Fab.1
Il Pastore e il Leone
Le favole non son soltanto favole,
ma quasi una moral sono ristretta.
Coloro che s'annoiano alla predica
ascoltan di buon cuor la barzelletta.
Contare per contar è cosa semplice,
ma al ben mirano quei, che in tutti i tempi
coltivaron quest'arte antica e classica
di raccontar aneddoti ed esempi.
Questi in poche parole il succo stringono
e diritti camminano allo scopo.
Fedro parve succinto ai vecchi critici,
ma ancor di lui più lesto è il vecchio Esopo.
Che dirò di quel Babria sì laconico,
che strinse in quattro versi i suoi racconti?
Se ciò sia bene o mal vedano i critici,
contentiamoci intanto dei confronti.
Al qual intento conterò del Frigio
la nota favoletta del Pastore,
e con qualche ricamo sottilissimo
quella che Babria fe' sul Cacciatore.
Ritrovando ogni momento
qualche vuoto nell'armento,
un pastore sospettò
che vi fosse un lupo infame,
e un gran laccio nello strame
per pigliarlo collocò.
Quindi esclama: - A te il più bello,
o gran padre degli dèi,
e de' miei
il più candido vitello
sull'altare io sgozzerò,
se mi fai che il reo quadrupede
resti preso nel tranello.-
Non avea quest'orazione
terminata, che un leone
grosso e forte
dalla grotta ecco sbucò.
Col pallore della morte
il pastor perdé la bussola
e il suo voto allor cangiò:
- Padre Giove, padre Giove,
se un vitello poco fa
t'ho promesso,
ti prometto adesso un bove,-
Voglion dir queste parole
che il mortale mai non sa,
ciò che vuole e che non vuole.
Fab.2
Il Leone e il
Cacciatore
Un certo tal, gran cacciator e appunto
gran vantator (racconta il vecchio Babria)
avea perduto un suo diletto cane.
Dubitando ch'ei fosse ito diritto
nella pancia a un leon, volea vendetta.
Un giorno chiese ad un pastor: - E dove
sen sta la mala bestia? io vo' la coda
mozzarle. - Abita là sulla montagna,-
disse il pastor. - Ahimè! lo so pur troppo,
ché a patto solo di grassi tributi
posso al mio gregge assicurar la pace.-
Il Cacciator si volta. - Eccola lì
la mala bestia... - Oh Ciel! - scappa, Giovanni,
- O Giove, - ei grida, - a me mostra una porta
dov'io possa salvare almen la pelle.-
Alla lontana molti hanno coraggio
di sfidare i pericoli, che poi
scappan le gambe in spalla al buon momento.
Coraggioso è colui che regge a prova
e colla man tocca il cimento e vince.
Fab.3
Il Sole e il Vento
In autunno si sa che pazzo è il tempo,
ora piove, ora è bello, or splende il sole,
or distende la bella Iride il lembo
del suo vestito, avviso a chi viaggia
di portarsi per strada un buon mantello.
Balzana nominarono gli antichi
una stagion siffatta, in cui mai troppe
le previdenze son del pellegrino.
Un di questi era uscito un giorno appunto
ben riparato contro ogni incostanza
della stagione, in un doppio tabarro
di buona stoffa, allor che disse il Vento
al Sole: - Ecco, costui, per quel ch'io veggo,
ha provvisto assai ben contro gli eventi,
ma non pensò ch'io so gonfiar le guance
e con tanto soffiar impeto e forza,
che strappo anche i bottoni; o vuoi ch'io provi
a togliergli di dosso e con un colpo
al diavolo mandar quel suo tabarro?
Vuoi vedere? così potremo un poco
al bel volo godercela fra noi.-
Senza tante parole a lui rispose
il Sole: - Anzi fra noi facciam scommessa
a chi prima saprà scoprir le spalle
del galantuomo. A te, comincia primo,
ch'io mi lascio soffiar anche sul viso.-
Bastò il dirlo che il vento in un momento
tien la scommessa e s'empie e si rigonfia,
come un pallon, di nebbie e di vapori,
e soffia e fischia e zufola e tempesta,
innanzi polveroso va superbo,
e comignoli schianta e manda a picco
più d'una nave in mar per il capriccio
d'un ferraiol, ahimè!
