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Lorenzo Pignotti

Figline Valdarno 9 agosto 1739 – Pisa, 5 agosto 1812
è stato un poeta, storico e medico italiano, la cui fama
è legata soprattutto all'attività di favolista.

Er war Professor der Physik an der Universität in Pisa,
später Rektor dieser Universität und Geschichtsschreiber
des Großherzogs Ferdinand III.

Seine Fabeln erschienen 1782

Quelle:
Esopiane Favole/del Dottor Lorenzo Pignotti
Napoli 1830

 
Favole Esopiane
 
La Scimia, l'Asino e la Talpa
La Fragola e la Zucca
Il Gallo
Il Fanciullo e i Pastori
Il Vecchio e la Morte
Il Corvo e la Volpe
Il Gallo e la Gemma
La Volpe scodata
Il Padre il Figlio e l'Asino
L'Aquila e i Gufo
Il Noce
La Cicala e la Formica
Il Topo campagnolo e il cittadino
Il Ventre e le altre membra
La Donnola e il Topo

 
Il Concilio de' Topi
Il Leone e il Tafano
Il Cervo che si specchia
Il Pastore ministro di Stato
La Farfalla e la Rosa
Il Cigno che muta voce
La Contessa de' Fiori

 

Favola I.
La Scimia, l'Asino e la Talpa

Erra, dìcea la Scimia, chi natura
   E la sua provvidenza tanto loda;
   Verso di noi mostrossi o cieca o dura:
   Come? non darci un palmo almen di coda?
Fino i Topi di coda ella ha previsti;
   A noi sol manca; ond'è che con maligno
   Occhio ogni giorno gli animali tristi
   Ci guardai dietro, e poi ci fanno un ghigno.
L'Asin risponde: io non la stimo niente;
   A che mi val? perchè di raggazzaccì
   Con mille insulti un stuolo impertinente
   Le spine sotto quella ognor mi cacci?
E'una disgrazia il non aver le corna:
   Ah son le corna pur la bella cosa!
   Rimira il bue, che n' ha la testa adorna;
   Che faccia alza sublime e maestosa!
E capri, e agnelli, e s'altra inutil v' è
   Bestia, di corna fia dunque guernita?
   E non l'avrà una bestia come me?
   Non me ne darò pace in fin che ho vita.
Li udì una Talpa, e lor gridò: tacete,
   E per conoscer ben fin dove arriva
   Vostra ingiusta follìa, bestie indiscrete,
   Guardate me, che son di vista priva.
Chi viver vuol tranquillo i giorni sui,
Non conti quanti son di lui più lieti,
Ma quanti son più miseri di lui.

Favola II.
La Fragola e la Zucca

L'odorosa Fragoletta
   Colla fronte porporina
   Si mostrava infra l'erbetta:
   Una Zucca sua vicina
   Disdegnosa le si volse,
   E così la lingua sciolse:
Chi ti rese ardita tanto
   Di spuntare entro quest'orto,
   Ed a me piantarti accanto?
   Potea farmi maggior torto
   Lo sciocchissimo padrone?
   Veramente villanzone!
Por la Fragola nel rango
   D'una Zucca pari mio!
   Qui più certo non rimango;
   Partiremo o tu, od- io:
   Se il mio corpo si rivolve
   Io ti schiaccio e mando in polve.
Tace ognora; e a capo basso
   Sta la Fragola modesta.
   Là rivolge intanto il passo
   Fille, e accanto a lor s'arresta:
   Fissa subito le ciglia
   Su la Fragola vermiglia;
Poscia esclama: sei pur vaga!
   Chi sentì più grato odore?
   Chi de' sensi meglio appaga,
   Coll' odore e col sapore?
   Allorchè la rosa tinse
   Citerei te pur dipinse.
Indi a coglierla ebbe mosso
   Il tornito eburnea braccio;
   E perchè standole addosso
   Quella Zucca dalle impaccio,
   Con un calcia allor la manda
   Disprezzata da una banda.
Già la Fragola è salita
   Su le nevi alabastrine.
   E che fu della scipita
   Zucca? Coita cadde alfine
   In scodelle di spedali,
   O nel trogolo a' maiali.
O scrittoi di tomi immensi,
   Sai tue come il saggio pensi?
   Misurare un libro suole
   Dal valor, non dalla mole.

Favola III.
Il Gallo

Un Gallo pien di spirti marziali
   Di sangue Inglese, e che d'un vasto piano
   Signoreggiava solo da Sultano,
   Vinti e dispersi tutti i suoi rivali:
Un dì che con inquieto occhio gelose
   Il suo serraglio percorrendo gia,
   Vede un pozzo, e non sa che cesa sia:
   Pur temendo un rival là dentro ascoso,
Salta pien di sospetto in su la spenda,
   In giù riguarda; e l'umido cristallo
   Riflettendo qual specchio, un altro gallo
   Pier come lui gli apparve sopra l'onda.
Gonfia irato e distende il collo altero;
   Lo stende e gonfia ancor quasi alla zuffa
   Venga il nemico; egli le piume arruffa;
   Le arruffa l'altro non di lui men fiero.
Nel pozzo allor si slancia furibondo
   Col rostro aperto che nell' onda batte:
   Deluso allor per l'acque si dibatte,
   Geme, s' affanna, e morto cade al fondo.
Il geloso furor la mente ingoinbra,
   E sì l' offusca, che da corpo all'ombra.

