tanto è nota questa brutta Morte
e tanto è antica, or come mai per tanti
così tacita arriva ed improvvisa?
Un moribondo, che cent'anni almeno
avea vissuto, a bisticciarsi prese
colla Morte e chiamavala indiscreta,
che lo facea partire a spron battuto
senza il tempo di far un codicillo,
senz'avvertirlo... - È giusto ch'un sen vada
a piedi scalzi? aspetta almanco un poco.
Mia moglie vuol tenermi compagnia,
e deggio a un nipotin far qualche lieve
assegno; o aspetta almen, Morte, ch'io possa
rabberciare quest'angolo di casa.
Ih! che bisogno c'è per la partenza
di tôrre il fiato alla povera gente?
- Non ti sorprendo io già, - disse la Morte,-
e a torto, Vecchio, tu di me ti lagni.
Non conti forse i tuoi cent'anni? e quanti
sono in Parigi e in Francia, anzi nel mondo,
ch'hanno toccato un numero sì bello?
Tu mi rimbrotti che non t'abbia a tempo
avvisato e che compiere ti resta
qualche faccenda. Che so io di casa,
di nipote, di moglie, e testamento?
Ma non furono forse avvisi a tempo
e il tremolare delle gambe e il monco
fiato e la mente annuvolata e stanca?
Poco appetito, orecchia sorda e noia
fin del sole che splende e si diffonde,
come se il sol per te sprecasse i raggi,
voglia di nulla o desiderio insano
di ciò che non ti tocca, e molti morti
degli amici tuoi stessi, e moribondi,
e malati e infiniti accatarrati,
non eran segni, o Vecchio, della Morte?
Presto adunque e si lascino le ciarle,
andiam, che poco importa alla repubblica
che tu faccia o non faccia il testamento.-
Avea ragion la Morte. A creder mio
esser pronto dovrebbe ogni buon vecchio
a far di questa vita il suo fardello,
come quando un si toglie dal convito
e col cartoccio in man l'ospite inchina.
Di quanti giorni può tardar la fine,
Vecchio, de' giorni tuoi? Vedi superbi,
e come a danza andar lieti alla Morte
i giovani soldati, e ad una morte
non men fatal per quanto inclita e bella.
Ma inutilmente io so che ti rimbrotto,
né spero di trar mai frutto veruno
dalle mie ciarle. È sempre il più restìo
a morir chi alla Morte più somiglia.
Fab.2
Il Ciabattino e il
Banchiere
Da mane a sera allegro un Ciabattino
cantarellava, ch'era un gusto matto
a vederlo, a sentir. Un canarino
non canta meglio, e il core soddisfatto,
era il re de' sapienti il Ciabattino.
Il suo vicin di contro, un epulone
grande Banchiere ed imbottito d'oro,
di cantar non avea mai la ragione,
e poco anche dormiva sul mattino,
quando già canticchiava il Ciabattino.
Il nabab non facea che deplorare
e querelarsi in collera col fato,
che il sonno non è fatto di tal stoffa
che si possa comprare sul mercato,
come si compra il bere ed il mangiare.
Al suo palagio un dì, fatto venire
l'aggiustascarpe: - O mio compar Crispino,-
gli domandò, - non mi sapreste dire
quanto voi guadagnate in capo all'anno?
- In capo all'anno? - disse il Ciabattino.
- Affededdina! - aggiunse indi ridendo,-
non son contar su questo calendario;
io cucio i giorni miei per ordinario
uno per uno, un pane e un bicchierino
quando ce n'è, - rispose il Ciabattino.
- Ebben, ditemi almen quanto per dì
tirate dal lavor. - Cara Eccellenza,
or meno, or più, ed or così così,
tanto si vive e si vivrebbe meglio
se non ci fosse qualche intermittenza.
Ma il male è delle feste che son troppe,
in cui tu devi andar disoccupato,
l'una fa buio all'altra; e un altro guaio
in quanto ai santi, egli è che il sor curato
ne trova sempre un nuovo sul solaio.-
Rise il Banchier della bontà dell'uomo,
e credendo di metterlo sul trono:
- Prendete, - disse, - cento scudi, e ai vostri
bisogni provvedete, io ve li dono,
custoditeli bene, o galantuomo.-
Cento scudi! credette il Ciabattino
di possedere una montagna d'oro.
Torna a casa e in un angolo del muro
seppellì la sua pace col tesoro.
Da quel dì più non canta il Ciabattino.
Da quel dì che nasconde in casa il seme
di tutti i mali, o dolci sonni, addio!
Sempre in agguato, sempre i ladri ei teme
la notte, il dì. Se un topo udir gli pare,
è il suo tesor che viene a rosicchiare.
Ritorna alfine da sua Signoria,
che un dì solea svegliar presso al mattino,
e: - I cento scudi le restituisco,
lei mi torni il mio sonno e l'allegria,-
dice, e s'inchina il nostro Ciabattino.
Fab.3
Il Leone, il Lupo e la
Volpe
Fatto vecchio, decrepito ed asmatico,
gottoso ed arrembato,
un Leone cercava il gran rimedio
di migliorare il suo malfermo stato.
È fare un torto ai grandi il dire o il credere
che v'abbia cosa a lor forse impossibile;
ed anche questa volta al primo annunzio,
da tutti i quattro punti dello Stato
ecco arrivare i medici,
empirici, specifici,
flebotomi, anatomici,
a consultarsi intorno all'ammalato.
I cortigiani vanno tutti in visita,
tranne la Volpe, che si tenne comoda
nella sua tana. Intanto al capezzale
del grande Infermo, il Lupo, un degli assidui
al corteggiar, si giova del momento
per dirne tutto il male
che può inventare un Lupo di talento.
Avria voluto il re che la meschina
nella sua tana fosse affumicata,
ma la volle sentir, e una mattina
la Volpe già avvisata
presentasi, s'inchina,
e: - Sire, - dice, - è ingiusto il sostenere
che per disprezzo abbia tardato un dì
a fare il mio dovere.
Se non venni cogli altri al primo omaggio,
egli è che ho fatto un pio pellegrinaggio
per implorar da Quei che sol la dà
ogni salute a Vostra Maestà.
Strada facendo, a molti dotti medici
ho parlato di voi, del gran languore
che mai non cessa, e m'hanno detto i pratici
che viene da mancanza di calore,
effetto dell'età.
Ma si potrìa provare un buon rimedio,
squartando un Lupo vivo - il vero io narro,-
e poi la pelle ancor fumante, subito
mettersi indosso a guisa di tabarro.-
Piacque il consiglio al re,
che il conte Lupo tosto uccider fe',
a colazione prima lo mangiò
e nella pelle poi s'imbacuccò.
Signori cortigiani, io dico a voi
che in danno altrui di migliorar la sorte
cercate, seminando ed odii e guai:
dai pari vostri il mal si rende poi
a quattro doppi. In Corte
non si perdona mai.
