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Favole IV.
 
La Scimia e il Cane
Il Fagiano
La Merla e il Passerotto
La Ginestra e la Mammola
Il Daino e le Marmotte
Il Pastore
Il Cerbiatto e il Cervo
La Lepre
Il Ranocchio d' Ippocrene
La Pulce il Cane e il Lupo
I Pipistrelli
I due Calendarii
Il Pavone
Nettano e la Conchiglia
L' Elefante
Il Cane e la Pecora
L' Uomo che muta veste

 
La Gallina nell' isola del fìume
La Zucca e il Pero
La Zanzara e la Farfalla
Il Cavallo e il Bue
Lo Scimiotto e la Lepre
Il Platano e gli Alberi fruttiferi
La Farfalla e il Cavolo
Il Passeraio

 

LXXVI.
La Scimia e il Cane

Una Scimia ed un Cane in vaga stanza
Stavan di notte a lume di lucerna
Vegliando in comunanza,
Starei per dir fraterna.
Dirvi le lor faccende io non saprei;
So ben che alfin con massima creanza
Disse la Scimia: o fratel mio, vorrei
Per certi fatti miei
Girmene altrove: meco, se il consenti,
Questa lucerna piglio;
Tu qui solo trattienti:
Vado, e ritorno in un girar di ciglio.
No, disse il Can, no certo:
Io che giovine sono e poco esperto,
In un buio sì folto
Ritrovarmi non voglio
All improvviso avvolto
In qualche insidia, o in qualche pazzo imbroglio.
Questo lume non splende
Sol per le tue faccende,
Ma è comune ed entrambi, e i dritti suoi
Ci ha per ugnai porzion ciascun di noi.
Eravi in quella stanza un grande specchio
Appeso al muro; onde la Scimia al Cane
Disse: cortese amico,
Un altro ti rimane
Lume colà; guarda, se il ver ti dico;
Guarda, e se giusto sei
Confessare tu dei
Che in nessun modo il tuo diritto offendo,
Mentre quello ti lascio, e questo io prendo.
Anzi per toglier via
Ogni lite, e che ognun sia soddisfatto.
Facciamo questo patto:
Tua lucerna sia quella, e questa mia.
Il nostro Can balordo
Si volse, e vide una facella ardente
Entro lo specchio, e andandone d' accordo,
Pieno assenso prestò subitamente.
Onde quando la Scimia
Ebbe carpito il lume, e l' ambio preso,
Kello specchio ei cercò quell' altro acceso;
Ma da folt' ombre cinto
Più non trovò nè il vero, nè il dipinto,

I furbi spesso fanno
Con somigliante inganno
Di tali burle a quell' incauta gente,
Che non distingue il ver dall' apparente.

LXXVII.
Il Fagiano

Mentre la pioggia
In strana foggia
Dal cielo un dì cadea,
Le sue si care
Piume bagnare
Un bel Fagian temea.

Era vicino
Un vasto Pino
Carco di spesse fronde;
Ivi egli tosto
Corre, ed accosto
Al di lui piè s' asconde.

E certamente
Della cadente
Pioggia gran parte ei schiva;
Che ancor dell' onda
Non ogni fronda
A satollarsi arriva.

Ma nelle scosse
Dei rami, mosse
Dalla crudel tempesta,
Rotta una pina
In giù ruina,
E a lui squarcia la testa.

Soffri un affanno
Ch' è piccol danno,
O almen rimedio tale
Scegli, che poi
Pe' i casi tuoi
Non sia peggior del male.

LXXVIII.
La Merla e il Passerotto

Una Merla, che avea grande opinione
De' suoi talenti (e questo
Segue a molte persone)
Si mise un giorno in core
Col suo genio profondo
Disformare il mondo,
E renderlo migliore,
Perchè secondo lei gli usi correnti
Erano abusi, o stolti
Pregiudizi raccolti
Da sconsigliate genti.
In questa idea sublime e lusinghiera
Un' invernata intera
Trapassò ruminando entro il cervello
Or questo piano or quello;
E in lavoro sì astruso della mente
Perdè i suoi sonni, e diventò talmente
Strutta della persona e allampanata,
Che certo andò rasente
D' intisichire, e batter la capata.
Ma che importa? qualora
La gloria l' avvalora,
E a pro del mondo a faticar l' invita,
Versa un' anima grande anco la vita.
Alfin per gran ventura
Una nuova struttura
Ritrovò pel suo nido; e questo fu
Con la concavità rivolta in giù.
Oh! questa invenzïone
Parve alla nostra Merla un operone
Da far fracasso ovunque e gira e vede
L' occhio del Sole; e a veder lei parea
Di veder Archimede
Quando dal bagno uscì da forsennato,
E correndo dicea
Per le Siculo strade: io l' ho trovato.
Erano appunto i dì
D' Aprile adulto; onde al lavor si pose
Fervida, e in un baleno lo fini.
Quindi a mirar quelr opera stupenda
Chiamò dalle selvose
Campagne d' animali una tregenda;
Tra i quali un Passerotto
Ed eloquente e dotto,
Fattole un Panegirico solenne,
Finalmente le Tenne
A dir: Madama, in voi quest' opra vostra
Un gran genio dimostra.
Or via sì bella cosa
Non resti inoperosa:
Entrate dunque in cova,
E insegnateci ancora a porvi l' uova.
Allor vide ciascun senza fatica
Ch' era migliore assai l' usanza antica.

