Favola I.
La Scimia, l'Asino e la Talpa
Erra, dìcea la Scimia, chi natura
E la sua provvidenza tanto loda;
Verso di noi mostrossi o cieca o dura:
Come? non darci un palmo almen di coda?
Fino i Topi di coda ella ha previsti;
A noi sol manca; ond'è che con maligno
Occhio ogni giorno gli animali tristi
Ci guardai dietro, e poi ci fanno un ghigno.
L'Asin risponde: io non la stimo niente;
A che mi val? perchè di raggazzaccì
Con mille insulti un stuolo impertinente
Le spine sotto quella ognor mi cacci?
E'una disgrazia il non aver le corna:
Ah son le corna pur la bella cosa!
Rimira il bue, che n' ha la testa adorna;
Che faccia alza sublime e maestosa!
E capri, e agnelli, e s'altra inutil v' è
Bestia, di corna fia dunque guernita?
E non l'avrà una bestia come me?
Non me ne darò pace in fin che ho vita.
Li udì una Talpa, e lor gridò: tacete,
E per conoscer ben fin dove arriva
Vostra ingiusta follìa, bestie indiscrete,
Guardate me, che son di vista priva.
Chi viver vuol tranquillo i giorni sui,
Non conti quanti son di lui più lieti,
Ma quanti son più miseri di lui.
Favola II.
La Fragola e la Zucca
L'odorosa Fragoletta
Colla fronte porporina
Si mostrava infra l'erbetta:
Una Zucca sua vicina
Disdegnosa le si volse,
E così la lingua sciolse:
Chi ti rese ardita tanto
Di spuntare entro quest'orto,
Ed a me piantarti accanto?
Potea farmi maggior torto
Lo sciocchissimo padrone?
Veramente villanzone!
Por la Fragola nel rango
D'una Zucca pari mio!
Qui più certo non rimango;
Partiremo o tu, od- io:
Se il mio corpo si rivolve
Io ti schiaccio e mando in polve.
Tace ognora; e a capo basso
Sta la Fragola modesta.
Là rivolge intanto il passo
Fille, e accanto a lor s'arresta:
Fissa subito le ciglia
Su la Fragola vermiglia;
Poscia esclama: sei pur vaga!
Chi sentì più grato odore?
Chi de' sensi meglio appaga,
Coll' odore e col sapore?
Allorchè la rosa tinse
Citerei te pur dipinse.
Indi a coglierla ebbe mosso
Il tornito eburnea braccio;
E perchè standole addosso
Quella Zucca dalle impaccio,
Con un calcia allor la manda
Disprezzata da una banda.
Già la Fragola è salita
Su le nevi alabastrine.
E che fu della scipita
Zucca? Coita cadde alfine
In scodelle di spedali,
O nel trogolo a' maiali.
O scrittoi di tomi immensi,
Sai tue come il saggio pensi?
Misurare un libro suole
Dal valor, non dalla mole.
Favola III.
Il Gallo
Un Gallo pien di spirti marziali
Di sangue Inglese, e che d'un vasto piano
Signoreggiava solo da Sultano,
Vinti e dispersi tutti i suoi rivali:
Un dì che con inquieto occhio gelose
Il suo serraglio percorrendo gia,
Vede un pozzo, e non sa che cesa sia:
Pur temendo un rival là dentro ascoso,
Salta pien di sospetto in su la spenda,
In giù riguarda; e l'umido cristallo
Riflettendo qual specchio, un altro gallo
Pier come lui gli apparve sopra l'onda.
Gonfia irato e distende il collo altero;
Lo stende e gonfia ancor quasi alla zuffa
Venga il nemico; egli le piume arruffa;
Le arruffa l'altro non di lui men fiero.
Nel pozzo allor si slancia furibondo
Col rostro aperto che nell' onda batte:
Deluso allor per l'acque si dibatte,
Geme, s' affanna, e morto cade al fondo.
Il geloso furor la mente ingoinbra,
E sì l' offusca, che da corpo all'ombra.
Favola IV.
Il Fanciullo e i
Pastori
Al lupo, al lupo; aiuto per pietà,
Gridava solamente per trastullo,
Cecco il guardian, sciocchissimo fanciullo;
E quando alle sue grida accorrer là
Vide una grossa schiera di villani,
Di cacciatori e cani,
Di forche, pali, ed archibusi armata,
Fece loro sul muso una risata.
Ma dopo pochi giorni entra davvero
Tra il di fui gregge un lupo ed il più fiero.