Presto sul corpo
il suo mantel si strinse il viandante,
sì che il vento non entri. Invan s'insinua
questo dentro le pieghe e sotto il bavero,
ché l'uom prudente ancor più stretto attagliasi
il panno al dosso, e fu tempo perduto.
Trascorso il tempo suo, cedette il Vento
il gioco al Sol, che dissipa in un tratto
le nebbie e mostra il suo faccion lucente,
e tanto scalda al galantuom la schiena,
che sudato alla fin questi si tolse
il palandrano. Fu potente il Sole,
facendo men di ciò ch'ei puote; indizio
che la dolcezza vince ogni furore.
Fab.4
Giove e l'Affittaiolo
Volendo Giove d'una masseria
fare l'affitto, in terra
mandò Mercurio a stendere i contratti.
Concorse molta gente
inutilmente,
ché dopo un mar di ciarle, o perché poco
sembri il vantaggio a petto della spesa,
o per cento incertezze intorno ai patti,
quasi fallìa l'impresa.
Un tale finalmente
un'offerta azzardò poco prudente,
di prendere, cioè,
la fattoria per sé
a queste condizioni,
che Giove gli lasciasse facoltà
di fare a suo capriccio le stagioni.
Volesse caldo, vento, umido o secco?
Bastasse aprir la bocca e in un momento
ecco la pioggia ed ecco
il caldo, il secco, il temporale, il vento.
Giove disse di sì. Quindi firmato
il suo capitolato,
il nostro galantuom padron de' campi
fa il doppio Pescator di Chiaravalle.
Inaffia, soffia, tuona, accende i lampi,
e muove la stagione
dell'aria anche padrone.
Di questo suo lunario
straordinario
non ebbero i vicini alcun vantaggio,
non più che i più lontani
americani.
E tuttavia concesse
a lor feconda messe il Gran Tonante,
e vendemmia magnifica, abbondante.
Vedendo il nostro affittaiol che a stenti
ricava invece il frutto dei denari,
prova a mutar il corso agli elementi,
almanaccando nuovi calendari.
Ma un'altra volta fu maggiore il danno,
mentre i vicini ancora,
che lasciarono a posto le stagioni,
i frutti raddoppiarono dell'anno.
Allora il pover'uomo ginocchioni
si volse a Giove, un nume di buon cuore,
che non fa come i soliti padroni;
e venne alla sentenza
che sa i bisogni nostri
assai meglio di noi la Provvidenza.
Fab.5
Il
Galletto, il Gatto e il Topolino
Un Topolino ingenuo,
che nulla ancora conoscea del mondo,
un giorno fu lì lì
per essere pigliato, e il brutto rischio
raccontava alla mamma sua così:
- Non ero ancora andato
oltre i monti, che fan cerchio allo Stato,
e camminavo lesto, alacre, come
un giovin topo che vuol farsi un nome,
quando a un tratto scopersi, o mamma mia,
due diversi animali sulla via.
L'un di questi parea dolce, grazioso,
ma l'altro turbolento,
fiero, agitato, iroso,
aveva in testa un elmo rosso e vivo,
e tratto tratto apria
sul fianco un certo braccio, ond'egli spicca
nell'aria il vol. Lo strano spauracchio
voce ha feroce e stridula
e a guisa di pennacchio
spiega una coda variopinta e ricca.-
Voleva il Topolin parlar d'un gallo,
ma fece una pittura così strana,
che non si fa d'un'orca o d'un sciacallo,
né di qualunque bestia americana.
- Vedessi, mamma, egli si batte i fianchi
colle due braccia e strilla e fa un fracasso
che pare satanasso.
Anch'io, che, grazie al ciel, non fo per dire,
non manco d'ardimento,
provai tanto spavento
che a buon conto ho pensato di fuggire.
Ma son quasi pentito,
ché avrei voluto stringere amicizia
con quell'altro animal tanto pulito.
Questo ha un pel di velluto, sulla moda
del nostro pelo, variegato e liscio,
ha morbida, magnifica la coda,
e un occhio così mite e sì lucente
da innamorar la gente.
Io credo che fra i topi egli sarìa
capace d'ispirare simpatia
Di più, che cosa vuoi?
Ha perfino le orecchie come noi.
Se non era quell'altra bestiaccia
a ricacciarmi indietro,
subito gli correvo nelle braccia.