Qualche cervello corto,
Che raddirizza ciò che gli par torto,
Al suo dosso porrà la mia leggenda;
Ma faccia pur; se gli sta ben, la prenda.

LXXIX.
La Ginestra e la Mammola

Mammoletta umile
Nata in montagna alpestre,
La rustica Ginestra
Così parlava un dì:

O vago fior gentile,
Ch' hai sì odorata spoglia,
Qual malaccorta voglia
T' indusse a nascer qui?

Non l' arida pendice
D' un aspro giogo alpino;
Ma florido giardino
Sede saria per te.

Là ti darian felice
Sorte le Ninfe altere:
Qui le feroci fiere
T' opprimono col piè.

Deh! nel tuo seno accolto
Sia bel desio d' onore:
Passa taciuta, e more
Incognita beltà.

Va', nel giardin più colto
Renditi omai palese;
Il pastorel cortese
Tuo condottier sarà.

Al lusinghiero invito
La Mammola rispose:
Sien pur mie doti ascose,
Lagnarmene non so:

In questo suoi romito
Pace il mio cuor ritrova;
Me questa vita giova,
Altro desio non ho.

Ma, voi, Ginestra, voi
Tenera del mio bene
Vorreste ad altre arene
Ch' io rivolgessi il piè,

Perchè qui sola poi
Voi trionfar possiate,
Ah! quel che voi mostrate
Verace zel non è.

E ben diceva il vero
La Mammola indovina:
Mal la soffriva vicina
L' altro men grato fior.

Sembra talor sincero
Chi 'l nostro ben desia:
Ah! non così saria
Se si vedesse il cor.

LXXX.
Il Daino e le Marmotte

Un certo Daino giunse alle grotte,
Ove abitavano molte Marmotte.
Egli era incognito per quelle bande;
Ond' esse ferongli mille domande.
Dov' è, diceano, la patria vostra?
E quanto correci da casa nostra?
Mirate, il Daino rispose a queste,
Là quel mont' orrido pien di foreste,
Che in faccia estollesi da mezzodì;
Li nacqui, e vivere soglio pur lì.
Oh ciel! sclamarono quelle insensate,
Dunque in sì misero colle abitate?
Abietto ed umile sorge dal piano,
E a quel che scorgesi, tutto vi è nano.
Vedete gli alberi, che un braccio solo
Appena sorgono dal patrio suolo.
Voi certo alzandovi ben più sublime
Potete pascere le somme cime.
Ed ei: no, gli alberi là dal terreno
Dei vostri s' ergono Faggi non meno.
La vista ingannavi, credete a me;
Vi sembra piccolo quel che non è.
Ma quelle stolide nel lor pensiero
Fisse, non vollero credere al vero.

Abbaglio simile sovente prese
Chi ha sol notizia del suo paese.

LXXXI.
Il Pastore
Al Signor Marchese
Giuseppe Pucci

Giuseppe, oh quante volle io vidi in questa
Fallace vita, ove il delitto abbonda,
Che se una cieca man le pene appresta,
Il reo si salva, e l' innocente affonda!
Spesso al dover l'ordin si cangia, ed hanno
La pace i Corvi, e le Colombe il danno.

Perciò di troppo celere vendetta
Non mai la sferza a gastigar discenda,
Ma per lung' ora il punitore in retta
Lance il delitto e il delinquente appenda.
Tu, che sì ben l' ingiusto e il giusto scorgi,
Alla favola mia l' orecchio porgi.

Giovin Pastor, che sovra il dorso altero
Del frondoso Appennin pascea l' Agnelle,
Quando sentì dall' artico emisfero
Avvicinar le gelide procelle,
Guidò la greggia a pascoli più lieti
Nel suol confine alla Tirrena Teti.

Giunto in quel sito al pie' d' un colle vago
La sua tosto formò breve capanna,
Presso di cui giaceva un picciol lago,
Che il suo ruargo cingea d' alga e di canna.
L' opra ei chiude col giorno; e ali' ora ombrosa
Nell' albergo novel s' adagia e posa.

Ma non ancora alle sue stanche ciglia
Porgeva il sonno il consueto dono,
Quando col petto pien di maraviglia
Vicino ascolta un vasto e rauco suono.
Sembra che mille bocche e mille corde
Vadano unite in un clamor concorde.