Al lupo, al lupo il guardianello grida;
Ma niuno ora l' ascolta:
O dice, ragazzaccio impertinente,
Tu non ci burli una seconda volta,
Raddoppia invan le strida,
Urla e si sfiata invan, nessun lo sente:
E il lupo, mentre Cecco invan s'affanna,
A suo bell' agio il gregge uccide e scanna.
Se un uomo per bugiardo è conosciuto,
Ouand' anche dice il ver non gli è creduto.
Favola V.
Il Vecchio e la Morte
Un miserabil nom carico d'anni,
E non pochi malanni,
Portava ansante per sassoso calle
Un gran fascio di legne su le spalle.
Ecco ad un tratto il debot pie gli manca,
Sdrucciola, e dentro un fosso
Precipita, e il fastel gli cade addosso.
Con voce e lena affaticata e stanca
Appella disperato allor la Morte,
Che ponga fine alla sua trista sorte.
Vieni, Morte, dicea, fammi il favore,
Toglimi da una vita di dolore.
C' ho a fare in questo mondo? ovunque miri,
Non vedo che miserie e che martiri.
Qua di casa il padrone
Domanda la pigione;
Il fornaro di là grida che senza
Denari omai non vuol far più credenza.
Se tu non vieni, la mia gran nemica,
La fame porrà fine alle mie pene;
Ma morrò troppo tardi, ed a fatica.
Ai replicati inviti ecco che viene
La Morte a un tratto colla falce in mano,
E gli domanda in che lo può servire.
Sentissi il pover nom rabbrividire,
Che credea di parlarle da lontano:
E con pallida taccia e sbigottita,
Pispose in voce rauca e tremolante:
Ti chiamai sol perchè mi dassi aita
A portar questo fascio si pesante.
Quando è lontana poco ci sparenta
La Morte; ma qualora s' avvicina,
Oh che brutta figura che diventa!
Favola VI.
Il Corvo e la Volpe
Oh quanto tu sei bello!
Dicea la Volpe a un Corvo, che sedéa
Sopra d'un arboscello,
E una forma di cacio in bocca avea;
Che maestosa e nobile figura!
Un più vezzoso augello
Non formò la natura.
Il negro delle piume
La maestà vi accresce, e tanto è vero,
Che i preti, e i monsignori hanno costume
Sempre vestir di nero.
Se di tua voce ancor la melodìa
Corrisponde allaspetto,
Niuno oserà negar che tu non sia
L'animai più perfetto.
La dolce adulazione il cor gli tocca;
Apre il becca a cantare; e già caduta,
Gli è la forma di cacio dalla bocca.
Corre la Volpe astuta,
La raccoglie, e con aria schernitrice,
Poscia che di quel cacio ha fatto il saggia,
Bravo, bravo, gli' dice:
Il tuo canto mi piace, e più' il formaggio.
Non m' accusar di froda;
Piuttosto, al prezzo d'un formaggio.impara,
Che chi troppo ti loda,
La lode ti farà costar poi cara.
Favola VII.
Il Gallo e la Gemma
Razzdando entro 1a vile
Spazzatura d' un cortile
Ritrovossi il Gallo avante
Lucidissimo diamante.
Tu sei bello, disse, affè;
Ma sarìa meglio per me,
Schiettamente te lo dico,
Un granello di panico.
De' bei libri scelti e rari
Uno sciocco ereditò,
Che vendè per far danari.
Favola VIII.
La Volpe scodata
Sotto l' adunco dente
Di taglioìa tagliente
Una Volpe la coda avea lasciata,
E la sua vita a gran stento salvata.
Stè per più giorni ascosa,
Che di mostrarsi in pubblico scodata
Ell' era vergognosa:
Ma quando alfin si tenne
Dalle volpi un concilio generale,
Alla gran sala ella per tempo venne;
E a un angolo adattassi in guisa tale,
Che la disgrazia sua credè celare.
Cominciò con gran forza a declamare
Poscia in piena assemblea
Contro la strana moda
Di portare una coda.
La natura ha sbagliato, ella dicea:
Non è che un' escrescenza, ed un impaccio
La coda sempre nuoce, e mai non gieva:
Or resta stretta a un laccio,
Tra lo spine or s' intrica,
Così che a distrigarla è gran fatica;
Si strascina sul suoi tutta, e s'involve
E di fango e di polve:
Gl' Inglesi ch'han cervello
Taglian la coda ad ogni lor destriere,
Nè per questo è creduto mai men bello:
Or sarei di parere,
Che con pubblica legge s' ordinasse
Ch' ogni volpe la coda si tagliasse.