Fab.4
La virtù delle Favole
Al signor De Barillon
E può dunque alle mie povere fiabe
abbassarsi d'un alto ambasciatore
lo sguardo ed il favor? e tanto ardito
sarò di dedicar queste sottili
e care inezie a un Uom affaccendato
in tutt'altre faccende, a cui non piace
il perder tempo alle buffe contese
di cani e gatti e donnole e leoni,
che invan talvolta assumono l'aspetto
di grandi eroi? - no, no, più che di questo,
leggiate o men, a voi, Signore, importa
d'impedir che d'armati si riversi
sulla patria un torrente e che la pace
tra il re di Francia e l'Albïon vicina
mai non si franga. Un tal pensier mi cruccia
e invoco pace al gran Luigi, pace
a quest'Ercole invitto, affaticato
contro l'Idra che sempre rinnovella,
perché le tagli la sua spada il capo.
Se vostr'arte potrà colla parola
molcere i cuori e distornare il colpo,
a voi consacrerò de' miei montoni
(non picciol sacrificio a un abitante
dei gioghi di Parnasso) un'ecatombe.
Vogliate intanto accogliere con pio
sguardo l'omaggio de' miei versi e il voto
che a voi, Signor, dall'animo sollevo.
Alla vostra modestia ogni altro elogio,
che fin l'invidia vi tributa, è vano
incenso, il so, né verbo io più ci metto.
Fuvvi in Atene (popolo vanesio
quant'altri mai) valente un oratore,
che vedendo il paese in grandi ambasce,
alla Tribuna un dì, forte dell'arte
che tiranneggia l'animo del volgo,
disse cose stupende e generose
sul comune pericolo. La gente,
distratta il lasciò dir fin che gli piacque:
cercava l'Orator con nuove e calde
immagini attizzar l'alme più spente,
anche i morti evocò, gridò, tuonò,
nessun si scosse e fur parole al vento.
Il popol, animal dal capo aereo,
invecchiato oramai da quarant'anni
in cotesti mezzucci di ringhiera,
di qua, di là guardava, alla baracca
de' burattini, e l'Orator si sfiati.
Allor pensa costui cambiar registro
e disse: - Udite, amici, un fatterello
udite. Un giorno andavano per via
con Cerere una Rondine e un'Anguilla,
quando giunsero a un fiume. Entra l'Anguilla
nell'acqua e passa; vola poi la Rondine
sull'acqua e passa - E Cerere? - d'un fiato
gridò tutta la piazza. - Ah mammalucchi! -
rispose l'Orator, - e tanto a cuore
vi sta questa scipita favoletta?
E non vi punge, o scempi, l'ignominia
che Filippo il Macedone coll'armi
porta alla patria vostra? - A queste voci
finalmente si aprirono gli orecchi
della gente, e poté con piccol gioco
trarre a sé l'Orator gli animi tutti.
Tutti siamo anche noi popol d'Atene,
ed io stesso, che predico, pel primo.
Se tu mi vieni a raccontar l'istoria
dell'Augellin bel verde, oh ch'io divento
matto dal gusto. Il mondo forse è vecchio,
ma si diverte ancora e bamboleggia
alle belle storielle d'una volta.
Fab.5
L'Uomo e la Pulce
Spesso il buon Dio con voti stanchiamo e con preghiere
noiose ed anche indegne d'un uomo d'intelletto,
come se Dio dovesse su noi sempre tenere
lo sguardo, e fosse in Cielo degli uomini il valletto.
Passò quel tempo, Enea, che usavano le mani
menar gli Dèi per conto dei Greci e dei Troiani.
Una pulce morsicò
sulla gamba un bighellone
e scappò.
- Corri, Alcide, corri e libera
da quest'Idra, - egli gridò,-
da quest'Idra l'universo,
mostro orribile e perverso
della tiepida stagione.
Anche tu,
padre Giove, e che ci fai
fra le nuvole lassù?-
Dagli Dèi la mazza e il fulmine
supplicava per cagione
d'una Pulce il bighellone.
Fab.6
La Donna e il Segreto
È difficile a chi porta le gonne
il custodire un gran segreto in petto;
quantunque sotto un simile rispetto,
ci sian uomini peggio delle donne.
Un marito per mettere alla prova
la sua donna, una notte a dire uscì:
- Nel ventre par che tutto mi si muova,
provo un dolor che non provai fin qui.
Ho fatto un ovo. - Un ovo, o Dio bambino!
- Ecco, vedilo qui tiepido ancora,
guardati ben dal dirlo. Ogni vicino
mi chiamerebbe gallinetta allora.-
La donna, nuova al caso, con spavento,
per tutti i santi di tacer giurò.
Ma non durò poi molto il giuramento,
ché appena in Oriente il sol spuntò,
scesa dal letto va da una comare
e: - Amica, - dice, - amica, un caso novo,
ma zitta, non mi fate bastonare,
sapete? mio marito ha fatto un ovo.
- Un ovo? - Signorsì, tre volte tanto
i soliti, ma zitto in carità.
- Gesummaria! - Tacete. - Dal mio canto
non fiato, ve lo giuro, andate là.-
Quando partì la femmina dell'ovo,
l'amica che a cantar nel ventre sente
il gran segreto, al solito ritrovo
cammina a sparpagliarlo fra la gente.
Ma in vece d'uno, nel contar la storia,
disse che l'uomo n'avea fatti tre,
e un'altra ancor più corta di memoria,
in gran segreto quattro gliene dié.
Il segreto era quello del magnano,
tutti parlavan dell'avvenimento,
e l'ovo crebbe sì di mano in mano,
che in capo al dì n'aveva fatti cento.
Fab.7
Il Cane che
porta il pranzo al suo Padrone
Mal resiste il cuore al dardo
d'un bel guardo, ed alla vista
d'un sacchetto di denaro
troppo raro
è trovare chi resista.
Soleva un Can portare in una cesta
al collo il pranzo del suo buon Padrone.
Per quanto temperante a suo dispetto
ei sapesse resistere al boccone,
non era un santo padre, poveretto,
e nel suo pelo, dite, o gente onesta,
se non vi tenterebbe un buon pranzetto.
Strano davvero che s'insegni ai cani,
ciò che non sanno fare i cristiani.
Andando questo Cane un dì col pranzo,
s'incontra in un mastino prepotente
che pretende la sua razion di manzo.
Ma fece i conti senza l'oste. Il cesto
colloca in terra il nostro Cane onesto
e si prepara ad una lotta ardente.
Ne nasce un gran fracasso, e chiama il chiasso
molti altri cani che andavano a spasso.
Erano cani vagabondi, avvezzi
ad ogni calcio, ad ogni ladreria.
Il nostro Can, vedendo ch'eran pronti
a sbranarlo quei mostri in cento pezzi,
e che il manzo era fritto in fin dei conti,
da saggio disse a quella comitiva:
- Amici, andiamo adagio; un po' per uno,
dice il proverbio, fa male a nessuno.-
E presa la sua parte, lasciò il cesto
agli altri cani che addentâr il resto.
In quattro colpi fu tabula rasa.
Chi stette peggio fu il Padron di casa.