- Male per te, figliuol, - disse la madre,-
l'animal grazioso e benigno
sotto apparenza ipocrita
è un nemico terribile e maligno;
mentre l'altro, di cui tanta paura
racconti, è un animal inconcludente,
che un giorno o l'altro, quasi son sicura,
vedrò sopra il mio piatto.
Ma il Gatto, questo Gatto
che t'è sembrato così bello e mite,
fa dei topi polpette saporite.
Mentre vivrai, ritieni
che da topo non è troppo prudente
dall'apparenza il giudicar la gente.
Fab.6
La Volpe, la
Scimmia e gli Animali
Quando morì Sua Maestà Leone,
che lo scettro tenea degli animali,
costoro nei comizi generali
trassero dall'astuccio di cartone
la regale corona, che in un antro
era ben custodita da un dragone.
Prova e riprova, in tutta l'assemblea
non c'era testa eguale
all'orbita di quel cerchio regale.
Chi l'aveva più grossa e chi più stretta
e chi di corna armata anche l'avea.
Volle provare anch'essa per burletta
la Scimmia a incoronarsi, e fece smorfie
da far morir del ridere,
quando passò col suo bel corpo snello
nella corona come in un anello.
Questo trattenimento
agli animali parve tanto bello,
che la elessero a capo sul momento.
Ciascun a lei, siccome a sua regina,
ecco s'inchina e presta il giuramento.
Sol diverso, per quanto finga omaggio,
fu della Volpe astuta il sentimento.
Venne costei, ma fatto un complimento,
- Conosco, - poi soggiunse, - o Maestà,
un nascondiglio con un gran tesoro,
che spetta (e sono io sola che lo sa)
per dritto alla regale potestà.-
Udito questo, la bertuccia vola,
ministra di finanze, ove la gola
la tira di quell'or che sta nascosto.
Né vuol ad altri il posto
cedere per timor d'esser truffata;
ivi c'era una trappola e la sciocca
restò così pigliata.
Allor la Volpe una facezia scocca
a nome dell'intero parlamento:
- Come volevi governar lo stato,
o bestia, se ti manca anche il talento
di governar te stessa?.-
La Scimmia fu dimessa,
e da quel giorno venne dimostrato
che non è d'ogni sorta di persone
il ben portar corone.
Fab.7
Il Mulo
orgoglioso della sua genealogia
Sovente piccavasi il Mulo d'un vescovo
di sua nobiltà;
e sempre la mula sua madre illustrissima
citava con boria,
che stata era qui, che stata era là,
che degna ei diceva d'andar nella storia.
Il Mulo la paga disdegna d'un medico
mirando più in su.
Ma quando poi vecchio fu tratto alla macina,
gli vennero in mente
le orecchie dell'asino, che padre gli fu.
Non arriva inutilmente
il malanno, se la gente
persuade, ed agli sciocchi
apre gli occhi.
Fab.8
Il Vecchio e l'Asino
Stando sull'asino, vedendo un Vecchio
un prato pieno d'un'erba tenera,
lasciò che l'Asino
entrasse e pascolasse.
E l'Asino saltando e ruzzolando
e sgambettando,
mangiò dell'erba fino a crepapancia.
Ma sul più bello
ecco il padrone del campicello.
Allor spronandolo colle calcagna
per la campagna,
comanda il Vecchio: - Andiam, fuggiamo.
- Perché fuggire? - dice la bestia.
- O c'è pericolo
ch'abbia a portar in groppa un doppio basto?
- Non dico questo. - E allora
alla buon'ora
lascia ch'io lo finisca questo pasto.
Il padrone è un nemico certamente.
Ma è cosa indifferente,
tel dice in buon volgare un asinello,
servir a questo o a quello.
Fab.9
Il Cervo che
si specchia nell'acqua
D'una fonte nel liquido cristallo,
con suo dolore ed ira
esclama un Cervo, mentre si rimira:
- Quale contrasto, oh vedi,
fra la mia testa e i piedi!
Mentre le corna i bei rami dispiegano
come una selva, ahimè!
i piedi sono asciutti come legni,
per quel ch'io veggo, e non degni di me.-
Un can, mentr'ei si duole,
uscendo a un tratto, tronca le parole.
Il Cervo presto, via,
nei boschi per un pezzo si fuggìa.