Questa proposizion fè nel consiglio
Nascere un gran bisbiglio:
Quando una volpacchiotta astuta e fina,
Che di sua coda aveva vanità,
Quanta forse Nerina
Della sua bionda e lunga chioma n' ha,
Rivolta all' orator, disse: scusate,
Pria che a partito la question si metta,
Voltatevi, e il di dietro a noi mostrate.
A voltarsi la Volpe allor costretta,
Mostrò le sue disgrazie; e colle risa
La question fu decisa.
Ognuno i suoi difetti ed i suoi mali
Render vorrebbe al mondo universali.
Favola IX.
Il Padre il Figlio
e l'Asino
Sopra un lento Asinel se ne venia
Un villan curvo il tergo ed attempato;
Il Figlio a pie faceagli compagnia,
E giano insieme ad un vicin mercato.
Scontraro un passeggier, che al Padre volto,
Disse, forse per prenderne sollazzo:
La cosa non mi par discreta molto;
Mandare a pie quel povero ragazzo!
Il vecchio vergognossi, e fece il Figlio
Montare in sella, e a pie prese il sentiero;
Ma non erano andati ancora un miglio;
Incontrarono un altro passeggiero,
Che disse: mal creato ragazzaccio,
Che una forca tu sei certo si vede;
Di cavalcare hai cor dunque, asinaccio,
E il vecchio Padre tuo mandare a piede?
Il Padre allora: io vorrei pur contento
Rendere alfin ciascun per quanto posso:
Facciamo un' altra prova; e in quel momento
Dell' Asino ambedue montano addosso.
Ma nuova gente incontrano in cammino,
Che grida, e porge lor nuove molestie:
Guardate, discrezion! quel bestiolino
Ha da portar due cosi grosse bestie!
Grida il vecchio: oh che gente stravagante!
Eppure un' altra ancor ne vo' provare:
Smontano a terra entrambi, e scosso avante
L' Asino a senno suo lasciano andare.
Ecco novello inciampo; e dir si sente
Qualcun che passa: io non conosco affè
Di que' due più stordita e sciocca gente;
Mandan l'Asino scosso, e vanno a pie.
Il Vecchio allor gridò: più non ci resta
Che portar noi quell' Asin, ma sarebbe
Pazzìa sa strana e si solenne questa,
Che l'Asin stesso se la riderebbe.
Che concludiam? Che aver l'approvazione,
Di tutto il mondo, e star con esso in pace,
Essendo un' impossibil pretensione,
Sarà meglio di far quel che ci piace.
Favola X.
L'Aquila e i Gufo
Dopo molte contese,
E scambievoli offese,
L'Aquila e il Gufo fecero la pace;
Ma come del rapace
Alato Re dal rostro e dagli artigli
Il Gufo assai temea
De' suoi teneri figli,
Nè tutti i torti avea;
Dar si fece parola,
E parola di Re, che non avrìa
Usata a frgli suoi discortesìa.
Perchè meglio sicura
Sia la tenera vostra famigliuola,
Disse l'Aquila, wid' io non possa errare
Fatemene frattanto una pittura.
Non potete sbagliare,
Rispose il Gufo perche la natura
Non ha mai fatto uccelli
Al par de' figli miei vezzosi e belli.
Sono un occhio di Sole, graziosi,
Leggiadri, manierosi:
Il canto lor che tutti i sori molce
Di quel del rosignnolo è ancor più dolce.
Dopo non molti giorni andando a caccia
L'Aquìla, stimolata dalla fame,
Entro d' un cavo tronco il capo caccia;
E un par d' uccelli di sì rozza e infame
Figura vede, e tanto osceni e schifi,
Con occhi gialli, e sì sformati grifi,
Piume deformi e lorde,
E voce così stridula e discorde,
Che non può creder sien quei, di cui fatto
Il Gufo aveva così bel ritratto:
E senza più pensar, scagliando il rostro
Su l'uno e l'altro mostro,
Gli divora ambedue: finita bene
La cena non avea, che sopravviene
Il tristo genitore, e di querele
Empiendo l'aere, il falso amico accusa
Di mancator di tede e di crudele;
Ma l'Aquila avea troppa buona scusa.
I figlinoli più brutti
Credono i più leggiadri i genitori:
Questo s' avvera in tutti;
Ma in specie poi ne' libri e megli autori.
Favola XI.
Il Noce
Il Noce che tant' alto i rami spande,
Quando escì dalle man della natura,
Non era cosi grande,
Ma piccolo e pigmèo
Appunto come il fico di Zacchèo.
Perciò pria che a matura
Perfezïon giungessero i suoi frutti,
Eran rapiti tutti.
Da chi passava a caso per quel piano;
Che senza affaticarsi
Vi giungea colla mano.