Favola IV.
Il Fanciullo e i Pastori

Al lupo, al lupo; aiuto per pietà,
   Gridava solamente per trastullo,
   Cecco il guardian, sciocchissimo fanciullo;
   E quando alle sue grida accorrer là
   Vide una grossa schiera di villani,
   Di cacciatori e cani,
   Di forche, pali, ed archibusi armata,
   Fece loro sul muso una risata.
Ma dopo pochi giorni entra davvero
   Tra il di fui gregge un lupo ed il più fiero.
   Al lupo, al lupo il guardianello grida;
   Ma niuno ora l' ascolta:
   O dice, ragazzaccio impertinente,
   Tu non ci burli una seconda volta,
   Raddoppia invan le strida,
   Urla e si sfiata invan, nessun lo sente:
   E il lupo, mentre Cecco invan s'affanna,
   A suo bell' agio il gregge uccide e scanna.
Se un uomo per bugiardo è conosciuto,
   Ouand' anche dice il ver non gli è creduto.

Favola V.
Il Vecchio e la Morte

Un miserabil nom carico d'anni,
E non pochi malanni,
Portava ansante per sassoso calle
Un gran fascio di legne su le spalle.
Ecco ad un tratto il debot pie gli manca,
Sdrucciola, e dentro un fosso
Precipita, e il fastel gli cade addosso.
Con voce e lena affaticata e stanca
Appella disperato allor la Morte,
Che ponga fine alla sua trista sorte.
Vieni, Morte, dicea, fammi il favore,
Toglimi da una vita di dolore.
C' ho a fare in questo mondo? ovunque miri,
Non vedo che miserie e che martiri.
Qua di casa il padrone
Domanda la pigione;
Il fornaro di là grida che senza
Denari omai non vuol far più credenza.
Se tu non vieni, la mia gran nemica,
La fame porrà fine alle mie pene;
Ma morrò troppo tardi, ed a fatica.
Ai replicati inviti ecco che viene
La Morte a un tratto colla falce in mano,
E gli domanda in che lo può servire.
Sentissi il pover nom rabbrividire,
Che credea di parlarle da lontano:
E con pallida taccia e sbigottita,
Pispose in voce rauca e tremolante:
Ti chiamai sol perchè mi dassi aita
A portar questo fascio si pesante.
Quando è lontana poco ci sparenta
   La Morte; ma qualora s' avvicina,
   Oh che brutta figura che diventa!

Favola VI.
Il Corvo e la Volpe

Oh quanto tu sei bello!
   Dicea la Volpe a un Corvo, che sedéa
   Sopra d'un arboscello,
   E una forma di cacio in bocca avea;
   Che maestosa e nobile figura!
   Un più vezzoso augello
   Non formò la natura.
   Il negro delle piume
   La maestà vi accresce, e tanto è vero,
   Che i preti, e i monsignori hanno costume
   Sempre vestir di nero.
   Se di tua voce ancor la melodìa
   Corrisponde allaspetto,
   Niuno oserà negar che tu non sia
   L'animai più perfetto.
La dolce adulazione il cor gli tocca;
   Apre il becca a cantare; e già caduta,
   Gli è la forma di cacio dalla bocca.
   Corre la Volpe astuta,
   La raccoglie, e con aria schernitrice,
   Poscia che di quel cacio ha fatto il saggia,
   Bravo, bravo, gli' dice:
   Il tuo canto mi piace, e più' il formaggio.
   Non m' accusar di froda;
   Piuttosto, al prezzo d'un formaggio.impara,
Che chi troppo ti loda,
La lode ti farà costar poi cara.

Favola VII.
Il Gallo e la Gemma

Razzdando entro 1a vile
   Spazzatura d' un cortile
   Ritrovossi il Gallo avante
   Lucidissimo diamante.
   Tu sei bello, disse, affè;
   Ma sarìa meglio per me,
   Schiettamente te lo dico,
   Un granello di panico.
De' bei libri scelti e rari
   Uno sciocco ereditò,
   Che vendè per far danari.