Se non che noia e danno
le belle corna a un bel fuggir gli fanno,
inutil benefizio
che in testa gli regala il Cielo ogni anno,
e che de' piedi intralciano il servizio.
Questo Cervo, che si specchia
alla fonte, ti fa prova
di non poche genti insane,
che disprezzan ciò che giova
per amor di cose vane.
Fab.10
La Lepre e la
Testuggine
Se a tempo non arrivi, a che ti giova il correre?
È ciò che ben dimostra quella scommessa strana,
che fecero fra loro la Lepre e la Testuggine.
- Vediam, - gridò costei, - chi di noi arriva prima
di quella strada in cima.
- Di noi? - disse la Lepre dai piè veloci. - O mia
buona comare, credimi, che questa è una pazzia.
Stasera quattro grani prova a pigliar d'elleboro;
però se lo scommettere ti piace, scommettiamo.-
Non parmi necessario
di dir qual fosse il premio e chi sia stato il giudice.
In quattro salti e in meno io sono persuaso
che giungere potrìa la Lepre oltre la mèta,
se corre come correre suol fare, quando vuole
lasciar i levrieri con tre spanne di naso.
Ma vuol pigliarla comoda,
avendo tutto il tempo, almen così suppone,
di mangiare un boccone,
di fare un sonnellino e di fiutar il vento.
Intanto la Testuggine
col suo pesante e lento
passo senatoriale
non perde tempo e va.
La Lepre ch'ha la boria
di creder troppo facile per lei quella vittoria,
indugia apposta, e chiacchiera,
riposa qua e colà,
più volte siede a tavola,
e del partir, del giungere, nessun pensier si dà.
Sol quando ella si accorse che nonna la Testuggine
era lì lì per vincere,
ratta partì qual lampo,
ma furon sforzi inutili,
ché vinse la Testuggine per qualche spanna il campo.
- Ebben, mia donna Elleboro,
chi superò la prova?-
questa gridò, - che giova
allora d'esser lepre?
Or pensa, o mia comare,
se avevi anche una casa sul dosso da portare!
Fab.11
L'Asino e i suoi
Padroni
L'Asino e i suoi Padroni D'un ortolano l'Asino soleva
della sua sorte sempre lamentarsi,
perché doveva alzarsi - egli diceva,-
ogni mattina prima dell'aurora,
e spesso prima ancora
che si risvegli il gallo e ciò perché?
- La gran ragion qual è
che mi rompon il sonno mio beato?
Son quattro erbaggi e un cavolo
che reco sul mercato.-
Così dicea la malcontenta bestia,
finché per torla un poco di molestia
la Sorte prova a dargli altro signore,
mettendolo al servizio
d'un certo conciatore.
Ma fu malaugurato il benefizio,
perché l'odor e il peso delle pelli
fece parere i cavoli
e gli erbaggi a portar molto più comodi.
- Ah! - grida allor la bestia sciagurata,-
m'era ben dato prima facilmente
senza spendere niente
una foglia carpire d'insalata
col volgere soltanto della testa.
Or non mi resta, tolto ogni provento,
che pigliar bastonate ogni momento.-
La Sorte, buona ancora a contentarlo,
e per finire il guaio,
appresso a un carbonaio
pensò di collocarlo;
ma l'Asino non meno si lamenta.
Allor fuori di sé
la Sorte disse: - Questa bestia grulla
mi dà da fare più di cento re.
Crede d'esser la sola malcontenta
e ch'io non abbia proprio da far nulla.-
La Sorte avea ragione.
Della fortuna sua ciascun si duole,
e d'ogni condizione
sempre la peggio è quella che ci tocca.
Se anche volesse Iddio la gente sciocca
accontentar, credete voi che questa
cesserebbe con pianti e con parole
di rompergli la testa?
Fab.12
Il Sole e le Rane
Celebrando un tiranno i suoi sponsali,
beveva e allegro schiamazzava il popolo,
affogando nel fiasco i vecchi mali.
Esopo sol, si narra,
allora dimostrò con una favola
ch'era sciocca la gente a far gazzarra.
Volendo il Sole, ei disse, or non so quando,
pensare a prender moglie,
un grido miserando
nel regno delle Rane si levò.
- Chi può sottrarci al danno,-
dicean le Rane, - alla cattiva Sorte,
se de' figlioli al Sole nasceranno?