O città grandi, o piccole città,
che mettete il denaro della gente
in mani, Dio lo sa,
quanto leste a giocar d'agilità:
censori, appaltatori e fornitori,
comincia il più valente,
e ruban tutti di dentro e di fuori.
Se alcun men disonesto e men briccone
vuol salvarsi e minaccia di parlare,
gli mostran ch'è un minchione.
Al consiglio anche lui quindi si arrende,
acqua in bocca, rubare fa rubare,
e più degli altri prende.
Fab.8
Il Buffone
e i Pesci
Per quanto il mondo se li tenga in prezzo
per me i buffoni è razza che disprezzo;
difficil arte è di far rider bene,
ma chi continuo la facezia scocca
è gente sciocca e agli sciocchi conviene.
In casa si pranzava d'un banchiere
e c'era anche un Buffone di mestiere,
che, visti certi Pesci un po' lontani,
e non osando stendere le mani,
sapete ciò ch'ei fa?
Accosta un piccol piatto di sardelle,
e grandi cose a loro susurrò,
poi l'orecchio al piattello avvicinò,
per ascoltar non so quali novelle.
A questa novità
la gente allor restò,
e dimandò:
- Che dice ora, che fa? -
Rispose: - Ho chiesto a questi Pesciolini
notizie d'un compar ito ai confini
ultimi d'India il Gange ad esplorare,
e che vuolsi finito in fondo al mare.
Ma i Pesciolini dicono che nati
non erano in quel tempo, ond'io, se posso,
prego qualcun dei signori invitati
a favorirmi un pesce un po' più grosso.-
A questa allegra spiritosità
rise tutta la bella società;
al Buffon fu servito uno storione
salato, e così vecchio che la storia
certamente sapea tutta a memoria,
di quanti in trecent'anni ad uno ad uno
eran scesi nel regno di Nettuno.
Fab.9
Il Topo e l'Ostrica
Un Topo contadin grillincervello,
della sua vita malcontento e sazio,
lasciò cavoli e rape, ed un più bello
luogo cercando e più libero spazio,
non era ancor dal buco ito due miglia,
che va di meraviglia in meraviglia.
Di qua l'Alpi e di là v'è l'Appennino,
ogni mucchio di terra è una montagna,
e dopo un altro giorno di cammino,
arriva dove in mare il sol si bagna.
Qui vedendo dell'Ostriche, credette
sulle prime che fossero barchette.
- O che bel mondo! - esclama, - o babbo mio,
che non uscisti mai dalla tua tana!
Il mare ed il deserto ho visto anch'io
cogli occhi, e non per giuoco di morgana,
che fa veder le cose entro uno specchio
siccome ho letto sopra un libro vecchio.-
Il Topo, rosicchiando in libreria,
se non era un grandissimo sapiente,
qualche nozione di geografia
gli si era pure appiccicata al dente:
vide dunque quell'Ostriche e credette
sulle prime che fossero barchette.
Fra le quali, o lettor, ve n'era alcuna
che al dolce soffio respirando, apriva
le labbra, bella e bianca e grassa e d'una
così ghiotta e mirabile attrattiva,
che il Topo disse: - Se non mangio questa,
che cosa di mangiare più mi resta?.-
E subito si fece un grosso conto,
e quando il nicchio un poco si avvicina,
il Topo allunga lo zampino pronto,
ma sul più bello l'Ostrica barbina
il guscio abbassa e pria ch'ei tragga il collo
come dentro a una trappola serrollo.
Dimostra questa istoria in primo loco,
che chi non ha del mondo conoscenza
va facilmente in estasi per poco,
e facilmente crede all'apparenza;
poi si rivolge a quei matricolati
che credon di suonare, e son suonati.
Fab.10
L'Orso e il Giardiniere
Un Orsacchiotto assai mal pettinato,
selvatico cresceva in fondo a un bosco,
solo, nascosto, sempre torvo e fosco,
in collera col fato.
Novel Bellerofonte, l'umor nero
s'univa a una tremenda ipocondria,
perché solo la buona compagnia
tien ilare il pensiero.
Un bel parlar non vale un bel tacere,
sta scritto, ma bisogna discrezione,
ed in quel bosco un uomo, un can barbone
non si facea vedere.
Per quant'Orso, e per quanto Orso testardo,
passava giorni orribilmente bui.
Non lontan s'annoiava in un con lui
un vecchierel gagliardo,
che amava un suo giardin, i fiori, il sole,
prete di Flora e prete di Pomona,
ma non vedea passare una persona
da far quattro parole.
Le piante e i fior non parlano al di fuori
di questo libro che per voi trascrivo.
Desiderando un dì vedere un vivo
lasciò le piante e i fiori.
E sul mattin, battendo la campagna,
andava in cerca d'una comitiva,
quando incontrò quell'Orso che veniva
torvo dalla montagna.
L'Orso teneva in mezzo del cammino:
che far? come scappar? e da qual parte?
Il vecchierel si ricordò dell'arte
che piace ad Arlecchino,
e fingendo un coraggio di leone:
- Buon passeggio, - gli dice. - Schiavo tuo,-
l'Orso risponde in tono tutto suo,-
vedo che stai benone.
- Sì, grazie a Dio, signor commendatore,
se vuol accomodarsi in casa mia,
ho latte, cacio, noci, ed offriria
di più con tutto il cuore.
Capisco, non è roba forse adatta
a lor signori, tuttavia se vuole -
L'Orso accetta, si siede e in due parole
è l'amicizia fatta.
Sono i sciocchi che ciarlano, ma l'Orso
è saggio prudentissimo. Non teme
il vecchierello di mangiar insieme,
di far qualche discorso,
senza togliere il tempo alle faccende.
L'Orso in compenso, forte cacciatore,
uccide lepri, e docil servitore
caccia dal volto, prende
sopra il vecchio che dorme quell'alato
parassita, che noi mosca diciamo,
tenendo nelle zampe un grosso ramo,
fedel come un soldato.
Un dì che il vecchio in l'ora consueta
dormiva, ecco una mosca più stizzosa
che sul naso più volte gli si posa,
e l'Orso s'inquïeta.
Poi perde la pazienza, ed un mattone
afferrato, s'appressa, il pugno chiuso,
dov'è la mosca, e plaf proprio sul muso
la schiaccia del padrone.
Così l'Orso mostrò che un cacciatore
non è sempre il miglior ragionatore,
e che peggiore d'un leal nemico
è un ignorante amico.
Fab.11
I due Amici
Due buoni Amici c'erano al Chilì
simbol dell'amicizia più cortese.
I buoni amici sono in quel paese
come quelli del nostro o giù di lì.
Una notte, traendo essi profitto
dell'assenza del sol, dormivan sodo.
Allor che trabuffato
un s'alza e corre dritto
a risvegliar l'amico addormentato.
Dormivan tutti in quella casa. Al chiasso
balzano i servi e corrono coi lumi,
anche il padron discende
e accorre coi denari e colla spada.
- Che c'è? quale fracasso?
Sei tu, fratello, che ti pigli spasso,
invece di dormir come costumi?