Favola VIII.
La Volpe scodata

Sotto l' adunco dente
   Di taglioìa tagliente
   Una Volpe la coda avea lasciata,
   E la sua vita a gran stento salvata.
   Stè per più giorni ascosa,
   Che di mostrarsi in pubblico scodata
   Ell' era vergognosa:
   Ma quando alfin si tenne
   Dalle volpi un concilio generale,
   Alla gran sala ella per tempo venne;
   E a un angolo adattassi in guisa tale,
   Che la disgrazia sua credè celare.
Cominciò con gran forza a declamare
   Poscia in piena assemblea
   Contro la strana moda
   Di portare una coda.
   La natura ha sbagliato, ella dicea:
   Non è che un' escrescenza, ed un impaccio
   La coda sempre nuoce, e mai non gieva:
   Or resta stretta a un laccio,
   Tra lo spine or s' intrica,
   Così che a distrigarla è gran fatica;
   Si strascina sul suoi tutta, e s'involve
   E di fango e di polve:
   Gl' Inglesi ch'han cervello
   Taglian la coda ad ogni lor destriere,
   Nè per questo è creduto mai men bello:
   Or sarei di parere,
   Che con pubblica legge s' ordinasse
   Ch' ogni volpe la coda si tagliasse.
Questa proposizion fè nel consiglio
   Nascere un gran bisbiglio:
   Quando una volpacchiotta astuta e fina,
   Che di sua coda aveva vanità,
   Quanta forse Nerina
   Della sua bionda e lunga chioma n' ha,
   Rivolta all' orator, disse: scusate,
   Pria che a partito la question si metta,
   Voltatevi, e il di dietro a noi mostrate.
A voltarsi la Volpe allor costretta,
   Mostrò le sue disgrazie; e colle risa
   La question fu decisa.
Ognuno i suoi difetti ed i suoi mali
   Render vorrebbe al mondo universali.

Favola IX.
Il Padre il Figlio e l'Asino

Sopra un lento Asinel se ne venia
   Un villan curvo il tergo ed attempato;
   Il Figlio a pie faceagli compagnia,
   E giano insieme ad un vicin mercato.
Scontraro un passeggier, che al Padre volto,
   Disse, forse per prenderne sollazzo:
   La cosa non mi par discreta molto;
   Mandare a pie quel povero ragazzo!
Il vecchio vergognossi, e fece il Figlio
   Montare in sella, e a pie prese il sentiero;
   Ma non erano andati ancora un miglio;
   Incontrarono un altro passeggiero,
Che disse: mal creato ragazzaccio,
   Che una forca tu sei certo si vede;
   Di cavalcare hai cor dunque, asinaccio,
   E il vecchio Padre tuo mandare a piede?
Il Padre allora: io vorrei pur contento
   Rendere alfin ciascun per quanto posso:
   Facciamo un' altra prova; e in quel momento
   Dell' Asino ambedue montano addosso.
Ma nuova gente incontrano in cammino,
   Che grida, e porge lor nuove molestie:
   Guardate, discrezion! quel bestiolino
   Ha da portar due cosi grosse bestie!
Grida il vecchio: oh che gente stravagante!
   Eppure un' altra ancor ne vo' provare:
   Smontano a terra entrambi, e scosso avante
   L' Asino a senno suo lasciano andare.
Ecco novello inciampo; e dir si sente
   Qualcun che passa: io non conosco affè
   Di que' due più stordita e sciocca gente;
   Mandan l'Asino scosso, e vanno a pie.
Il Vecchio allor gridò: più non ci resta
   Che portar noi quell' Asin, ma sarebbe
   Pazzìa sa strana e si solenne questa,
   Che l'Asin stesso se la riderebbe.
   Che concludiam? Che aver l'approvazione,
   Di tutto il mondo, e star con esso in pace,
   Essendo un' impossibil pretensione,
   Sarà meglio di far quel che ci piace.

Favola X.
L'Aquila e i Gufo

Dopo molte contese,
   E scambievoli offese,
   L'Aquila e il Gufo fecero la pace;
   Ma come del rapace
   Alato Re dal rostro e dagli artigli
   Il Gufo assai temea
   De' suoi teneri figli,
   Nè tutti i torti avea;
   Dar si fece parola,
   E parola di Re, che non avrìa
   Usata a frgli suoi discortesìa.
   Perchè meglio sicura
   Sia la tenera vostra famigliuola,
   Disse l'Aquila, wid' io non possa errare
   Fatemene frattanto una pittura.
   Non potete sbagliare,
   Rispose il Gufo perche la natura
   Non ha mai fatto uccelli
   Al par de' figli miei vezzosi e belli.
   Sono un occhio di Sole, graziosi,
   Leggiadri, manierosi:
   Il canto lor che tutti i sori molce
   Di quel del rosignnolo è ancor più dolce.
Dopo non molti giorni andando a caccia
   L'Aquìla, stimolata dalla fame,
   Entro d' un cavo tronco il capo caccia;
   E un par d' uccelli di sì rozza e infame
   Figura vede, e tanto osceni e schifi,
   Con occhi gialli, e sì sformati grifi,
   Piume deformi e lorde,
   E voce così stridula e discorde,
   Che non può creder sien quei, di cui fatto
   Il Gufo aveva così bel ritratto:
   E senza più pensar, scagliando il rostro
   Su l'uno e l'altro mostro,
   Gli divora ambedue: finita bene
   La cena non avea, che sopravviene
   Il tristo genitore, e di querele
   Empiendo l'aere, il falso amico accusa
   Di mancator di tede e di crudele;
   Ma l'Aquila avea troppa buona scusa.
I figlinoli più brutti
   Credono i più leggiadri i genitori:
   Questo s' avvera in tutti;
   Ma in specie poi ne' libri e megli autori.