S' alza dubbioso, e dall' augusto ingresso
Si sporge, e la cagion specola e guarda,
Ma impedisce la vista il nero e spesso
Vel della notte ornai cresciuta e larda;
Pur dopo lungo esaminar s' avvede
Che nel prossimo lago il suono ha sede.

Altro tentar non osa, e nuovamente
Sul paglioso covil le membra stende;
Ma poi che il nuovo Sol nell' oriente
Il fosco ciel di bella luce accende,
Sorge e corre sul lago, e cerca in questo
Chi mai cotanto strepito abbia desto.

Ma nulla vede nelle limpid' onde,
Tranne di Pesci un numeroso stuolo;
Guarda e riguarda in su l' algose sponde.
E il loco pargli abbandonato e solo:
Dunque del fatto reo, sdegnoso ei dice,
È la turba del lago abitatrice.

Sì voi, sì voi, che colaggiù nel basso
Fondo guizzate, i temerarì siete.
Ma non verrà che il querulo fracasso
Vostro l' ore disturbi oscure e chete;
Nè i vostri gridi inopportuni e rei
Romperanno più il corso ai sonni miei.

Ciò detto, un largo e curvo ferro ei prende
E rompe il ciglio alla più bassa sponda,
Indi un solco declive e lungo estende
Che apre la fuga alla volubil' onda:
E in tutto il dì non cessa mai dall' opra,
Finchè asciutto del lago il sen non scopra.

Su i Pesci allor tra il denso limo avvolti
Corre, e la mano in soffogarli affretta:
E gettatigli a riva e in massa accolti,
Fonda in essi il trofeo di sua vendetta.
Fra lanti un sol, che l' acque fuggitive
Seguì nel corso, in altra parte vive.

Ma perchè il gregge a dissetarsi ei mena
Quivi, ed altro non v' è comodo loco,
Chiude lo scolo, ed una scarsa vena
L' umor perduto rende a poco a poco;
Ritorna alfine al rustico abituro
Col cuor contento, e di dormir sicuro.

Ma il sonno appena alle di lui pupille
La notturna quiete avea recata,
Che venner tosto e mille Rane e mille
Nel limo a far la cantilena usata.
Svegliossi, e a tale inaspettato fatto,
Restò il Pastor confuso e stupefatto.

Avvicinossi a passo tardo e lento,
E la cagion del male alfin comprese:
Onde il suo fallo ad emendare intento,
Tosto che il dì su l' orizzonte ascese,
Le ree tra l' alghe a ricercar si mise,
E parte ne fugò, parte ne uccise.

E giusto fu: ma l' innocente schiera,
Che del fallo non suo restò punita,
Benchè de' rei clamori or sia la vera
Cagion palese, ahi! non ritorna in vita.
Grave è un fallo d' incuria, ed è più grave
Se nuoce, e il mal rimedio alcun non have.

LXXXII.
Il Cerbiatto e il Cervo

In tranquillo e puro lago
La sua immago
A mirar si mise un giorno
Un Cerbiatto, a cui non era
Su l' altera
Fronte ancor spuntato il corno,

E dicea con mesti lai:
Perchè mai
Non vegg' io sorger nascente
Quel ramoso onor che tanto
Porta vanto
E bellezza alla mia gente?

Quando fia che mostri anch' io
Sovra il mio
Capo amplissimo decoro?
E de' Cervi in compagnia
Io non sia
Men pregiabile di loro?

Sì dicea: ma un Cervo antico
Con amico
Dolce modo a lui rispose:
Infelice! ah! di tua vita
Sì fiorita
Tu non prezzi ora le Rose?

Non temer: veloci i vanni,
Hanno gli anni,
E fia pago il tuo desire:
Ma, o mio figlio, ah! tu nol vedi:
Quel che chiedi
T' avvicina al tuo morire.

LXXXIII.
La Lepre

Se nasce un mal non aspettar ch' ei cresca,
Ma in distruggerlo tosto usa ogni prova;
Chè s'egli avvien ch'ei le sue forze accresca,
L' indugiato rimedio allor non giova.
Già lo disse cantando un Saggio antico,
E con questo racconto io pur lo dico.

Una timida Lepre albergo avea
Sul giogo alpestre di scosceso monte,
Dalle cui falde inospite scendea
Piccolo sì, ma cristallino un fonte;
Fonte, ov' essa nell' ore oscure e chete
Dar solea refrigerio alla sua sete.

Ma poi che fu quella stagion comparsa,
Quando nei segni estivi il Sole alberga,
Pioggia dal ciel mai non bagnò dell' arsa
Terra le fesse polverose terga:
Onde languian non che i fioretti e l' erba,
Ma qual pianta è più forte e più superba.