Che cosa capitò?
Hai tu perduto al gioco il tuo denaro?
La borsa ecco ti do.
T'han fatto qualche ingiuria sulla strada?
Andiam, ecco la spada.
Vuoi tu dormire in buona compagnia?
Questa mia schiava, pigliati, o mio caro.
- No, - disse il buon amico, - alcun bisogno
non ho di tutto ciò,
ma solo vengo, perché ho fatto un sogno
che assai mi spaventò.
Tu m'eri apparso colla faccia scura
e corsi a te pensando a una sciagura.-
Sai dirmi qual dei due, lettor discreto,
amasse l'altro d'un amor più bello?
È l'amico un dolcissimo fratello
che vi cerca nel core il duol segreto.
Senza farvi arrossire ode il bisogno
che vi tormenta. Il susurrar del vento,
un'ombra è segno, o un fuggitivo sogno,
per chi vuol bene, di sinistro evento.
Fab.12
Il Porco, la Capra e
il Montone
Una Capra, un Monton e un Porco grasso,
sopra un sol carro andavano alla fiera,
e, se la storia è vera,
non andavano, sembra, per ispasso,
né sembra che il padrone anche volesse
condurli al teatrin dei burattini,
ma venderli e pigliare dei quattrini.
Il sor Porcello non faceva intanto
che gridar sulla strada, ed eran strilli
da rendere balordo
un uomo sordo.
- O che ti pelan vivo?-
dissero i suoi compagni più tranquilli.
- E c'è bisogno di strillar sì tanto?
- Zitto là, - poi soggiunse il cavallante,-
tu ne stordisci, stattene quieto,
hai l'esempio di questi a te davante
che insegnarti dovrebber la maniera
di viver bene e d'essere discreto.
Non vedi questo povero Montone
che non apre la bocca? questi è un saggio.
- Saggio non è, - rispose don Porcello,-
ma ditelo un minchione,
che se non ha di piangere il coraggio,
è perché di conoscer non gli è dato
ciò che l'aspetta appena sul mercato.
S'ei lo sapesse, strillerìa, scommetto,
con quanto gli è rimasto fiato in gola,
e con lui griderebbe in do di petto
anche l'altra che ha persa la parola.
Ma l'uno e l'altra crede
che lana e latte a vendere al mercato
vada il padrone e sono in buona fede.
Può darsi che ciascun non abbia torto,
ma in quanto a me, che valgo in quanto morto,
non ho motivo alcuno di sperare.
Lasciatemi gridare e la mia casa
e la mia bella patria salutare.-
Sor Porcello parlò come un giornale,
ma nulla gli giovò, ché nulla vale
contro il destin che non si cangia mai,
il far lamenti e guai.
Da ciò potrà vedere l'uom prudente
che chi men sa, ben spesso è il più sapiente.
Fab.13
Tirsi e Amaranto
Alla signorina De Sillery
Se il Boccaccio mi tolse un giorno al dolce
Esopo mio, novella ecco mi toglie
ad entrambi una Musa assai gentile,
che alla fonte natia mi riconduce.
Come dire di no, quando divina
è la musa e di tal beltà vestita,
che sui cuori sovrana alza lo scettro?
Or sappia il mondo che a cantar mi tragge
ancora messer Lupo e monna Volpe
l'unica Sillery, vaga donzella,
a cui tutti si prostrano devoti.
Chi dice Sillery nulla gli resta
d'aggiungere di poi che non sia vano.
Essa si duol che a lei sfugga il segreto
spirto de' miei Racconti (a dolce sguardo
è ben che ignudo il ver non apparisca)
onde ancor canterò, ma sol per essa,
ciò che davanti a lei senza commento
possa tornar più volte e senza offesa.
Vengano prima i miei pastori e poi
ben io saprò sulla modesta lira
di capri e lupi concertar le voci.
Tirsi diceva ad Amaranto un giorno:
- Conosco un mal, mia cara, un mal sì dolce,
che vince ogni altro ben sopra la terra
ne' suoi misteriosi incanti. Or vieni,
se di Tirsi non hai dubbio e paura,
e lascia che conoscere ti faccia
questo mal, questo bene. E non son io
il più fedele e il più sincero amico
di quanti hanno per te malato il cuore?.-
Disse Amaranto: - E qual nome gli fanno
a questo mal che dici?
- Amor.
- Amore?
È un bel nome davver. E a quali segni
presentirlo potrei, qual è il tormento?
- Son pene al cui confronto anche i più grandi
passatempi dei re, stupidi giochi
diventan. Tu vaneggi in una blanda
estasi in mezzo ai boschi. Il ruscelletto
luccica sempre in una vaga imagine
tremolante che a te non rassomiglia
e t'insegue dovunque ove tu fugga;
per ogni cosa è cieca la pupilla
fuor di quella parvenza. Il nome, il nome
d'un pastorel, la voce sua, l'idea,
d'una fiamma improvvisa il volto accende.
Sospiri, se di lui pensi, e non sai
perché sospiri, ma per lui sospiri,
incontrarlo vorresti e in un lo temi.
- E questo mal? - allor disse Amaranto;-
o mio buon Tirsi, è un pezzo ch'io lo provo.-
Tirsi sperò d'essere giunto in porto,
e corse a lei, che subito soggiunse:
- Io lo conosco, è il mal che sento in core
per Clidamante. -
Ahi disgraziato Tirsi!
ché di vergogna non moristi e d'ira?
Molti son come lui semplici e stolti,
che, giocando alla sorte, ahi! troppo tardi
s'avvedono di fare il giuoco altrui.
Fab.14
Esequie alla Leonessa
Il giorno che morì la principessa,
o Leonessa, accorsero i dolenti
a far al re quei mesti complimenti,
che sono sul dolor buonamisura
nei giorni di sciagura.
Fissato il luogo e il dì, volle il Leone
che i suoi ministri attenti
sorvegliasser la lunga processione.
Grande il concorso fu. Dentro la grotta
che serve al re Leon di cattedrale,
ogni animale, ognun a modo suo
piange d'intorno al re.
E questi, è natural, piange per tre.
È la Corte una casa così fatta
dove la gente è trista, è buona, è matta,
a seconda che il re vuole o non vuole.
Gente camaleontica che fa
la scimmia ad una grande Maestà,
mille corpi e una man che fa, che detta,
come se l'uom (lo dicono i filosofi)
non fosse che una vera macchinetta.
Tornando a noi, dirò che a quel gran duolo
il Cervo solo non pigliò gran parte.
La morta, a nominarla come viva,
la moglie ed un figliuolo
avevagli strozzato, e se nutriva
ruggine in petto il Cervo derelitto,
era nel suo diritto.
Ma non mancò chi corse poi dal principe
a dir che il Cervo s'era fatto gioco
perfin del funerale.
La collera d'un principe è fatale,
e molto più d'un re come il Leone,
lo ha detto Salomone;
ma quel Cervo leggeva così poco.
- Brutta bestia dei boschi, - disse il re,-
ed osi sghignazzare innanzi a me,
mentre si piange e mentre siamo in chiesa?