Favola XI.
Il Noce

Il Noce che tant' alto i rami spande,
   Quando escì dalle man della natura,
   Non era cosi grande,
   Ma piccolo e pigmèo
   Appunto come il fico di Zacchèo.
   Perciò pria che a matura
   Perfezïon giungessero i suoi frutti,
   Eran rapiti tutti.
   Da chi passava a caso per quel piano;
   Che senza affaticarsi
   Vi giungea colla mano.
Con Giove cominciò dunque a lagnarsi
   Il Noce che l' avesse fatto nano:
   Lo pregò di cangiare
   Il suo misero stato,
   E i suoi rami da terra tanto alzare,
   Ch' ei fosse da quei furti assicurato.
   Rise Giove, e lo volle contentare;
   E una mattina, all' apparir del giorno,
   Rimase ogni villan di quel contorno
   Attonito, mirando in un istante,
   Il Noce di pigmèo fatto gigante:
   Che allor superbo la sublime testa
   Volgea dall'alto, rimirando sotto
   Si gran tratto di campi e di foresta,
   E in sibilo orgoglioso
   Scoteva il crin frondoso.
   Ma la propria follìa vide di botto;
   Che i pomi giunger non potendo ad esso
   Incominciaro ad ogni lor potere
   A grandinar di pietre un nembo spesso
   Quei villani per farli al suol cadere
   Botti i rami alle orribili percosse,
   Le frondi a terra scosse,
   Lacero, pesto, e alfin pentito e tristo,
   Tardi il povero Noce si fu avvisto,
   Che la soverchia altezza
   Nemica è troppo della sicurezza.
Cresce in grandezza alcun, cresce in travaglio,
   E a' colpi de' malevoli è bersaglio.

Favola XII.
La Cicala e la Formica

Mentre in stridule note assorda il ciclo
   Una Cicala sul fronzuto stelo,
   Sotto l' estivo ardore
   Tutta intrisa di polve e di sudore,
   I granelli pesanti la Formica
   Lenta, ansante si trae dietro a fatica!
   E con provida cura
   Empie i granai per la stagion futura.
   Di lei si burla la Cicala, e intuona
   Stridendo una canzona,
    Con cui si prende le formiche a scherno.
Ma poi venuto il verno,
   La Cicala di fame mezza morta,
   Della Formica picchia ecco alla porta,
   E le domanda un po' di carità.
   Sorella in verità,
   Risponde la Formica, mi dispiace,
   Il verno è lungo, ed incomincia adesso;
   E sai che il primo prossimo è sè stesso,
Spensierato infingardo, è preparato
   Ancora a te della Cicala il iato.

Favola XIII.
Il Topo campagnolo e il cittadino

Avvenne un tempo fa
   Che un Topo campagnolo invitò a .cena
   Un Topo di crtta;
   E si dette ogni pena
   Per onorarlo: in tavola gli pose
   Ed acini sceltissimi di vena,
   E le vivande a .lui più prezïose,
   Per le solennità serbate solo.
   Cioè a dire un po' di ravvigiolo,
   E un pezzo ancor per lui di prelibata
   Carnesecca intarlata.
   I rusticani cibi nauseando,
   L' ospite altier, li guarda appena, e passa;
   Arriccia il naso, e or questo, or quel fintando,
   Appena il dente ad assaggìarli abbassa.
   Con aria poi d' interna compiacenza
   Volto al compagno, disse: io pur vorrei
   Farti sentir qual sia la differenza
   Da queste alle vivande cittadine:
   Venir meco tu dei,
   Le rupi e i boschi abbandonar, che alfine,
   Credimi, non si sa
   Gustar la vita che nelle città.
Gli crede il buon villano, e col favore
   Della notte in cittade entrano, e in grande
   E ricco ostel passàr fra lo splendore
   Dell' argento e dell' oro in ampia sala:
   Ove di varie e notili vivande,
   Avanzi già d'un lieto
   Festin notturno, il grato odóre esala.
Siede già sopra morbido tappeto
   Il Campagnol stupito:
   Corre il compagno in questo ed in quel canto;
   E i cibi di sapore il più squisito
   Ad esso reca intanto,
   E ne fa pria da bravo scalco il saggio.
Pien di buono appetito
L'altro dimena il dente, e il muso s' unge:
   A gustar nuovi cibi ognor coraggio
   Gli fa quegli, e lo stimola e lo punge: —
   Assaggia, amico, questo buon ragù. —
   Di grazia, amico, non ne posso più. —
   E via, chesmorfie! questa gelatina
   Gusta, perch' è divina, —
   Tu mi farai crepar. — Quel fricando
   Non trascurare. — Oibò. —
   Sentilo: l' odor suo molto promette. —
   No. — Tuffa ih questa salsa le basette.
A un tratto con orribile fracasso
   Si spalancar, le porte: entran staffieri,
   Sguateri, camerieri;
   E rimbombando va dall' alto al basso
   Di due cani acutissimo ululato.
   A tai vicende usato,
   Il Topo cittadin fugge e s' asconde:
   L' altro intanto s' imbroglia e si confonde:
   Scampò, ma a rischio d' esser malmenato.
   Poichè fu la paura un poco quieta,
   Restati soli, esci dalla segreta
   Buca, e al compagno disse: amico, addio,
   Torno al bosco natìo;
   Che queste pompe, e questi regil tetti
   E le vivande più squisite e buone,
   Fra rumori, inquietudini, e sospetti,
   Mi farebbero troppa indigestione.