E il ruscelletto querulo, che al piano
Correr solea dalla pietrosa vena,
Era già morto: onde la Lepre invano
L' umor cercava in su l' asciutta arena;
Nè altrove pur dalla sfaldata roccia
Gemere ne vedea sola una goccia.

Solo in lontana valle essa d' un fiume
Scopria giacente il maestoso letto,
Che secondo antichissimo costume
D' acque mai non soffria total difetto.
Quivi fissa il pensier, quivi alla fiera
Sete trovar qualche conforto spera.

Nè spera invan; poichè sebben le sponde
Ei più non cozzi con feroce corno,
Pur vivo ancora in fra le tepid' onde
Porge a' suoi muti abitator soggiorno.
Povero, è ver, del Sol l' han fatto i rai,
Ma a calmar la sua sete è ricco assai.

E già il desio l' infiamma, e dove riede
La bassa valle a scendere la spinge;
Ma l' assale il timore, e tosto il piede
Le volge indietro, e a risalir l' astringe.
Così stando dubbiosa or scende, or sale,
Nè la tema, o il desio cede, o prevale.

Che farò? tra sè dice; andrò nel piano
Tra mille veltri ad incontrar la morte?
Starommi qui? Dov' io ricerco invano
Onda, che fine al mio languire apporta?
Veggio il periglio egual s' io vo, s'io resto;
È funesto il restar, l' andar funesto.

Scorge intanto da lungi un fosco velo
Annubilar l' Italica marina,
E rosseggiare in sul confin del cielo
Il sole allor che al mare ei s' avvicina;
Ecco, dice, di pioggia, ecco un verace
Segno: doman berrò; si soffra in pace.

Ma l' aspettata pioggia, oimè! non viene,
Chè il Sole alfin la nebbia alza e discioglie:
E la povera Lepre nelle vene
Più reo l' ardore e più. funesto accoglie:
Eppure ancor dalla più eccelsa vetta
Specola il cielo, e ancor la pioggia aspetta.

Tanti giorni aspettò, che il corpo in questa
Pena divenne infievolito e lasso:
Risolve allora, ed al cammin s' appresta
Tardo movendo e vacillante il passo:
Pur giunge al piano, e s'indirizza all'onde,
Ma la forza al desio non corrisponde;

E nel lungo sentiero al Sole esposta
Ora trae pochi passi, ora si ferma;
E mentre al fiume alquanto ella s' accosta,
Viepiù sente languir la salma inferma;
Alfin da mortai tremito assalita
Sul finir della via manca di vita.

LXXXIV.
Il Ranocchio d' Ippocrene

È scritto negli annali di Parnaso,
Che un giovine Ranocchio in Grecia nato,
Peregrinando a caso
Lungo un aspro burron d' un alto monte,
Trovossi a un pelaghetto inargentato,
In cui sgorgava un fonte
Da un masso di granito,
Sopra di cui scolpito
Era in lingua che usavasi ad Atene:
Questa limpida vena è l' Ippocrene.
Al nostro peregrino
Parve d' aver trovato alta ventura:
Perciò facendo punto al suo cammino
Si pose ad abitar quell' onda pura,
E persuaso che il sacrato umore
Piena gli avea la mente
D'Apollineo furore,
E avealo fatto un ammirabil vate,
Si pose immantinente
A innalzar gracidando e giorno e notte
Grida non interrotte,
Ma in dattili e spondei ben misurate;
E già cantato avea
Più d' un' Iliade, e più d' un' Odissea.
Alfin cessato il canto
Sopra di sè ristette
In aria grave e pensierosa alquanto;
Indi esclamò: si taccia;
Chè dalla nostra faccia
Abbiam versato assai
Poetici sudori,
E meritiamo omai
La nostra fronte incoronar d' allori.
Andiam; chè il Dio di Delo
Già dalla fama intese
Nostre canore imprese,
E di noi forse ha ragionato in cielo;
Nè avrò da lui rifiuto
S'io chiedo un premio a'merti miei dovuto.
Così deciso, al trono
Presentossi d' Apollo in Elicona,
E cominciò: Già sono
A te cognito, o Re dei sommi vati;
E vengo qui per chieder la corona,
Che suol cinger la fronte ai laureati;
Nè questo sol; ma voglio,
Attesa la mia grande abilità,
Che dal tuo regio soglio
Tu mi proclami con solennità
All' artico, e all' antartico emisfero
De' Ranocchi l' Omero.
Sorrise il Nume a questa
Insensata richiesta, e disse: Or bene;
Al vostro raro merlo
Conceder si conviene
L' ambito onor dell' Apollineo serto:
Il nome a voi pur tocchi
D' Omero de' Ranocchi;
Ma nol sapete? Omero
Fu cieco; onde è dover che cieco siate.
Se d' esser desiate
Un' Omero da vero.
Ciò detto, il biondo Nume di Permesso
Incoronò col serto verdeggiante
Il vate postulante,
Ma lo fece accecar nel tempo stesso;
Ed egli a spenti lumi
Cantando gia per tutti i Greci fiumi,
Ed a costo degli occhi
Esser potè l' Omero de' Ranocchi.