Con Giove cominciò dunque a lagnarsi
Il Noce che l' avesse fatto nano:
Lo pregò di cangiare
Il suo misero stato,
E i suoi rami da terra tanto alzare,
Ch' ei fosse da quei furti assicurato.
Rise Giove, e lo volle contentare;
E una mattina, all' apparir del giorno,
Rimase ogni villan di quel contorno
Attonito, mirando in un istante,
Il Noce di pigmèo fatto gigante:
Che allor superbo la sublime testa
Volgea dall'alto, rimirando sotto
Si gran tratto di campi e di foresta,
E in sibilo orgoglioso
Scoteva il crin frondoso.
Ma la propria follìa vide di botto;
Che i pomi giunger non potendo ad esso
Incominciaro ad ogni lor potere
A grandinar di pietre un nembo spesso
Quei villani per farli al suol cadere
Botti i rami alle orribili percosse,
Le frondi a terra scosse,
Lacero, pesto, e alfin pentito e tristo,
Tardi il povero Noce si fu avvisto,
Che la soverchia altezza
Nemica è troppo della sicurezza.
Cresce in grandezza alcun, cresce in travaglio,
E a' colpi de' malevoli è bersaglio.
Favola XII.
La Cicala e la Formica
Mentre in stridule note assorda il ciclo
Una Cicala sul fronzuto stelo,
Sotto l' estivo ardore
Tutta intrisa di polve e di sudore,
I granelli pesanti la Formica
Lenta, ansante si trae dietro a fatica!
E con provida cura
Empie i granai per la stagion futura.
Di lei si burla la Cicala, e intuona
Stridendo una canzona,
Con cui si prende le formiche a scherno.
Ma poi venuto il verno,
La Cicala di fame mezza morta,
Della Formica picchia ecco alla porta,
E le domanda un po' di carità.
Sorella in verità,
Risponde la Formica, mi dispiace,
Il verno è lungo, ed incomincia adesso;
E sai che il primo prossimo è sè stesso,
Spensierato infingardo, è preparato
Ancora a te della Cicala il iato.
Favola XIII.
Il Topo
campagnolo e il cittadino
Avvenne un tempo fa
Che un Topo campagnolo invitò a .cena
Un Topo di crtta;
E si dette ogni pena
Per onorarlo: in tavola gli pose
Ed acini sceltissimi di vena,
E le vivande a .lui più prezïose,
Per le solennità serbate solo.
Cioè a dire un po' di ravvigiolo,
E un pezzo ancor per lui di prelibata
Carnesecca intarlata.
I rusticani cibi nauseando,
L' ospite altier, li guarda appena, e passa;
Arriccia il naso, e or questo, or quel fintando,
Appena il dente ad assaggìarli abbassa.
Con aria poi d' interna compiacenza
Volto al compagno, disse: io pur vorrei
Farti sentir qual sia la differenza
Da queste alle vivande cittadine:
Venir meco tu dei,
Le rupi e i boschi abbandonar, che alfine,
Credimi, non si sa
Gustar la vita che nelle città.
Gli crede il buon villano, e col favore
Della notte in cittade entrano, e in grande
E ricco ostel passàr fra lo splendore
Dell' argento e dell' oro in ampia sala:
Ove di varie e notili vivande,
Avanzi già d'un lieto
Festin notturno, il grato odóre esala.
Siede già sopra morbido tappeto
Il Campagnol stupito:
Corre il compagno in questo ed in quel canto;
E i cibi di sapore il più squisito
Ad esso reca intanto,
E ne fa pria da bravo scalco il saggio.
Pien di buono appetito
L'altro dimena il dente, e il muso s' unge:
A gustar nuovi cibi ognor coraggio
Gli fa quegli, e lo stimola e lo punge: —
Assaggia, amico, questo buon ragù. —
Di grazia, amico, non ne posso più. —
E via, chesmorfie! questa gelatina
Gusta, perch' è divina, —
Tu mi farai crepar. — Quel fricando
Non trascurare. — Oibò. —
Sentilo: l' odor suo molto promette. —
No. — Tuffa ih questa salsa le basette.
A un tratto con orribile fracasso
Si spalancar, le porte: entran staffieri,
Sguateri, camerieri;
E rimbombando va dall' alto al basso
Di due cani acutissimo ululato.
A tai vicende usato,
Il Topo cittadin fugge e s' asconde:
L' altro intanto s' imbroglia e si confonde:
Scampò, ma a rischio d' esser malmenato.