Favola XIV.
Il Ventre e le altre membra

Il Popolo è una bestia impertinente:
   Ma fortunatamente
   Crede in bocca d' aver la musoliera;
   E per una felice illusïone,
   Questa terribil fiera
   Guidar d' altrui si lascia a discrezione;
   Come col capo chino
   Un bue menar si lascia da un bambino:
   Ma guai s' egli si avvede
   Della sua forza, e non aver pia laccio,
   Che lo tenga, se crede!
   Così di Roma un giorno il popolaccio,
   La musoliera rotta,
   Attruppossi, ed in frotta
   Esci dalla città, maledicendo
   I Consoli, il Senato:
Ecco, dicean fremendo,
   Noi soffriam tutto il peso dello Stato:
   Là combatter si deve? è della plebe
   Il sangue il primo ad essere versato;
   Che in conto siam di pecore e di zebe.
   In pace poi, senz' aver mai riposo,
   Travagliar ci è mestiere,
   Se guadagnar vogliam di duro e nero
   Pane un vii tozzo, o un abito cencioso:
   Ricco intanto ed ozioso,
   Senza far nulla in faccia al nostro stento,
   Fra delizie contento,
   Vive il Senato; e tutto
   Delle nostre fatiche usurpa il frutto.
   Non lavoriamo più, nè alla città
   Si torni, e si vedrà,
   Se questi illustri eroi
   Potranno viver ben senza di noi,
Questo fatai consiglio
   Avean già preso, quando,
   Fra il popolar tumulto ed il bisbiglio;
   Un vecchio Senatore venerando,
   Cui, benchè fiero e pieno d' insolenza
   Il popolacela, aveva riverenza:
   Si fece avanti, e in lui tenendo fisse
   Attento ognun le luci, ei così disse:
Le Membra un tempo fa del corpo umano
   Fecer contro lo Stomaco congiura:
   Noi lavoriamo, e lavoriamo invano
   Dicean, perchè costui tutto ci fura,
   E la fatica a noi soltanto resta:
   Giacchè, qualunque cura
   Si dia la Mano, il Pie, l'Occhio, la Testa,
   Va ogn' opra a terminare
   Un po' dì vitto al fin nel procacciare.
   Tutto insomma si perde e si profonda
   Del Ventre dentro alla vorago immonda:
   Ei non fa nulla; stiamo ancora nui
   Oziosi come luì.
A un perpetuo digiuno il Ventre allora
   Fu condannato; ma di lor follia
   Si avvidero le Membra in poco d' ora:
   Tutto il corpo, languìa;
   Il Piè dal suol levarsi non potea;
   La Man non si reggea;
   Errando gli Occhi gìan languidi e smorti.
   Allor si turo accorti,
   Che, il ventre, che apparìa tanto, oziosa,
   Pur troppo era operoso;
   E, ministrando il nutritivo umore
   A loro stessi poi per vie segrete,
   Da per tutte infondea vita e vigore
Popoli m' intendente?
   Questo Ventre è il Senato,
   E voi le Membra ribellanti siete.
   La Plebe intese, e tutto fu calmato:

Favola XV.
La Donnola e il Topo

Tratte all' odor del cacio e del presciutte
   Per foro stretto a forza entrò in dispensa.
   Donnola, che avea il corpo smilzo e asciutto:
   lsi però facendo lauta mensa,
   Tanto ingrassò, che aci un' enorme massa
   Stese le membra e l' ampia pancia grassa.
Sentito un dì romor, sen fugge al fesso
   E per escir prova e riprova, invano.
   Oh bella! dice, non è-il foro stesso?
   Sì, le rispose un Topo da lontana;
   Ma se uscir vuoi di dove già passasti,
   Dimagrar ti convien quanto ingrassasti.
Diceva un Finanzier: Se al Re non piace
   L'opera mia, mi lasci andare in pace.
   No, gli fu detto; se vuoi salvo escire,
   Il mal tolto convien restituire.