La Favola è per quelli
Ambiziosi cervelli,
Che il lor piccol talento
Gonfiano assai di glorioso vento;
E per avere un ben che poco vale
S' addossano un gran male.

LXXXV.
La Pulce il Cane e il Lupo

D'un bel Can sul grasso tergo
Una Pulce prese albergo,
E a succhiargli il sangue intesa
Facea pranzo a di lui spesa.
Chi sei tu, le disse il Cane,
Che abitar tra le mie lane,
Ed avere ancor pretendi
A mie spalle il gius pascendi?
Signor mio, rispose allora
Quella Pulce adulatore,
Son la vostra serva umile,
Che ammirando la gentile
Cortesia ch' è in voi riposta,
Son venuta a bella posta
Fin dai regni del Perù
A giurarvi servitù.
Messer Cane a questi accenti
Fon le fece complimenti,
Perchè, a dirla, egli non era
Di quei Cani d' alta sfera
Che si chiaman cittadini;
Ma era un Can da contadini;
Pur mostrandosi cortese,
Nel suo tergo più d' un mese
Alla Pulce lasciò fare
E la cena, e il desinare.
Quando un giorno sovra un monte
Lupo fier trovossi a fronte,
E focoso, e pien di vaglia
Impegnò dura battaglia;
Ma gli fu sì avverso il fato,
Che rimase strangolalo.
Donna Pulce al caso reo
Non si perse in piagnisteo
Sulla morte del padrone,
Ma del Lupo sul groppone
D' un bel salto si lanciò,
Ed a lui diede il buon prò.
Disse il Lupo: e tu chi sei,
Che fai plauso ai vanti miei?
Vostra serva ammiratrice,
Tutta umil la Pulce dice.
Che vuoi tu? — Mangiar con voi.
S' è così mangiar tu puoi.
Or la Pulce con maniera
Così dolce e lusinghiera
Fe' dei pranzi assai felici
Sul groppon di due nemici.

Forse alcuno in questo fatto
Vuol saper chi sia ritratto:
Io per me nessuno addito,
V è chi dice un parasito.

LXXXVI.
I Pipistrelli

Nel mese allegro, in cui Bacco e Pomona
Stanno a danzar su l' ubertose arene,
E la cresciuta sera ogni persona
Chiama a veder le favolose scene,
Guidò la sorte un Pipistrel curioso
In un vasto teatro assai famoso.

Un aperto balcon la via concesse
Facile al nostro spettator novello,
Che in alta trave un bel palchetto elesse
Senza dover por mano al suo borsello;
E dall' urbane seccature immune,
Non ebbe inchini, o visite importune.

Quivi mirò con gran contento al core
Commedia di bellissimi costumi;
E allor partì che del Palladio umore
Venne in palco il ministro, e spense i lumi;
Indi tornando al caro nido usato
Messe sossopra tutto il vicinato.

Ei raccontava le stupende cose
Che viste avea l' antecedente sera;
I suoni, i vaghi balli e le pompose
Aurate vesti, e degli attor la schiera;
Ed intrighi, ed amori, e nozze m fondo;
Cose da far strabiliare il mondo.

La fama intanto andò per le cantine,
Per le soffitte e per le vecchie mura
Ch' eran della città dentro il confine
Pubblicando l' insolita avventura;
E tra la Pipistrellica genia
Se ne fece una lunga diceria.

E come avvien tra la curiosa gente,
Il desio di veder nacque in ciascuno;
Onde appena che i rai del Sol cadente
Perdè l' aere, e si feo tacito e bruno,
Tutti vanno pregando il Pipistrello
Che sia lor duce allo spettacol bello.

Ei facile e cortese indrizza il volo,
E tragge dietro a sè schiera infinita,
Come conduce il capitan lo stuolo
De' suoi guerrier che alla battaglia invita;
Già trapassato è il solito balcone,
E sul vasto scenario ognun si pone.

Stannosi quivi comodi a sedere,
Disposti come in tante manganelle;
Delle ventole già, delle lumiere
S' accendon le moltiplici facelle;
E in preludio de' prossimi contenti
Well' orchestra s' accordan gli strumenti.

S' alza il sipario, e il comico soggetto
Che al pubblico s' espone in finta scena,
È d' un zerbin, che don Giovanni è detto,
La folle vita e la funerea cena;
E ad ogni evento infino all' ultim' atto
Provano i Pipistrelli un gusto matto.

Ma giunge alfine un periglioso passo,
Che apre le porte alla magiou del foco;
Odesi un formidabile fracasso,
Volan globi di fiamma in ogni loco;
Par che dal cupo sen del pianto eterno
Si scatenin gli spiriti d' Averno.