Non io l'insulto tuo vendicherò,
ma dai lupi sbranare ti farò
a placar l'ombra pia da un vile offesa.
- Prego, ascoltate, o Sire,-
il Cervo prese mestamente a dire,-
passato è il tempo ormai
di piangere e far guai,
ché la regal Consorte
cinta di fior, dal regno della Morte
or or mi apparve e bella,
in sua gentil favella e dolce riso:
"Io son beata", disse, "e vo tra i santi
a discorrere santa in paradiso.
Dunque i sospiri cessino ed i pianti.
Mi conforta il dolore universale
e il pianto del mio re,
ma dico a te che a un'anima beata
è festa il funerale."-
Udito ciò, la Corte ad una voce
- Miracolo! - gridava. - Apoteòsi! -
E il Cervo invece di essere squartato
di cavalier si meritò la croce.
Se voi lodate ed incensate i grandi,
se prima vi parevan schizzinosi,
diventan tosto morbidi e graziosi:
per quanto grosse le sballate loro
digeriran le vostre bombe d'oro.
Fab.15
Il Topo e l'Elefante
La vanità, ch'è tutto un mal francese,
fa ch'ogni sciocco e stupido borghese,
un grand'uomo si creda in quel paese.
Vani son gli Spagnoli e tuttavia,
per quanto grande il lor difetto sia,
è più che scipitezza una pazzia.
L'esempio che vi conto vi dimostra
la boria nostra, la qual su per giù
non vale men di un'altra e non di più.
Un Topolin piccino
vide un grosso Elefante gigantesco,
e rise di quel grande baldacchino
pesante ed arabesco,
con tre piani di sopra e una sultana
seduta in mezzo di beltà sovrana,
con cani e gatti e pappagalli suoi,
e con tutta una casa che in viaggio
andava ad un lontan pellegrinaggio.
Rideva il Topolin perché la gente
stesse a guardar quel coso stravagante,
più che animale, macchina ambulante.
- Bel merito, - dicea, - d'esser sì grosso,
come se il bello fosse in un colosso.
O gente sciocca, ov'è la meraviglia
che ai ragazzetti fa levar le ciglia?
Così piccino come son, un grano
non valgo men di questo pastricciano.-
E stava per aggiungere di più
il Topo vanerello.
Quand'ecco sul più bello
un gatto salta giù
e fric in un istante
mostrò che un Topo è men che un Elefante.
Fab.16
L'Oroscopo
Il tuo destin per quella stessa via
per cui lo fuggi a te corre d'incontro.
Un padre di sì caldo e intenso affetto
amava un suo figliuol unico in terra,
che sulla sorte sua quanti indovini
e sonnambuli vanno per la via,
facea cantar.
Uno di questi un giorno
annuncia che doveva il giovinetto
fino ai vent'anni andar molto guardingo
dall'incontrar leoni, oltre il qual tempo
potrebbe di sua vita andar sicuro.
Il buon padre, per far che mai pericolo
di tal sorta facesse al suo diletto
eterno danno, in un palagio il figlio
tosto rinchiuse e proibì che il piede
ei mettesse di fuori. A far men tristo
di quel lucente carcere il soggiorno,
entro il palazzo era un giardin e molti
vi accorrevan fanciulli, e in giochi e in salti
e in spassi ed in chiassosa compagnia
allegramente egli vivea rinchiuso.
Sol la caccia gli fu con odio e tetro
color descritta, come cosa indegna
d'uomo gentil. Che importa? Ha mai parola
trasformato dell'indole il metallo?
Onde avvenne che il giovine alle sagge
avvertenze sentia balzar nel petto
un desiderio di battaglia, e sempre
voglioso, irrequieto, e in preda a un caldo
sogno, volea discendere nei campi
a combatter le fiere. E più fremea
quanto sentia più stringer le catene;
ma l'Oroscopo a lui stava davanti
colle fiere parole.
Era il palagio
di belle statue adorno e di pitture,
che ritraevan cacciatori e cacce,
ed animali e alpestri paesaggi,
onde più s'accendea l'anima al mesto
giovincello. Dipinto era un leone
fra l'altre belve, a cui rivolto un giorno:
- O mostro, - disse, - o mio fatal nemico
per cui viver mi tocca oscuro e vile
in queste mura... - E sì dicendo, acceso
d'ira improvvisa, sul leon dipinto
si scaglia, e sfonda la dipinta tela.
Ahimè! nel muro era un acuto chiodo
dal dipinto velato, e tal fu il colpo
che a mezzo il petto il garzoncel trafisse,
ch'ei cadde in terra del suo sangue intriso.
Invan fu chiesto ad Esculapio il balsamo
che le ferite tenero rinchiude,
il caro capo abbandonò per sempre,
e morì per le stesse arti trafitto,
che salvarlo dovean dal suo destino.
Fab.17
L'Asino e il Cane
L'Asinello, che in fondo è un animale
di buon cuore, una volta s'impuntò
e contro ad ogni legge naturale
a un amico un servigio rifiutò.
Il caso avvenne un dì che a capo basso,
senza pensare a nulla, in compagnia
del Cane e del padrone se ne gìa
per la sua nota strada passo passo.
Un certo istante, giunto ad un pratello,
si ferma tutto a un tratto l'Asinello,
e mentre il suo padron dorme e riposa,
di quell'erba ei mangiò fresca e gustosa.
Non c'eran cardi, ma ne fece senza,
non sempre si può aver ciò che si vuole,
e per quanto gli piacciano, pazienza,
non ogni giorno in ciel risplende il sole.
Il Cane, che moria di fame intanto,
disse al compagno suo: - Caro Modesto,
fammi un piacer, abbassati quel tanto
che possa anch'io pescar in fondo al cesto.
E possa in fondo al cesto anch'io pescare
il mio piccol boccon pel desinare.-
Ma fece il sordo quella bestia sciocca,
senza cessare di menar la bocca.
Torna il Cane a pregar: - E forse credi
che ti scappi quest'erba sotto i piedi?.-
E l'Asin duro: - Aspetta, o buon Barbone,
che si svegli fra poco il tuo padrone.-
In questa esce da un bosco e mostra il dente
il Lupo, un altro che non ha pranzato.
- Aiuto! - grida l'Asin spaventato,
ma questa volta è il Can che non ci sente.
- Non gridar, - gli risponde, - non far caso,
il tuo padron si sveglia presto presto,
che se il Lupo ti morde, e tu, Modesto,
dàgli un calcio frattanto sopra il naso.
T'han ferrato per questo e ti spaventa?
Un colpo buono in terra lo stramazza.-
Ma in queste ciarle il Lupo i fianchi addenta
dell'Asin e coi morsi me l'ammazza.
È saggio avviso e scaltro
che l'uno aiuti l'altro.