Favola XVI.
Il Concilio de' Topi

Il gran Buricchio, il più tremendo gatto,
   Era de'Topi l'Attila, il flagello;
   E già fatto n' avea cotal macello,
   Che quasi il popol loro era disfatto.
Un dì che quel crudel nella vicina
   Campagna er'ito a caccia ai passerotti;
   Squallidi e tristi i Topi infra le botti
   Adunaron capitolo in cantina.
Qui bisogna trovar qualch espediente,
   Il Decan cominciò: l' opinion mia,
   Venerabili padri, oggi sarìa
   Al Gato di segare e l' unghia e il dente
O poco o punto applaudir s' intese
   Questo progetto: allóra avendo alzate
   Vecchio Topo le lunghe venerate
   Basette, in aria grave a parlar prese:
Io che son sempre al ben pubblico intento,
   Al collo del canin della Signora
   Vidi un sonaglio tintinnar, qualora
   Ei si movesse a passo presto, o lento.
Eccovi col sonaglio il suo collare:
   Questo attaccare al Gatto ora conviene;
   E quando verso noi furtivo viene
   Questo assassin, tosto udirem sonare.
Bravo, bravo! una statua in verità
   Si merita, s' alzar tutti gridando:
   S' attacchi tosto quel sonaglio ... Quando,
   Un domandò? ma chi L'attaccherà?
Io no. — No? neppur io, risponde un altro.
   Un terzo: ed io nemmen. Confusi e muti,
   Chi di qua, chi di là, come venuti
   Erano, si partir' senza far altro.
Tutti son buoni a fare un bel progetto;
   L'imbroglio sta nei metterla ad effetto

Favola XVII.
Il Leone e il Tafano

Non mi guardar sì fiero,
   Che non mi fai paura;
   Credi che il mondo intero
   Tremi di tua bravura?
   Sol que' vili animali,
   Che passeggiano a pie,
   Tremano innanzi a te:
   Ma quelli e' hanno l' ali,
   Sì poca han soggezione
   Del superbo Leone,
   Ch' anche un Tafan par mio
   Puote, o signor mio bello,
   Disfidarti a duello.
Ah! insetto vii, se degno
   Crederti potess' io,
   Risponde, del mio sdegno;
   Con una leggierissima
   Sferzata solamente
   D 'uno de' crini miei
   Tacer perpetuamente,
   Credimi, ti farei.
Le ciarle sono inutili,
   Delle minacce io rido,
   Rispose quegli; e voglio
   Domar cotesto orgoglio:
   In fàccia a tutti i tuoi,
   Alla pugna ti sfido;
   Difenditi se puoi.
Rapido qual saetta
   Sugli occhi a lui sì getta,
   E stranamente il punge.
   Vibra il Leon la zampa,
   Ma già l' insetto è lunge.
   Torna, e di nuovo il fiede;
   Il Leon d' ira avvampa,
   Nè mai però lo giunge.
   Quello ora fugge, or riede,
   E sempre il fe re in faccia:
   Nel naso a lui si caccia;
   Freme il Leone e sbuffa,
   L' irta criniera arruffa,
   Si sferza a' lati, e rugge;
   E per boschi e pendici
   Da disperato fugge.
Allor dalle narici,
   In aria trionfale,
   Esce, e con stridul' ale
   Grida in rauco ronzìo:
   Il vincitor son io.
Nessun dispregerai:
   Che il più piccol nemico;
   Può darti briga assai.

Favola XVIII.
Il Cervo che si specchia

Che vaghe corna che mi diè Natura!
   Oh che bella figura,
   Carca d'un tanto onor, fa la mia fronte!
   Grida un Cervo, specchiandosi nel fonte;
   Fin gli speziali nan la bottega adorna
   Delle mie belle corna;
   Wa di grazia, guardate,
   Che gambucce sottili che mi ha date!
   Paion fusi, ed in ver me ne vergogno.
Mentre ciancia così, suonar s' intese
   De' cani alto latrato In tal bisogno:
   Raccomanda alle gambe vilipese
   La vita il Cervo; e pieno di spavento,
   Ov' è più scuro il bosco egli si caccia.
   Ne seguono la traccia
   Rapidamente i cani; ogni momento
   Colle corna s' impaccia
   Tra' rami il: Cervo; e maledice intanto
   Ciò e' ha lodato tanto.
Alfin, nuovo Absalonne, in guisa. intrica
   Tra i vepri e i rovi la ramosa testa,
   Che a distrigarla è vana ogni fatica.
Sopraggiunge l' infesta
   Turba de' cani allora,
   Che lo sbrana, lo strazia, e lo divara.
E' mostra ben d'aver poco cervello
   Chi più dell' util può stimare il bello.