Al periglio improvviso alta paura
Di tutti i Pipistrelli occupa il petto:
Fugge ciascuno, e ritornar procura
Per la battuta via nel patrio tetto;
Ma oh caso fiero! o colpo inaspettato!
Il balcon, non so come, era serrato.

Confusi e disperati, or quella or questa
Parte scorron cercando ignote strade,
Ma null' altro passaggio aperto resta,
E la speme d' uscir già langue e cade.
Alfin gettansi tutti alla platea
Tra la numerosissima assemblea.

Chi tra le panche, e chi nei palchi vola,
Chi urta i cappelli, e chi negli occhi batte;
Qual tra i veli del crin, qual della gola
Crede asilo trovar tra le corvette;
Uno arruffa la dama, altri più reo
Tura l' aperta bocca al cicisbeo.

Il nuvol denso di animali neri,
Che van per la platea battendo l' ale
Desta nel volgo pavidi pensieri,
E solleva un bisbiglio universale;
Ma s' ascolta fra gli altri il grido acuto
D' una donna che sviene, e chiede aiuto.

Alcun dice che a far la parte loro
Venuti sono i diavoli in effetto;
Altri che ardon le scene, ed arde il foro,
E che la fiamma ha guadagnato il tetto
Chi immagina tumulto, e chi ruina,
E nessun vi da dentro, e l' indovina.

Ma però nel fuggir s' accordan tutti,
E vanno là dove il timor gli caccia;
Cadono molti, e fannosi dei brutti
Segni nei pie, nel capo, e nelle braccia;
E alcun tra i muri dell' auguste porte
Fu ben vicino ad incontrar la morte.

Giunti alle case, e il cuor dallo spavento
Ridotto in calma e rassettati i guai,
Si cercò la cagion del tristo evento,
Ma da nessuno allor si seppe mai;
Esopo solo in certi scartabelli
La storia ci lasciò dei Pipistrelli.

Così piccolo moto, o incerta voce
Sveglia talor nel volgo alti bisbigli:
La paura succede, e oguun veloce
Fugge, e la fuga accumula i perigli.
Perciò dalla gran folla in qualche festa
Chi sta lontan non rompesi la testa.

LXXXVII.
I due Calendarii

Aun vecchio Calendario
Un Calendario nuovo
Disse: perchè sì torbido
Ne' tuoi pensier ti trovo?

Io giovin fresco, a vivere
Sol penso, ed a gioire.
L' altro rispose: a piangere
Io penso, ed a morire.

E ben chi è vecchio pensivi;
Io non vi son disposto.
No? l' ore pronte volano:
Vi penserai ben tosto.

O gioventù, rallegrati
Speme di lunga vita?
Ah! che insensibil fuggesi;
Comincia, ed è finita.

LXXXVIII.
Il Pavone

A numerose schiere
D' augelli ammiratori
Un superbo Pavon facea vedere
Dell' occhiute sue piume i bei colori:
E come in ricche e rilucenti spoglie
Una Madama accoglie
Gli omaggi umiliati a sua beltà,
Così con gravità
Ei dallo stuol pennuto
Riscoteva d' applausi ampio tributo.
In questo un Corvo giunse, e senza punto
Badar che quivi appunto
Era messer Pavone
Nella luminosissima funzione
Di gir gonfio d' attorno e far la rosta,
Ei si pose a sua posta
Malamente a gracchiar con tanta lena,
Ch' e' non parea ripigliar fiato appena.
Oh! l'augel di Giunone
Scandalezzossi alquanto, e disse irato:
Oimè, sentite, oimè quel malcreato
Con qual roco, aspro ed insoffribil strido
Il suo malaugurato
Arrivo osa annunziare in questo lido?
Io non sentii di questa
Una voce più ria,
Più rozza o più molesta;
E v' assicuro, amici, in fede mia
Ch' essa mi scote, e sgomina la testa.
Così disse il Pavon: ma il disse in tuono
Anch' ei sì poco buono,
Che tutta la brigata
Ne rise, e disse a lui: certo, o Signore,
Il Corvo ha voce ingrata,
Ma voi forse l' avete anco peggiore.
Partito era per voi più saggio assai
Il non parlar giammai.
Ciò dissero, e fu ver: perchè un difetto
Tale scoperto in lui, quel vago aspetto
Della sna rosta in tal dispregio venne,
Che mancò fin la lode alle sue penne.

O critico, tu vuoi
Mostrar gli altrui difetti, e scopri i tuoi.

LXXXIX.
Nettano e la Conchiglia

A Nettuno una Conchiglia
Sì dicea: Signor del mare,
Io nel sen perle ho sì care
Che faranno meraviglia;
Nè per queste ondose vie
Altre son pari alle mie:

Prego te, che quand' io moro
Non ignoto, non ascoso
Qui nel fondo limaccioso
Si rimanga il mio tesoro;
Ma ornamento al nero crine
Sia dell' Indiche regine.