Se brucia tanto un Sole,
che non splende nemmeno ogni mattina,
figuratevi voi mezza dozzina!
L'unico bel guadagno
sarà che moriranno
le canne e i giunchi e seccherà lo stagno.
Addio, ranocchi! svaporato il mondo,
sarem ridotte dello Stige in fondo.-
Mi pare, a mio buon senso naturale,
che per ranocchi non parlasser male.
Fab.13
Il Contadino e il
Serpente
Un Contadin, un uomo di buon cuore,
quanto poco prudente,
andando un giorno pe' suoi campi in vòlta
vide in terra un Serpente
sopra la neve steso assiderato,
che non avea più fiato.
Il Contadin lo prese in grembo e senza
pensar la conseguenza
d'un atto di sì stolta carità,
innanzi al fuoco adagio lo distende
e riaver lo fa.
Il gelato animale ancor non sente
il tiepore, che già l'anima snoda,
ma colla vita ritornò il serpente.
Move la testa, soffia, alza la coda,
e ingrato, senza cuore,
s'inarca e già sta per spiccare il salto
contro l'amico suo benefattore.
- O brutta bestia, senza gratitudine,-
gridò quel galantuomo, - aspetta me.-
E feroce di collera com'è,
dà mano ad un'accetta
e zic zac l'affetta presto presto
in tre porzion, la coda, il capo e il resto.
Guizza e cerca il Serpente
di ricucir le membra - inutilmente.
È bella cosa il far la carità,
ma il farla bene è una faccenda seria.
Quanto agl'ingrati sempre si vedrà
che tutti finiran nella miseria.
Fab.14
Il Leone malato e la
Volpe
Ammalato,rintanato,
il gran re degli animali
comandò che a tutti i sudditi
questo editto
fosse scritto e proclamato:
che mandasse ognuno in visita
all'infermo un deputato,
promettendo salvaguardia
per l'insolita occasione
dalle zanne e dagli artigli,
in parola di Leone.
Mentre sfilan l'altre bestie
in solenne comitato
a far visita ufficiale
al magnifico animale,
troppo poco persuasa
una Volpe stette in casa.
E si dice che dicesse:
- Se guardate l'orme impresse
nella polvere, vedrete
che nessuno
torna indietro. Ad uno ad uno
vanno tutti nella rete.
Grazie tante, Maestà,
della grazia che ci fa.
Nella reggia ben si vede
come puossi porre il piede:
non così
come poi s'esca di lì.
Fab.15
L'Uccellatore, il Falco e l'Allodola
Una legge universale
sopra il mondo regge, ed è:
Tu rispetta altrui, se vuoi
che rispettin gli altri te.
Se i perversi fanno il male,
ciò non scusa i falli tuoi.
Tratta allo specchio, una meschina Allodola
venìa dove un Villan facea zimbello
agli uccellini, allor che un Falco librasi,
sull'ali, ed ecco rapido per l'aere
precipitando piomba
su lei, che canta all'orlo della tomba.
La poverina avea sfuggito appena
il perfido tranello
che si sentì ghermir dal tristo uccello.
La legge universal ora vedrete!
Ché mentre a spennacchiarla ei l'unghie mena
rimase ei stesso preso entro la rete.
- Lasciami andare, - nella sua disdetta
disse quel tristo uccello al Contadino,-
mal non t'ho fatto, abbi pietà di me.
- E questa poveretta
che male ha fatto a te?
Fab.16
Il Cavallo e l'Asino
Il suo fardel di guai
lascia chi muore a quel che resta: ebbene
aiutarci l'un l'altro ci conviene.
Un Asino fea scorta ad un Cavallo,
ch'era alquanto egoista di natura,
e mentre l'un crepava sotto il peso
del suo grosso fardello,
non avea l'altro che la bardatura.
- Aiutami, fratello,-
disse l'Asino, - o qui casco disteso
prima ancora di giungere alla mèta.
La preghiera non è troppo indiscreta,
perché metà per uno
non fa mal a nessuno.-
Il Cavallo, del cul fatta trombetta,
che non vuole a rispondere si affretta.
E l'Asino morì, povera bestia!
Il Superbo comprese il suo gran torto,
quand'ebbe la molestia
di portare egli solo, insieme al carico,
la pelle anche del morto.