Favola XIX.
Il Pastore ministro di Stato

Sentito ho dir che un secol fuvvi, e quello
   Naturalmente il secol d' ora è stato,
   De' Re pastori; e con qual mai più bello.
   Nome un Sovrano esser potrìa chiamato
   Che con quel di pastor, che non va senza
   Semplicità, giustizia, ed innocenza?
   Ma pensandovi bene,
   Secolo alcuno in vero alla mia mente
   De' Ministri pastori, e' non mi viene
   Pur v' ebbe un Re sì saggio,
   Che a veder se contenta era la gente,
   Scorrendo ogni cittade, ogni villaggio,
   Sentì dar tante lodi.
   A un Pastor, che solea tutte le liti
   De' vicini aggiustar con dolci modi,
   E i suoi giudizii eran sì saggi e miti,
   Dettati sol dal naturai sapere;
   Che del, bosco lo trasse, e dichiarato,
   Bench' egli ostasse ad ogni suo potere,
   Fu primiero Ministro dallo Stato.
Subito, caminciò de' Cortigiani
   La turba pel buon uomo a prender gioco,
   E i suoi rozzi modi grossolani,
   Indegni, al loro dir, dell' alto loco;
   Ed a schernirlo, ed a mostrarlo a dito,
   Come Arlecchio da principe vestito.
Pur, con rabbia e dispetto,
   Tanto il sentìan lodato e benedetto,
   Che tutti uniti presero ad ordire
   Strana congiura, e con arti sì destre
   Di calunnie maestre,
   Contro lui tanto sepper fare e dire,
   Che al fine il buon Sovrano
Fecero insospettire.
   E ver ch' egli solca toccar con mano
   Le frodi lor, quando prendessi cura
   D' esaminarle a fondo;
   Ma apesso i Re non han la voglia o l' ozi
   Di scandagliare a fondo ogni negozio.
   E poi, chi veder può dentro un profondo
   Baratro di calunnia e d'impostura,
   Ove la vista più lincèa s' oscura?
   In somma il Re credè che il suo Pastore
   Fosse alfìn diventato un traditore:
   E un Cortigiano più degli altri astuto,
   Che le spie dietro a quello avea tenuto,
   Disse, che in ferrea cassa egli celava
   Tesoro immenso; e da nessun veduto
   Di nascosto ogni giorno il visitava.
   Un altro asterìa poi con tal baldanza,
   Come se stato fosse testimone,
   Quanti doni, perchè, da quai persone
   Egli ebbe, con ogn 'altra circostanza.
   Vuol sorprenderlo il Re: con più di cente
   Cortigiani sen viene in brusca cera
   Del suo Ministro nell' appartamento.
   E ch' apra, quella cassa ad esso impera.
   Lieto il Ministra la disserra; e oh quali
   Scopre veri tesori qui nascosi!
   Eran gli antichi arredi pastorali,
   Gli zoccoli, il bastone, i suoi lanosi
   Panni, e fin la zampogna. Oh spoglie care.'
   Grida, ogni dì vi venni a visitare,
   Per non perder del mio
   Antico stato la memoria: è giunto
   Il fortunato punto;
   Ti conobbi abbastanza, o Corte, addio.
   Disse; e lasciando di sorpresa piena,
   A sì novella scena,
   La folta turba ch' egli avea d' intorno,
  Alla capanna sua fece ritorno.
Per quanto in alto ti sollevi il fato,
   Non ti scordar del tuo primiero stato.

Favola XX.
La Farfalla e la Rosa

Una vaga Farfàtletta
   Gia librando a mezza estate
   Or sui fiori, or sa l' erbetta
   Le sue piume colorate.
L'ali, il collo, il sen guernito
   D'auree liste risplendea;
   E del lucido vestito
   Compiacersi ella parea.
Scorre ogn' orba, ogni arboscello,
   Ogni fior più vago annasa,
   Per iscegliere il più bello,
   E fondarvi la sua casa.
Sulla querce non s' arresta,
   Non sul pin, non su l' oliva:
   Troppo rozza è quella e questa,
   La Farfalla è troppo schiva.
Scorge alfin su verde stelo
   La vermiglia e rugiadosa
   Chioma altera in verso il cìelo,
   Qual reina, erger la Rosa.
Su lei vola: essa l' accoglie,
   E le aperte in sul mattino
   Stende a lei morbide spoglie,
   Qual tappeto porporino.
Quivi posa i fondamenti,
   Qui la casa sua compone;
   Ed i mobili e crescenti
   Cari germi ivi ripone,
Folle insetto! il giorno appresso
   Vede mesto che languisce
   Dell' ardor soverchio oppresso
   Il bel fiore, e inaridisce.
Vede alfin l' altra mattina
   Senza foglie estinto il fiore;
   E la casa che ruina;
   E la prole che si muore.
Poco senno hanno gl'insetti,
   Che sui fior fondan le case:
   Ma degli uomini i progetti
   Forse nan più solida base?

Favola XXI.
Il Cigno che muta voce

Invidiam placare parat virtute relìcta?
                                     Horat.