Fab.18
l Bascià e il Mercante
Col segreto favor d'un gran Bascià,
in orïente un greco Mercatante
faceva affari d'oro, e poi che costa
cara d'un alto protettor la grazia,
pagava il protettor non da mercante
ma da bascià. Ma paga e paga e paga,
a lungo andar questo pagar rincrebbe
al nostro greco, e sen dolea, dicendo
di non poterne più, quando tre turchi
s'offriron di concedergli favore
a meno prezzo, in tre, che non spendesse
prima per uno. Il greco accetta.
Intanto
si conobbe la cosa e ognuno dicea
che avrìa dovuto il gran Bascià vendetta
trarne, mandando i suoi vassalli in cielo
a portare un messaggio a Maometto.
- Se tu nol fai, - dicea qualcun de' suoi,-
ti preverranno per paura i tristi,
e per quanto tu chiuda anche i cancelli
del tuo palagio, con sottil veleno
a protegger ti mandano in turbante
i falsi mercatanti in paradiso.-
Ma il Turco a questo dir, novo Alessandro,
non diede retta e con sereno spirto
trova un bel giorno il suo Mercante in casa,
siede alla mensa ed in diversi e schietti
discorsi entrando, gli mostrò che nulla
diffidenza era in lui. Quindi gli disse:
- Amico, io so che tu mi lasci e alcuni
voglion ch'io tragga orribili paure,
ma tu sei troppo galantuomo, amico,
e la faccia non hai d'uom che il suo tempo
passi a mescer veleni, ond'io men rido
delle chiacchiere altrui. Pace! e se brami
sul conto di codesti a te novelli
amici udir quel ch'io ne penso, ascolta
senz'andar per noiose querimonie
una fiaba che a lor calza a pennello.
C'era una volta un Cane ed un Pastore,
e c'era anche un armento.
Dicea la gente: "A che ti serve un cane
sì grosso, che per solito alimento
ti mangia ad ogni pasto un grosso pane?
Sarai più saggio
se lo vendi al signore del villaggio.
Un paio o tre
di piccoli mastini costan meno
a un uomo come te,
e fan la guardia più che non la faccia
da sola questa grossa bestiaccia".
Il buon Pastor credé,
e tre mezzani
mastini prese e risparmiò dei pani.
Ma se il grosso mangiava almen per tre,
era tre volte a mordere più forte,
quando per sorte
con general spavento
venìano i lupi a minacciar l'armento,
mentre quell'altre bestie assai men care
erano tre a scappare.
- Se tu sei saggio, fidati di me,-
soggiunse il buon Bascià,-
o proverai di questa favoletta
la triste verità.-
La qual dimostra ancora
come convenga ai piccoli paesi
appoggiarsi a un monarca di gran prezzo,
che non ai cento re d'un soldo al pezzo.
Fab.19
I vantaggi del Sapere
Un uomo ricco, un asinaccio ritto,
soleva dire a un suo vicin stracciato
(e stracciato vuol dire letterato)
che il ricco sol di vivere ha diritto.
- Al ricco deve fare di cappello,-
ei ripeteva, - ogni fedel corbello,
non sol, ma è giusto che gli faccia onore
il dotto, il pensatore e il professore.
Costor con tutto il leggere che fanno
non hanno spesso pane da mangiare,
e portan certe vesti così rare
che fan sempre parer d'estate l'anno.
Stanno in alto in stanzucce accanto al tetto
coll'ombra sua ciascuno per valletto.
Povera gente e poveri gli stati,
che fanno i conti addosso ai disperati!
Utile invece è chi vi spende e spande
del suo liberamente, in lusso, in feste,
che mantien l'artigian e che lo veste
col suo denar e colle imprese in grande.
È il ricco che le lettere sostenta
e paga chi coi libri lo tormenta
e con omaggi e dediche sì strane,
che son meno noiose le campane.-
Così dicea quel grosso babbuasso.
Ben si sentì il poeta sulle prime
gran voglia di risponder per le rime,
ma la giustizia viene di suo passo.
Venne, dico, la guerra, e la vendetta
fu più crudele d'ogni satiretta.
A ferro e a fuoco è messa la città,
l'uno scappa di qua, l'altro di là.
Sol disprezzo il babbeo millantatore
nell'esilio trovò, mentre il poeta
ricevette accoglienza onesta e lieta.
State zitti, il saper ha il suo valore.
Fab.20
Giove ei Fulmini
Giove un dì dall'alto scanno,
i peccati rimirando,
che dagli uomini si fanno,
- Fino a quando, - prese a dire,-
questa razza soffrirò?
D'altra gente riempire
men noiosa il mondo io vo'.-
E a Mercurio: - Va', precipitati
all'inferno,
e la più feroce tirane
delle Furie e fa' che tutta
questa gente sia distrutta
in eterno -.
Ma il comando non finì
che il buon padre si pentì.
Prenci e re, mi raccomando,
voi che siete Numi in terra,
del furore tra il baleno
e il discender delle botte
deh! lasciate in mezzo almeno
l'intervallo d'una notte.
Va quel dio che ha l'ali ai piedi
e la lingua lusinghiera,
e discende ove Tisìfone
con Megera,
con Aletto
fanno il ghetto.
Sorge Aletto, e con perverso
giuramento, si propone
di tirare l'universo
nella casa di Plutone.
Padre Giove, il giuramento
della Furia cancellò
e nel buio la ricaccia.
Quindi fa l'esperimento
di scagliare una saetta
per minaccia
dell'olimpica vendetta.
Dalla man di un Dio sì buono,
padre giusto dei viventi,
con frastuono
passa il fulmine
sopra il capo delle genti,
e va a rompersi lontano
sopra l'erta
d'una rupe alta e deserta.
Un buon babbo pesta piano.
Sulla via dell'indulgenza
prese l'uomo confidenza
e fe' peggio ancor di prima.
Il padrone delle nuvole
altre lima
più terribili saette,
ma gli dèi lo persuadono
l'ira sua pigliando a gabbo,
di star pago al suo mestiero
di buon babbo.
Venne innanzi allor Vulcano
e a far fulmini dié mano
di diversa qualità.
I migliori, intendo quei
che non dànno mai perdono,
dal lor trono
ce li scagliano gli dèi:
quei che fanno inutil prove
e si pèrdono qua e là
sono i fulmini di Giove.
Fab.21
Il Falcone e il Cappone
Amici andiamo adagio
a credere alla voce del malvagio,
ma facciam come l'Asin di Giampietro
che più lo spingi e più si tira indietro.
Un grasso cittadin di Monticello,
che faceva il mestiere di Cappone,
al tribunal un dì venne citato
del suo padrone.
- Qui, qui, qui, qui - gridavagli la gente,
spingendolo bel bello,
ma il brianzol, maestro in furberia,
scappava via
e lasciava gridare inutilmente.
- Servo vostro! - dicea, - non mi si piglia
in queste grosse trappole, no, no.-
Nessun si meraviglia
se non hanno i capponi confidenza
cogli uomini. È l'istinto, ben si sa,
ed è l'esperienza
che diffidar li fa.
Il nostro brianzol indovinò
che doveva al diman esser la gloria
del banchetto e davver ne facea senza.