Poichè fu la paura un poco quieta,
Restati soli, esci dalla segreta
Buca, e al compagno disse: amico, addio,
Torno al bosco natìo;
Che queste pompe, e questi regil tetti
E le vivande più squisite e buone,
Fra rumori, inquietudini, e sospetti,
Mi farebbero troppa indigestione.
Favola XIV.
Il Ventre e le
altre membra
Il Popolo è una bestia impertinente:
Ma fortunatamente
Crede in bocca d' aver la musoliera;
E per una felice illusïone,
Questa terribil fiera
Guidar d' altrui si lascia a discrezione;
Come col capo chino
Un bue menar si lascia da un bambino:
Ma guai s' egli si avvede
Della sua forza, e non aver pia laccio,
Che lo tenga, se crede!
Così di Roma un giorno il popolaccio,
La musoliera rotta,
Attruppossi, ed in frotta
Esci dalla città, maledicendo
I Consoli, il Senato:
Ecco, dicean fremendo,
Noi soffriam tutto il peso dello Stato:
Là combatter si deve? è della plebe
Il sangue il primo ad essere versato;
Che in conto siam di pecore e di zebe.
In pace poi, senz' aver mai riposo,
Travagliar ci è mestiere,
Se guadagnar vogliam di duro e nero
Pane un vii tozzo, o un abito cencioso:
Ricco intanto ed ozioso,
Senza far nulla in faccia al nostro stento,
Fra delizie contento,
Vive il Senato; e tutto
Delle nostre fatiche usurpa il frutto.
Non lavoriamo più, nè alla città
Si torni, e si vedrà,
Se questi illustri eroi
Potranno viver ben senza di noi,
Questo fatai consiglio
Avean già preso, quando,
Fra il popolar tumulto ed il bisbiglio;
Un vecchio Senatore venerando,
Cui, benchè fiero e pieno d' insolenza
Il popolacela, aveva riverenza:
Si fece avanti, e in lui tenendo fisse
Attento ognun le luci, ei così disse:
Le Membra un tempo fa del corpo umano
Fecer contro lo Stomaco congiura:
Noi lavoriamo, e lavoriamo invano
Dicean, perchè costui tutto ci fura,
E la fatica a noi soltanto resta:
Giacchè, qualunque cura
Si dia la Mano, il Pie, l'Occhio, la Testa,
Va ogn' opra a terminare
Un po' dì vitto al fin nel procacciare.
Tutto insomma si perde e si profonda
Del Ventre dentro alla vorago immonda:
Ei non fa nulla; stiamo ancora nui
Oziosi come luì.
A un perpetuo digiuno il Ventre allora
Fu condannato; ma di lor follia
Si avvidero le Membra in poco d' ora:
Tutto il corpo, languìa;
Il Piè dal suol levarsi non potea;
La Man non si reggea;
Errando gli Occhi gìan languidi e smorti.
Allor si turo accorti,
Che, il ventre, che apparìa tanto, oziosa,
Pur troppo era operoso;
E, ministrando il nutritivo umore
A loro stessi poi per vie segrete,
Da per tutte infondea vita e vigore
Popoli m' intendente?
Questo Ventre è il Senato,
E voi le Membra ribellanti siete.
La Plebe intese, e tutto fu calmato:
Favola XV.
La Donnola e il Topo
Tratte all' odor del cacio e del presciutte
Per foro stretto a forza entrò in dispensa.
Donnola, che avea il corpo smilzo e asciutto:
lsi però facendo lauta mensa,
Tanto ingrassò, che aci un' enorme massa
Stese le membra e l' ampia pancia grassa.
Sentito un dì romor, sen fugge al fesso
E per escir prova e riprova, invano.
Oh bella! dice, non è-il foro stesso?
Sì, le rispose un Topo da lontana;
Ma se uscir vuoi di dove già passasti,
Dimagrar ti convien quanto ingrassasti.
Diceva un Finanzier: Se al Re non piace
L'opera mia, mi lasci andare in pace.
No, gli fu detto; se vuoi salvo escire,
Il mal tolto convien restituire.
Favola XVI.
Il Concilio de' Topi
Il gran Buricchio, il più tremendo gatto,
Era de'Topi l'Attila, il flagello;
E già fatto n' avea cotal macello,
Che quasi il popol loro era disfatto.
Un dì che quel crudel nella vicina
Campagna er'ito a caccia ai passerotti;
Squallidi e tristi i Topi infra le botti
Adunaron capitolo in cantina.