I fisici più gravi, e gli eruditi
   Fecer ne' tempi addietro, e fanno ancora
   E lunghe e dotte strepitose liti,
   Perchè una voce armonica e canora
   Avea ne' tempi antichi il Cigno, ed ora
   Non canta no, ma gracchia,
   Appunto come un' oca o una cornacchia;
   Ed hanno mille baie acutamente
   Dette, piene però d' erudiziene:
   Or io per risparmiar d' un innocente
   Cristiano inchiostro tanta effusïone,
   La ragion ne dirò, perchè i segreti
   Della Natura san meglio i poeti.
Quando uscì dalle man della Natura
   Il Cigno, anch' esso nacque
   Con voce rauca, dissonante, e dura,
   Come gli augei che vivono nell' acque.
   Niuno di lui però prendeasi gioco,
   Perciocchè presso a poco
   Centavan tutti su l' istesso tuono.
   Per sua disgrazia un giorno
   Infra i rami d' un orno
   Sentì del Rosignuolo il dolce suono;
   E allor vedendo quanto
   L' armonìa del pantano era discorde,
   Del Rosignuolo chiese a Giove il canto,
   Che sul principio fè l' orecchie sorde:
   Ma quando èi volle poi furtivo entrare
   Di Leda nelle soglie,
   Si fece allor prestare
   Dal Cigno le sue spoglie;
   E allor concesse al candido animale
   Canto dèi -Rosignuolo a quello eguale.
Di questo nuovo pregio il Cigno adorno,
   Credette esser più illustre
   Infra i compagni dello stuol palustre:
   Ma quei gli furo intorno
   Con sibili di scòrno,
   Gridando, che il cantar cosi non era
   Il tuono, e la maniera
   Conveniente alla palustre stanza.
   Invidia forse fu, forse ignoranza,
   L' altrui doti sprezzare, avere in pregio
   Le proprie solo è natura le istinto:
   Ognun sa come i Mori hanno in dispregio
   I bianchì, e il Diavol bianco hanno dipinto,
   Fosse in somma ignorante, ovver malignò
   Il gracidante stuol, con scherni e busse
   Perseguitò tanto e poi tanto il Cigno,
   Che disperato essendo, egli s' indusse
   A richiedere a Giove alfin l' antica
   Voce discorde, e in quella
   Ora soltanto canta, Ovver favella;
   E quella schiera, a lui tanto nemica,
   Sol si potè placare
   Quando l' udì gracchiare.
Infra i balordi per istàr d' accordo
   Spesso, o lettor, cònvien fa-t da balordo.

Favola XXII.
La Contessa de' Fiori

O Fior, che presso al rigido
   E nubiloso polo
   Nato, man trasse provida
   Sul dolce etrusco suolo,
Vieni: te già salutano
   D' Arno le amene rive;
   Ti volge intorno zefiro
   Le alette sue furtive.
Al tuo venire arridono
   Gli uomini insieme e i Numi:
   Qui puoi soavi spargere
   I grati tuoi profumi,
Sposa gentil, d' insoliti
   Pregi tu splendi ornata,
   Qual sculta pietra nobile
   Di gemme circondata.
Questo intanto tributano
   A Te le tosche Muse
   Picciolo dono; accoglilo:
   Non sono a mentir use.
Fra i pregi onde il tuo spiritò
   Sì amabile ti rende,
   Se quel della modestia
   Non ultimo risplende,
In questa rozza favola
   Tu con ridenti ciglia
   Odi d' un fior l' istoria
   Che tanto a té somiglia.
Lésbia, cui di inan propria
   Formar ad Amor piacque,
   Poi mirandola, attonito
   Dell' opra si compiacque;
Che unisce il saggio spirito
   Alla sembianza bella:
   Sicchè non sai decidere
   Se quello vinca, o quella;
Con negligenza amabile
   Discinta in bel mattinò
   Volgeva i piè tra' floridi
   Vïali d' un giardino:
E là dell' odorifera
   Famiglia il vario aspetto
   Contempla, per iscegliere
   Quél che te adorni il petto.
Tutti perchè sì nobile,
   Sì bel destin lor tocchi,
   I fior più vaga spiegano
   La pompa a' suoi begli occhi.
Scoperto allor presentale
   Il sen l' aperta rosa,
   E sdegnasi che a scegliere
   Stia Fille ancor dubbiosa,
No, troppo altiera sembrimi,
   Die' ella, e senza vesta
   Sì nuda, hai ben l' immagine
   D' ardita e d' immodesta.
Già il tulipan di porpora
   E d' or spiega il colore;
   Ma un corpo par senz' anima,
   Un fior ch' è senza odore.
Il mugherino è candido;
   Ma quell odor sì acuto
   Offendè, e par un giovine
   Che far voglia il saputo.
Intanto un soavissimo
   Sente leggiero odore;
   E quinci e quindi volgesì
   Per ritrovare il fiore.
Seguita l' odorifera
   Traccia; e alfin sotto il piede
   La pallidetta mammola
   Tra l' erba ascosa vede.
O fior, gridò, sei l' unico
   Degno de' voti mìei;
   Perchè il leggiadro simbolo
   Della modestia sei.
La modestia ebbe il premio:
   E il fior dell' umìl letto
   Venne a posar sul morbido
   E palpitante petto.
Sia da te sempre il merito
   Premiato e revèrito;
   Ma in specie quando trovasi
   Alla modestia unito.