E Nettano a lei rispose:
Quanto vana è questa voglia!
Ove posi la tua spoglia,
E le perle preziose,
Insensata, e che t' importa?
Che ne avrai quando sei morta?

XC.
L' Elefante

Ponte angustissimo senza le sponde
Accavalcava torrente torbido
Che gravi ciottoli volgea con l' onde.

Del ponte un termine stava connesso
A sollevato, soave margine,
Che facilissimo porgea l' ingresso.

A questa placida salita arriva
Un Elefante, che stolto invogliasi
Valicar subito sull' altra riva.

Rupe alto sorgere di fronte vede,
A cui del ponte va l' altro termine,
Pur nessun dubbio gli affrena il piede.

Per esso inoltrasi con poca pena:
Solo del calle gli stretti limiti,
Piedi contengono sì vasti appena.

Ed ecco ei valica già tutto il ponte
Ma quella rupe, di che non diedesi
Pensier, più ripida trovasi a fronte.

Angusta miravi la pesta, è vero,
In che i pastori con Capre e Pecore
Arrampicandosi trovan sentiero,

Ma come è lecito poggiar su questa
A un Elefante di mole amplissima,
Cui pur gran valico misero resta?

Indietro volgersi non può: si prova
A rinculare, ma il pie non pratico
A gir retrogrado, la via non trova.

Alfin precipita giù nel torrente
Tra l' onde e i massi, restando vittima
Della sua stolida voglia imprudente.

Or questa Favola, Lettor, ti dice:
Guarda col senno pria d' intraprendere
Cosa, che fattasi, disfar non lice.

XCI.
Il Cane e la Pecora

Quanto sei brutta! un Cane
A una tosata Pecora dicea;
Ed ella rispondea:
Se il dorso mio rimane
Sì nudo e senza onore,
Del mio vello si veste il mio pastore;
Sia perciò con tua pace,
Se il mio stato presente a te non piace.
Questo dispregio tuo no non m' accora:
Se non per te, per lui son bella ancora.

Mortal, che te dispogli
Del fasto caro alla mondana gente
Per sollevar l' umanità languente,
Se mai tu ne raccogli
Scherno quaggiù, punto curar noi dei:
Sei :caro al Ciel, se al mondo reo noi sei.

XCII.
L' Uomo che muta veste

Un Uom di corta vista
Portava una guarnacca un po' consunta
Anzi lacera e trista,
E v' è chi dice ancora unta e bisunta:
Ma pur con tanti guai
Era per la stagion comoda assai.
Quando da lui veduto
Di purpureo velluto
Fu sì degno robone e sì pomposo
Ch' è' non l' ha 'l Gran Soldan quand' egli è sposo,
Lusco così com' era, il vecchio panno
Gettò sul fico, e il signorile ammanto
Tosto imbracciò, senza badar poi tanto
S' e' v' era utile o danno:
E certo a prima vista egli apparia
Un de' Priori della Signoria.
Per altro a lungo gioco
Tormentate non poco
Sentì le spalle, e ben conobbe alfine
Aver la bella veste
Nel soppanno le spine.

Talor chi muta stato
Opulento divien, non già beato.

XCIII.
La Gallina nell' isola del fìume

Fiume real per lunga pioggia altero
Vago di depredar ruppe la sponda.
Fu una Gallina il suo trofeo primiero,
Côlta in un campo dalla rapid' onda:
Innocente animal, che non avea
Meritato giammai sorte sì rea.

Era dell' infelice assidua cur
D' uova fornir la sua rustica sede,
E dar così di picciola premura
A industre villanella ampia mercede;
E i pulcini allevare, e di negletti
Semi cibarsi, o di nocivi insetti.

Or tolta al caro albergo infra le spume
Dei flutti avversi è spinta or sotto or sopra;
E benchè di nuotar mai suo costume
Non fu, pur tenta, e per nuotar s' adopra;
Ma con l' onda crudel lottando invano
Vede che il suo morir non è lontano.

Pur oltre alla sua speme, a un' isoletta,
Ch' era in mezzo del fiume, approda e resta:
Nè saprei dir se il caso ivi la getta,
O se forse del Cielo opra fu questa:
Dell' uomo a fronte è vile un bruto, è vero,
Ma il Ciel dei bruti ancor prende pensiero.

Essa tremante i primi sassi afferra
Col piede, e corre al più elevato loco:
Volge lo sguardo cupido, e la terra
Mira di quà di là lungi non poco;
Poichè l' onda si parte in due canali
Che sono in fondo ed in ampiezza uguali.