Fab.17
Il Cane, la sua
Preda e l'Ombra
Ognun quaggiù s'inganna,
e in ogni tempo è il numero infinito
di chi corre e s'affanna
e crede l'ombre di toccar col dito.
Per questi vale di quel Can la favola,
che della preda nel ruscel l'imagine
vista riflessa, il pezzo abbandonò
ch'aveva in bocca, e in l'acqua si tuffò.
Ma invece di pigliarne
doppia porzione, quasi vi restò,
e perdette coll'ombra anche la carne.
Fab.18
Il Barocciaio
Al Fetonte d'un gran carro di fieno
un dì cadde il baroccio in una forra.
Intorno non v'è gente che il soccorra
e il luogo è un non ameno
deserto in mezzo ad una prateria
nella bassa provincia di Pavia.
Si dice che il destino
in quelle parti manda
chi non ha sul suo libro prediletto.
Ti scampi Iddio da quella brutta landa!
Tornando ancora al mio Fetonte, io dico,
che caduto in quel fango che l'impegola,
grida, bestemmia, batte senza regola,
or fa forza alle rote ed ora al carro,
e fatto quasi ossesso,
picchia i muli, la terra e fin se stesso
quel carrettier bizzarro.
Finalmente egli invoca il dio famoso,
noto al mondo per tante ardue fatiche
eseguite nel tempo favoloso.
- Ercole, - grida, - aiutami, se puoi,
trammi da questo fondo,
se è ver che in braccio hai sollevato il mondo.-
Intanto voce fu per lui udita,
che da una folta nuvola diceva:
- Ercole vuol che l'uomo che l'invita
muova le braccia anch'esso per il primo.
Guarda dunque ove prima sia l'intoppo,
togli i ciottoli e il fango che v'è troppo
presso le ruote, e da' forza alla leva.
Animo, spiana qua, togli di là,
aiutati che il Ciel ti aiuterà.
- Hai tu fatto? - Ecco fatto, Ercole santo.
- Or sono a te, prendi la frusta in mano.
- Ecco la frusta, oh vedi, caso strano!
Che è ciò? il mio carro, o Dio, corre da sé
Deo gratias! Grazie a te.
- Se il tuo baroccio va,-
rispose ancor la voce dalla nuvola,-
la forza è nel proverbio:
aiutati che il Ciel t'aiuterà.
Fab.19
Il Ciarlatano
Sempre il mondo fu pien di vendifrottole,
che van spacciando le più strane iperboli.
L'uno sul palco bravar osa il diavolo,
e l'un ti stampa sopra un cartellone
ch'egli ti dà dei punti a Cicerone.
Un di costor solea dare ad intendere
di possedere l'arte assai difficile
di render dotti i più massicci zotici.
- O contadino o tanghero ignorante,
in breve tempo io ve lo cambio in Dante.
- Signori sì, - dicea, - datemi un asino,
un asino ferrato ed io più classico
vel do di quanti sono all'Accademia.-
Udito questo, un re di buon umore
mandò a cercar del grande professore.
E gli disse: - Dottore eccellentissimo,
ho nelle stalle un asinel d'Arcadia,
che voglio addottrinar nella retorica.
- Benissimo, - risposegli il giullare,-
Vostra Altezza non ha che a comandare.-
Il re gli fa pagare uno stipendio,
a patto che in dieci anni su una cattedra
ei mettesse la bestia atta a discutere.
Che se mancasse all'obbligo annunciato,
sarebbe in luogo pubblico impiccato.
E sarebbe impiccato in luogo pubblico
spacciatamente e senza cerimonie
con appesa alla schiena la retorica,
ch'ei va vendendo come roba onesta,
e con orecchie d'asin sulla testa.
Un cortigian, ridendo: - In man del giudice,-
gli disse, - ti vedremo a tempo debito.
E dev'esser stupendo lo spettacolo
d'un uom sì dotto e di cotanto peso
che danza al vento ad una corda appeso.
Quando sarai nell'oratorio, un tenero
discorso in bello stil cerca di stendere
coll'arte bella delle tue metafore,
classico testo che potrà servire
ai falsi Ciceroni in avvenire.
- Dieci anni? eh, eh!... prima che scada il termine,
saremo morti il re, l'asino od io,-
rispose il ciarlatano e con giudizio.-
Per quanto non ci manchi il ben di Dio,
e si mangi e si beva di gran gusto,
su tre, in dieci anni, morir uno è giusto.