Mentr'ei fuggia, sentì che da un palchetto
gli diceva un Falcone ammaestrato:
- O sciocco, ed hai sì corto l'intelletto,
che non intendi che si perde il fiato
a chiamarti? E v'è gente più citrulla
di questa razza d'uccellacci stupidi
che non capisce nulla?
Io sì, riguarda qui,
cacciar, volar io so,
partir, tornare, io sì,
e dovunque si vuol rapido vo.
Il tuo padron ascolta
che ti attende sull'uscio, anima stolta.
- Attenda fin ch'ei vuol, - disse il Cappone,-
conosco già la bella novità
che da contar egli ha.
Da lui poco lontano
caro quell'uomo col coltello in mano!
A questo dolce e amabile zimbello
vola, mio dotto uccello,
se ti piace. Per me scappo e ti chiedo,
in carità, non ridere
se alle voci gentili ancor non credo
che mi faranno stridere.
Se vedessi anche tu cotti allo spiedo
tanti falconi
quant'io vedo capponi o appesi al muro,
non rideresti, amico, di sicuro.
Fab.22
Il Gatto e il Topo
Un certo Gatto gran rubaformaggio
e un Topo rodicorda assai stimato,
un'orrida Civetta
e la dal lungo corpo Donnoletta,
nel buco spesso usavan d'un selvaggio
abete rosicchiato.
quattro bestie di cui l'una non era
per nulla all'altra eguale,
ma in quanto a far il male
anime triste tutte a una maniera.
E tanto vanno e vengono che un giorno
l'uomo tese una rete tutt'intorno,
e adesso sentirete:
esce il Gatto al mattin, siccome suole,
pria del levar del sole
a caccia, ma non vede ahimè! la rete.
Vi resta e non gli resta
che di gridar, se vuol salvar la testa.
Accorre il Topo e il suo mortal nemico
preso nel laccio vede,
e s'ei fu lieto ognuno me lo crede.
Il Gatto piagnoloso: - O amico, amico, -
dicea frattanto, - è noto
quanto tu fosti verso noi devoto,
aiutami a scappar da questi nodi
in cui venni a cader, tu che lo puoi.
Ed è giustizia, se ricordi i modi
che sempre usai fra cento pari tuoi
verso di te, che caro ognor mi sei
come quest'occhi miei.
Non me ne pento io già, fratello mio,
ma ognor ringrazio il ciel nell'orazioni.
E appunto stamattina
nel fosco uscìa per far le devozioni,
che ogni buon gatto fa quando è cresciuto
nel santo amor di Dio,
e il maledetto fil non ho veduto!
Nelle tue mani io metto la mia vita,
sciogli i nodi e procurami un'uscita.
- Qual compenso mi dài? - l' altro gli chiese.
- Prometto teco eterna l'alleanza,
e nelle zampe mie pronte difese
contro i nemici in ogni circostanza.
Sarò la tua vendetta
contro la Donnoletta e la Civetta
che voglion la tua morte.
- Basta così, - rispose
il Topo, - credo poco a queste cose.
Sarìa tre volte matto
quel topo che affidasse la sua sorte
all'onestà del gatto.-
E ciò detto partì. Presso la tana,
guardando alla lontana,
vede in agguato la sinistra Donnola.
Va sulla pianta e mentre ancor si arrampica
sul tronco in alto la Civetta vede.
Or come fare? scivola
di quell'abete al piede
e in mezzo a tre pericoli
sceglie il minore. Rosicchiando un nodo
e un altro della rete e un terzo e il resto,
all'impostore procurava il modo
di scappar dalla morte allegro e lesto,
ma guai se in quel momento
non giungeva opportun l'uom della rete
che li facea scappare come il vento.
Non molto tempo dopo
il Gatto trova il Topo,
che stava a una distanza rispettosa.
- Fratel, o vieni, abbracciami,-
con una voce tenera e amorosa
gli disse, - e non guardare un alleato
con quel far diffidente e disgustato.
A te, dopo il buon Dio,
devo la vita, lo conosco anch'io.-
Rispose il Topo: - Grazie, n'ho piacere,
ma non è scritto sopra alcun trattato
che un gatto abbia il dovere
d'esser per gratitudine obbligato.
Del carattere tuo chi mi assicura?
Un gatto è sempre gatto per natura.
Fab.23
Il Torrente e il Fiume
Un torrentaccio rapido e sonante,
precipitando al basso,
empìa del suo fracasso
le rive e la campagna circostante.
Fuggìan le genti dalla furibonda
velocità dell'onda,
quand'ecco un tal che dai ladri fuggiva
fermossi sulla riva.
Come passar? esita un po', ma visto
che i ladri corron sempre per di qua,
tentò, passò. Per il rumor che fa
il torrentaccio non è poi sì tristo.
Anzi è sì buono, che il furor dell'onda
i ladri non fermò.
L'altro a correre ancor, fin che alla sponda
d'un bel fiume arrivò.
Questo era proprio un fiume maestoso,
sereno come un bel sogno d'estate,
non rupi a picco, ingrate,
ma un passo limpidissimo, sabbioso.
Col suo cavallo il buon viaggiatore
fugge i ladri, ma il guado è traditore:
beve il cavallo, beve il cavaliere,
e in fondo a Stige vanno entrambi a bere.
E vanno entrambi a bere in Acheronte
e in acque più lontane.
Fin che abbaia giammai ti morde il cane,
è l'acqua cheta che corrode il ponte.
Fab.24
L'Educazione
Cesare e Leccardon, cani fratelli,
da una razza venivano di cani
famosi, arditi, valorosi e belli.
Ma caduti per caso nelle mani
di due padroni, l'uno alla foresta
passava i giorni in esercizi sani,
l'altro, che invece tutto il giorno resta
in cucina a mangiar, si sconcia tanto,
che quasi stenta a sollevar la testa.
Leccardone il chiamavano pertanto
(e il nome fu da un guattero trovato),
che sul nome degli avi prese il vanto.
L'altro cane fu Cesare chiamato,
e fu davver coi cervi e coi cinghiali
per entro ai boschi un Cesare dannato.
Per mantener nei figli pregi eguali,
il padrone gli scelse anche una sposa
che per bellezza non avea rivali.
Leccardon si contenta d'ogni cosa
che passa per la strada, e ne deriva
una razza di cani vergognosa,
che le fatiche volentieri schiva,
e si consuma a far girar gli spiedi,
razza villana, che non par che viva.
Non sempre i figli san posar i piedi
sopra l'orme dei padri, ma si oppone
pigrizia, casi e tempi onde tu vedi
Cesare che diventa Leccardone.
Fab.25
I due Cani e l'Asino morto
I vizi son fra lor buoni fratelli,
e quando uno si siede
nel nostro cor, si vede
che siedono anche quelli
che van con lor per via,
a meno che la trista compagnia
per ira non si pigli pei capelli.
Non così le virtù. Raro si mira
dei grandi affetti in un sol uom lo zelo
temperato con nobile armonia.
L'uno è valente, sì, ma pronto all'ira,
l'altro è saggio, ma l'anima è di gelo.
Fin tra le bestie spesso
vedi accader lo stesso.