Qui bisogna trovar qualch espediente,
Il Decan cominciò: l' opinion mia,
Venerabili padri, oggi sarìa
Al Gato di segare e l' unghia e il dente
O poco o punto applaudir s' intese
Questo progetto: allóra avendo alzate
Vecchio Topo le lunghe venerate
Basette, in aria grave a parlar prese:
Io che son sempre al ben pubblico intento,
Al collo del canin della Signora
Vidi un sonaglio tintinnar, qualora
Ei si movesse a passo presto, o lento.
Eccovi col sonaglio il suo collare:
Questo attaccare al Gatto ora conviene;
E quando verso noi furtivo viene
Questo assassin, tosto udirem sonare.
Bravo, bravo! una statua in verità
Si merita, s' alzar tutti gridando:
S' attacchi tosto quel sonaglio ... Quando,
Un domandò? ma chi L'attaccherà?
Io no. — No? neppur io, risponde un altro.
Un terzo: ed io nemmen. Confusi e muti,
Chi di qua, chi di là, come venuti
Erano, si partir' senza far altro.
Tutti son buoni a fare un bel progetto;
L'imbroglio sta nei metterla ad effetto
Favola XVII.
Il Leone e il Tafano
Non mi guardar sì fiero,
Che non mi fai paura;
Credi che il mondo intero
Tremi di tua bravura?
Sol que' vili animali,
Che passeggiano a pie,
Tremano innanzi a te:
Ma quelli e' hanno l' ali,
Sì poca han soggezione
Del superbo Leone,
Ch' anche un Tafan par mio
Puote, o signor mio bello,
Disfidarti a duello.
Ah! insetto vii, se degno
Crederti potess' io,
Risponde, del mio sdegno;
Con una leggierissima
Sferzata solamente
D 'uno de' crini miei
Tacer perpetuamente,
Credimi, ti farei.
Le ciarle sono inutili,
Delle minacce io rido,
Rispose quegli; e voglio
Domar cotesto orgoglio:
In fàccia a tutti i tuoi,
Alla pugna ti sfido;
Difenditi se puoi.
Rapido qual saetta
Sugli occhi a lui sì getta,
E stranamente il punge.
Vibra il Leon la zampa,
Ma già l' insetto è lunge.
Torna, e di nuovo il fiede;
Il Leon d' ira avvampa,
Nè mai però lo giunge.
Quello ora fugge, or riede,
E sempre il fe re in faccia:
Nel naso a lui si caccia;
Freme il Leone e sbuffa,
L' irta criniera arruffa,
Si sferza a' lati, e rugge;
E per boschi e pendici
Da disperato fugge.
Allor dalle narici,
In aria trionfale,
Esce, e con stridul' ale
Grida in rauco ronzìo:
Il vincitor son io.
Nessun dispregerai:
Che il più piccol nemico;
Può darti briga assai.
Favola XVIII.
Il Cervo che si
specchia
Che vaghe corna che mi diè Natura!
Oh che bella figura,
Carca d'un tanto onor, fa la mia fronte!
Grida un Cervo, specchiandosi nel fonte;
Fin gli speziali nan la bottega adorna
Delle mie belle corna;
Wa di grazia, guardate,
Che gambucce sottili che mi ha date!
Paion fusi, ed in ver me ne vergogno.
Mentre ciancia così, suonar s' intese
De' cani alto latrato In tal bisogno:
Raccomanda alle gambe vilipese
La vita il Cervo; e pieno di spavento,
Ov' è più scuro il bosco egli si caccia.
Ne seguono la traccia
Rapidamente i cani; ogni momento
Colle corna s' impaccia
Tra' rami il: Cervo; e maledice intanto
Ciò e' ha lodato tanto.
Alfin, nuovo Absalonne, in guisa. intrica
Tra i vepri e i rovi la ramosa testa,
Che a distrigarla è vana ogni fatica.
Sopraggiunge l' infesta
Turba de' cani allora,
Che lo sbrana, lo strazia, e lo divara.
E' mostra ben d'aver poco cervello
Chi più dell' util può stimare il bello.
Favola XIX.
Il Pastore
ministro di Stato
Sentito ho dir che un secol fuvvi, e quello
Naturalmente il secol d' ora è stato,
De' Re pastori; e con qual mai più bello.
Nome un Sovrano esser potrìa chiamato
Che con quel di pastor, che non va senza
Semplicità, giustizia, ed innocenza?
Ma pensandovi bene,
Secolo alcuno in vero alla mia mente
De' Ministri pastori, e' non mi viene
Pur v' ebbe un Re sì saggio,
Che a veder se contenta era la gente,
Scorrendo ogni cittade, ogni villaggio,
Sentì dar tante lodi.