Fab.20
La Discordia
La dea Discordia si tirò lo sdegno
dei Numi tutti per cagion di un pomo.
Discacciata dal ciel, scese nel regno
dell'animal che prende il nome d'Uomo,
dove fu tosto a braccia aperte accolta
in un con suo fratel Che-sì-che-no,
e con suo padre Roba-data-e-tolta.
Scelse il nostro emisfer per sua dimora,
ché l'altro, giù, agli antipodi,
è così rozzo ancora,
che la gente vi nasce e si marita
senza imbrogli di preti e di notari,
che son della Discordia i segretari.
La Fama messaggiera a lei si presta
per mandarla ove il caso la richiede,
e la Discordia lesta,
destando incendio dove son scintille,
va per città, per ville,
ed alla Pace rapida precede.
Alfin la Fama, che si sente stanca
di cercar questa pazza irrequïeta,
che va di qua e di là senza una mèta,
per poterla trovare all'occorrenza
le consigliò di eleggere
in qualche luogo stabil residenza,
dove potrebbe sulla tarda notte
mandarla ad alloggiare
chi volesse un momento respirare.
In casa d'Imeneo,
vale a dire di gente maritata
(non v'eran chiostri femminili allora),
fu Discordia per sorte ricovrata,
e vi rimane ancora.
Fab.21
La Vedovella
Non si perde un marito senza pianto
e senza grande schianto di sospiri.
Ma dopo alcuni giri
di sol, col tempo la tristezza vola
e ancor la vedovella si consola.
Dopo un anno la vedova di ieri
non ha di triste che i vestiti neri,
e se prima facea fuggir la gente
col volto sconsolato,
dopo attira più d'uno innamorato.
Il morto giace e il vivo si dà pace,
e per quanto si dica che vi sia
dolor senza conforto,
la credo una bugia.
Aver di ciò potrai prova sincera
in questa favoletta che par vera.
A giovin sposa e bella
rapito era il marito dalla morte.
Accanto al letto la fedel consorte,
sentendosi mancare ogni coraggio,
gridava: - Aspetta che ti seguo anch'io.
Con te voglio morir, tesoro mio.-
Ma il marito fe' solo il gran vïaggio.
Il padre, uomo prudente,
lasciò del pianto scorrere il torrente,
poi disse: - O figlia, il pianto ora che giova?
Che importa al morto se tu affoghi il lume
de' begli occhi di pianto in un gran fiume,
mentre vi son dei vivi a questo mondo,
che potrebbero ancor, non dico subito,
ma in tempo più giocondo
cambiar la sorte? Anzi conosco un tale,
bel giovine, ben fatto, assai migliore
del fu tuo sposo.
- Oh ciel! Oh quale orrore!-
interruppe la bella. - In un convento
chiudetemi ove possa le mie pene
raddolcire e dell'animo il tormento.-
Tacque il buon padre e vede che conviene
lasciar che digerisca il suo dolore.
Dopo un mese di pianti e di afflizione,
essa prende a mutar qualche gingillo,
o un nastro od uno spillo
al capo, al petto, infin che il suo dolore
in attesa di nuovi cicisbei
divenne una galante occupazione.
A piccionaia tornano gli amori,
risa e sollazzi e danze, a poco a poco,
tornano ancora in gioco:
di Giovinezza nella lieta fonte
si tuffa e terge ogni mattin la fronte.
Vedendola di sé tanto sicura,
del morto il padre non ha più paura.
Un dì, mentr'ei tacea dell'argomento,
- E dunque? - ella esclamò,-
dov'è, se mi è permesso,
quel bel marito che tu m'hai promesso?
Epilogo
Poniam all'opra un margine. Le cose
troppo lunghe finiscono in serpenti.
Più che la penna consumar sul tema,
è bello il fiore cogliere dell'arte.
Mi si conceda adunque un piccol fiato
sì ch'io possa accudir ad altre imprese,
ove mi chiama Amor, che di mia vita
è gentile tiranno. Altri mi chiama
a cantar la dolcissima di Psiche
e mestissima storia e vi consento,
sperando che nel suo fuoco divino
a novi canti l'animo s'infiammi.
Felice ancor mi chiamerò, se questa
fia l'estrema fatica, a cui soggetto
mi tien di Psiche il prediletto sposo.
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