Il più fido animal che mai ci sia,
il cane io dico, mostrasi talvolta
anch'esso bestia stolta
e piena d'un'ingorda ghiottornia.
Due Cani in lontananza un giorno videro
in mezzo al fiume galleggiare un Asino,
che, sospinto dal vento, se ne giva
discostandosi sempre dalla riva.
- Amico, - disse l'un, - che l'occhio hai limpido
e più acuto del mio, guarda sul liquido
specchio dell'onda. È un bove od un cavallo?-
E l'altro: - È un buon boccone senza fallo.
Ma pigliarlo, barbin, questo è il difficile!
Lunga è la tratta e incontro il vento soffia.
Non ti senti riarso e sitibondo?
Proviamo a ber quest'acqua fino in fondo,
finché in secco vedremo della bestia
(superba provvigion) il corpo ghiotto.-
Bevono i Cani e bevi e bevi bevvero
tanto che punf scoppiarono di botto.
Tal è l'uomo. Se in lui fissa è l'idea,
non c'è cosa impossibile e fallace.
Castelli in aria crea,
e per amor di vane ombre e di gloria
in desideri perde la sua pace.
- Oh potessi riempire di ducati
questi miei scrigni! O s'io sapessi almeno
la chimica, la storia,
la medicina, l'arabo, l'armeno!
O arrotondar potessi questi Stati!-
Questo è bevere il mar. Ai sovrumani
concetti d'uno spirto vanerello
non bastan quattro corpi ed otto mani.
Se non si resta a mezzo sul più bello,
a compier ciò che logico non è
Fab.26
Democrito e gli Abderiti
Sempre in uggia mi fu l'ingiusto e scempio
e temerario giudicar del volgo,
che sol da sé piglia misura e legge
e le cose di false ombre confonde.
Ben ne fece a' suoi dì l'esperimento
d'Epicuro il maestro, a cui non valse
l'alto saper. Pei piccoli saccenti
della città, Democrito non parve
che un pazzerello. O dèi, quando s'è visto
alcun profeta in mezzo a' suoi? Ma pazzi
eran questi Abderiti il dì che un messo
mandarono ad Ippocrate, chiedendo
con lettere a quel medico divino,
che venisse a guarir del dotto amico
il malato cervel. - Vieni e vedrai -
dicean gli stolti - vaneggiar la mente
di sì grand'uomo dalla nebbia involta
dei libri, che saria certo men danno
s'ei non sapesse decifrar dei libri
manco i cartoni. Udrai com'egli sogna
di un infinito numero di mondi,
ch'ei forse vede d'altri pazzerelli
come lui popolati. E ancor discorre
d'atomi erranti, poveri fantasmi
del suo cervel che danza, e senza il piede
metter fuori dell'uscio, egli pretende
i cieli misurar, descriver fondo
a tutto l'universo e non conosce
il poveretto il mal che lo consuma.
Una volta ei sapea nelle contese
conciliar le discordie, oggi in se stesso
rinchiuso parla sempre ruminando.
Vieni, o divino medico, o non resta
altra speranza.-
Ippocrate alla gente
non crede troppo, ma a trovar si avvia
l'illustre infermo. Ora vedrete quali
incontri giochi spesso la fortuna!
Voglio dire che Ippocrate sorprese
il dotto pazzerel curvo ed intento
all'ombra fresca e d'un ruscello in riva
a ricercar per entro ai laberinti
d'un cervello ove sede abbia ragione,
e dove amor, negli uomini e nei bruti.
Molti grossi volumi accatastati
erano in terra, e in suo pensier rapito,
Democrito non vide il suo diletto
amico che venìa. Brevi i saluti
furono e i complimenti, e si capisce,
ché il perder tempo a chi più sa più spiace.
Messi in disparte i frivoli argomenti,
cominciaron i due grandi maestri
a cercar le cagioni alte del Bene,
sull'uom sillogizzando e sullo spirito,
parlando cose che il tacere è bello,
sì com'era il parlar colà dov'era.
Giudice cieco qui ti mostra il fatto
il volgare giudizio. E scarsa io presto
fede a quella sentenza che proclama
voce di Dio del popolo la voce.
Fab.27
Il Cacciatore e il Lupo
Sacra fame dell'oro, avido mostro,
che il ben di Dio con torvi occhi divori,
fino a quando dovrò co' miei flagelli,
trista avarizia, a te levar le berze?
Sordo sempre sarà l'uomo al consiglio
del saggio e non dirà: Questo mi basta
pel mio bisogno, allegri ora viviamo?
Amico, guarda come il tempo vola,
godi, o più tardi intonerò, ma indarno,
quest'inno mio che val tutto un poema.
- Goder? Io voglio ben. - Quando? - Dimani.
- Ah poveretto! e se ti coglie in via
coll'irte unghie la morte? Or dunque godi
e leggi, amico, quello che racconta
del Cacciator la favola e del Lupo.-
Aveva un Cacciator stesa coll'arco
una damma, quand'ecco un capriolo
viene a passar. In compagnia sull'erba
coll'altra bestia cadde moribondo.
Bella preda, per Giove, un capriolo
e una damma, da pagar non uno,
ma dieci cacciatori! Il caso volle
ch'uscisse anche un cinghial grosso e superbo,
contro il quale inviò sì ben lo strale
il Cacciator, che quasi terzo all'Orco
lo sospinse. Tre volte alla feroce
belva cercò di rompere la Parca
colle forbici il fil, quando trafitto
il feroce animal sul suol piombò.
C'era d'andar contenti almen tre volte,
a creder mio, del triplice bottino;
ma tutto è poco a riempir la pancia
dell'uom ghiottone, e così volle il cielo
castigare costui. Mentr'ei s'appresta
a finire la belva sanguinante,
vista lontano svolazzar sull'erba
una bella pernice, a lei la punta
volse dell'arme, allor che strette in fascio
il mal morto cinghial l'ultime forze,
affronta il Cacciator, lo morde e lacera,
e vendicato muor su morto corpo.
Questa per voi ghiottoni. Udite or voi,
lerci avari, la vostra.
Un certo Lupo
venne a passar, e visto il miserando
spettacolo di morte: - O benedetta
la Fortuna, - esclamò, - degna che un Lupo
le innalzi un tempio. Quattro morti a un colpo!
S'è visto mai di più? ma non bisogna
abusarne, ché rara è la fortuna
(dicon sempre gli avari) e faccio il conto
d'averne almeno per un mese.
O belli,
ed uno, e due, tre morti, quattro morti,
son quattro settimane ben provviste,
s'io so contar. Comincerò dimani,
o meglio fra due giorni, e intanto all'arco
rosicchierò la corda. Ell'è di nervo
schietto, s'io posso giudicar col naso.-
Così dicendo, l'unghie ecco distende
all'arco, che scattò, lo stral partì,
e cadde il Lupo con quell'osso in gola.
- Godetevi la vita e non vi tocchi
per gola ed avarizia un'egual sorte,-
disse il Lupo e fe' chiòsa alla morale.
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