A un Pastor, che solea tutte le liti
De' vicini aggiustar con dolci modi,
E i suoi giudizii eran sì saggi e miti,
Dettati sol dal naturai sapere;
Che del, bosco lo trasse, e dichiarato,
Bench' egli ostasse ad ogni suo potere,
Fu primiero Ministro dallo Stato.
Subito, caminciò de' Cortigiani
La turba pel buon uomo a prender gioco,
E i suoi rozzi modi grossolani,
Indegni, al loro dir, dell' alto loco;
Ed a schernirlo, ed a mostrarlo a dito,
Come Arlecchio da principe vestito.
Pur, con rabbia e dispetto,
Tanto il sentìan lodato e benedetto,
Che tutti uniti presero ad ordire
Strana congiura, e con arti sì destre
Di calunnie maestre,
Contro lui tanto sepper fare e dire,
Che al fine il buon Sovrano
Fecero insospettire.
E ver ch' egli solca toccar con mano
Le frodi lor, quando prendessi cura
D' esaminarle a fondo;
Ma apesso i Re non han la voglia o l' ozi
Di scandagliare a fondo ogni negozio.
E poi, chi veder può dentro un profondo
Baratro di calunnia e d'impostura,
Ove la vista più lincèa s' oscura?
In somma il Re credè che il suo Pastore
Fosse alfìn diventato un traditore:
E un Cortigiano più degli altri astuto,
Che le spie dietro a quello avea tenuto,
Disse, che in ferrea cassa egli celava
Tesoro immenso; e da nessun veduto
Di nascosto ogni giorno il visitava.
Un altro asterìa poi con tal baldanza,
Come se stato fosse testimone,
Quanti doni, perchè, da quai persone
Egli ebbe, con ogn 'altra circostanza.
Vuol sorprenderlo il Re: con più di cente
Cortigiani sen viene in brusca cera
Del suo Ministro nell' appartamento.
E ch' apra, quella cassa ad esso impera.
Lieto il Ministra la disserra; e oh quali
Scopre veri tesori qui nascosi!
Eran gli antichi arredi pastorali,
Gli zoccoli, il bastone, i suoi lanosi
Panni, e fin la zampogna. Oh spoglie care.'
Grida, ogni dì vi venni a visitare,
Per non perder del mio
Antico stato la memoria: è giunto
Il fortunato punto;
Ti conobbi abbastanza, o Corte, addio.
Disse; e lasciando di sorpresa piena,
A sì novella scena,
La folta turba ch' egli avea d' intorno,
Alla capanna sua fece ritorno.
Per quanto in alto ti sollevi il fato,
Non ti scordar del tuo primiero stato.
Favola XX.
La Farfalla e la Rosa
Una vaga Farfàtletta
Gia librando a mezza estate
Or sui fiori, or sa l' erbetta
Le sue piume colorate.
L'ali, il collo, il sen guernito
D'auree liste risplendea;
E del lucido vestito
Compiacersi ella parea.
Scorre ogn' orba, ogni arboscello,
Ogni fior più vago annasa,
Per iscegliere il più bello,
E fondarvi la sua casa.
Sulla querce non s' arresta,
Non sul pin, non su l' oliva:
Troppo rozza è quella e questa,
La Farfalla è troppo schiva.
Scorge alfin su verde stelo
La vermiglia e rugiadosa
Chioma altera in verso il cìelo,
Qual reina, erger la Rosa.
Su lei vola: essa l' accoglie,
E le aperte in sul mattino
Stende a lei morbide spoglie,
Qual tappeto porporino.
Quivi posa i fondamenti,
Qui la casa sua compone;
Ed i mobili e crescenti
Cari germi ivi ripone,
Folle insetto! il giorno appresso
Vede mesto che languisce
Dell' ardor soverchio oppresso
Il bel fiore, e inaridisce.
Vede alfin l' altra mattina
Senza foglie estinto il fiore;
E la casa che ruina;
E la prole che si muore.
Poco senno hanno gl'insetti,
Che sui fior fondan le case:
Ma degli uomini i progetti
Forse nan più solida base?
Favola XXI.
Il Cigno che muta voce
Invidiam placare parat virtute relìcta?
Horat.
I fisici più gravi, e gli eruditi
Fecer ne' tempi addietro, e fanno ancora
E lunghe e dotte strepitose liti,
Perchè una voce armonica e canora
Avea ne' tempi antichi il Cigno, ed ora
Non canta no, ma gracchia,
Appunto come un' oca o una cornacchia;
Ed hanno mille baie acutamente
Dette, piene però d' erudiziene:
Or io per risparmiar d' un innocente
Cristiano inchiostro tanta effusïone,
La ragion ne dirò, perchè i segreti
Della Natura san meglio i poeti.
Quando uscì dalle man della Natura
Il Cigno, anch' esso nacque
Con voce rauca, dissonante, e dura,
Come gli augei che vivono nell' acque.
Niuno di lui però prendeasi gioco,
Perciocchè presso a poco
Centavan tutti su l' istesso tuono.
Per sua disgrazia un giorno
Infra i rami d' un orno
Sentì del Rosignuolo il dolce suono;
E allor vedendo quanto
L' armonìa del pantano era discorde,
Del Rosignuolo chiese a Giove il canto,
Che sul principio fè l' orecchie sorde:
Ma quando èi volle poi furtivo entrare
Di Leda nelle soglie,
Si fece allor prestare
Dal Cigno le sue spoglie;
E allor concesse al candido animale
Canto dèi -Rosignuolo a quello eguale.
Di questo nuovo pregio il Cigno adorno,
Credette esser più illustre
Infra i compagni dello stuol palustre:
Ma quei gli furo intorno
Con sibili di scòrno,
Gridando, che il cantar cosi non era
Il tuono, e la maniera
Conveniente alla palustre stanza.
Invidia forse fu, forse ignoranza,
L' altrui doti sprezzare, avere in pregio
Le proprie solo è natura le istinto:
Ognun sa come i Mori hanno in dispregio
I bianchì, e il Diavol bianco hanno dipinto,
Fosse in somma ignorante, ovver malignò
Il gracidante stuol, con scherni e busse
Perseguitò tanto e poi tanto il Cigno,
Che disperato essendo, egli s' indusse
A richiedere a Giove alfin l' antica
Voce discorde, e in quella
Ora soltanto canta, Ovver favella;
E quella schiera, a lui tanto nemica,
Sol si potè placare
Quando l' udì gracchiare.
Infra i balordi per istàr d' accordo
Spesso, o lettor, cònvien fa-t da balordo.
Favola XXII.
La Contessa de' Fiori
O Fior, che presso al rigido
E nubiloso polo
Nato, man trasse provida
Sul dolce etrusco suolo,
Vieni: te già salutano
D' Arno le amene rive;
Ti volge intorno zefiro
Le alette sue furtive.
Al tuo venire arridono
Gli uomini insieme e i Numi:
Qui puoi soavi spargere
I grati tuoi profumi,
Sposa gentil, d' insoliti
Pregi tu splendi ornata,
Qual sculta pietra nobile
Di gemme circondata.
Questo intanto tributano
A Te le tosche Muse
Picciolo dono; accoglilo:
Non sono a mentir use.
Fra i pregi onde il tuo spiritò
Sì amabile ti rende,
Se quel della modestia
Non ultimo risplende,
In questa rozza favola
Tu con ridenti ciglia
Odi d' un fior l' istoria
Che tanto a té somiglia.
Lésbia, cui di inan propria
Formar ad Amor piacque,
Poi mirandola, attonito
Dell' opra si compiacque;
Che unisce il saggio spirito
Alla sembianza bella:
Sicchè non sai decidere
Se quello vinca, o quella;
Con negligenza amabile
Discinta in bel mattinò
Volgeva i piè tra' floridi
Vïali d' un giardino:
E là dell' odorifera
Famiglia il vario aspetto
Contempla, per iscegliere
Quél che te adorni il petto.
Tutti perchè sì nobile,
Sì bel destin lor tocchi,
I fior più vaga spiegano
La pompa a' suoi begli occhi.
Scoperto allor presentale
Il sen l' aperta rosa,
E sdegnasi che a scegliere
Stia Fille ancor dubbiosa,
No, troppo altiera sembrimi,
Die' ella, e senza vesta
Sì nuda, hai ben l' immagine
D' ardita e d' immodesta.
Già il tulipan di porpora
E d' or spiega il colore;
Ma un corpo par senz' anima,
Un fior ch' è senza odore.
Il mugherino è candido;
Ma quell odor sì acuto
Offendè, e par un giovine
Che far voglia il saputo.
Intanto un soavissimo
Sente leggiero odore;
E quinci e quindi volgesì
Per ritrovare il fiore.
Seguita l' odorifera
Traccia; e alfin sotto il piede
La pallidetta mammola
Tra l' erba ascosa vede.
O fior, gridò, sei l' unico
Degno de' voti mìei;
Perchè il leggiadro simbolo
Della modestia sei.
La modestia ebbe il premio:
E il fior dell' umìl letto
Venne a posar sul morbido
E palpitante petto.
Sia da te sempre il merito
Premiato e revèrito;
Ma in specie quando trovasi
Alla modestia unito.
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