Che farà sventurata! assai di lena
L' ala non ha per così lungo volo;
E sol da nudo cumulo d' arena
Dell' isoletta è ricoperto il suolo.
Se vola, ahi! che dal fiume in sen ritorna.
E di fame morrà se lì soggiorna.

Passò 'l resto del giorno egra e dolente,
Senza sapere a cui, chiedendo aita;
E già sentia lo stimolo pungente,
Con che natura a satollarsi invita;
Passò più rea la notte, e al nuovo Sole
Dell' isoletta al piè vide una mole.

S' accosta e trova un sacco abbandonato,
E osserva pur che l' onda alquanto cedi
Onde a tirar là dove era legato
S' affatica or col becco ed or col piede
Alfine o strappa o scioglie il laccio, e tos
Esce il gran che li dentro era nascoste

Ringrazia allor, benchè pur siale ignoto,
Chi pietoso provvide alla sua fame,
Ed in luogo sì sterile e remoto
Le diè cibo maggior delle sue brame.
Passan due giorni, e il fiume ognor s' bas
E più vasto terren scoperto lassa.

L' isola cresce e accostasi alla sponda,
Ed alfin la Gallina il terzo giorno,
Poi che timor di ricader nell' onda
Più non la tien, s' accinge al suo rito
Passa il canale, a voi giunge sul lido
E colma di piacer torna al suo nido.

Favola è questa sì, pur dal suo velo
Una brillante verità traluce.
Evvi un' eterna Provvidenza in cielo,
Che il mondo a voglia sua regge e conduce:
Nè del tuo capo un vii capello solo
Fia che senza di Lei ne cada al suolo.

Essa i pesci del mare essa le fiere
Pasce, e gli augelli negli ombrosi chiostri,
E tant' altri viventi, e tante schiere
D' invisibili insetti agli occhi nostri;
E soccorre nei casi atroci e rei
Chi a lei si volge, e si confida in lei.

XCIV.
La Zucca e il Pero

Accanto a un giovin Pero,
Che non aveva appena
Compito un anno intero,
Nacque una Zucca piena
Di viger nutritivo; onde a momenti
Crebbe, e in terra si stese,
Occupando paese.
Quindi innalzando il guardo
Vide il Pero garzon, che assai più tardo
Cresceva e più sottile,
Ma stava ritto come un campanile.
Oh! la Zucca esclamò: Pero mio bello,
Se tu fossi un bordello
Così traverso e grande
Come quell' alberone
Ch' è là vicino al bosco e fa le ghiande,
Potresti sostener per compassione
Queste mie braccia, e non sarei costretta
A star bassa e negletta
Qui tra l' uggia de' campi e il fracidume.
E tra quest' erba che mi para il lume.
Dimmi, Perin garbato,
Se mai tu ti trovassi in quello stato,
M' accetteresti? E il Pero: oh! volentieri,
Che l' esser crudo non è mio difetto,
Nè per far de' piaceri
Esser pregato e ripregato aspetto.
Ma, soggiunse la Zucca, e' par che assai
Lento tu cresca: or per alzarti almeno
Sei braccia dal terreno,
Quanto ci metterai?
Eh, disse il Pero, a quel che ho guadagnato
Dal giorno ch' io son nato,
Voi potete far conto
Che in dodici anni oltre a sei braccia io monto.
Or ben, la Zucca replicò, per ora
Avrò pazienza, e poi
Profitterò delle tue grazie allora
Che saranno cresciuti i rami tuoi;
Questa speranza intanto
Di si buona ventura
Mi consola pur tanto!
Ma fidarmi poss'io? — State sicura.
Così tra lor fu stabilito. E già
Oltre la sua metà
S' avanzava l' Autunno, ed ecco il crudo
Borea ne vien dalle pendici alpine
Con le gelide brine,
E lascia il bosco ed ogni campo ignudo,
E la Zucca infelice
Arida muore insili nella radice.
Povera Zucca! or dove andò la spene
Del tuo lontano bene?
Ah! che giammai non deve
Lunghe speranze aver chi ha vita breve.

XCV.
La Zanzara e la Farfalla

Entro l'istessa camera
Ad abitar ridotte
S' eran due bestie solite
Ad aleggiar di notte.

Una è Zanzara, picciola
Notturna Farfalletta
È l'altra, e insieme vivono
In amicizia stretta.

Contente e felicissime
Tale amistà le rende;
Ma la fortuna è vitrea,
Si rompe allor che splende.

Ecco da vecchia femmina
Face colà si porta:
Già la Farfalla volavi.
Già la Farfalla è morta.

E la Zanzara accortasi
Di sì funesto evento,
Scioglie il nativo sibilo
In flebile lamento.

Ahi, dice, ahi perchè piacqueti,
O sconsigliata amica,
Gire a scherzar con fiaccola,
Che è bella, ma nemica?

Se pria voluto intendere
Tu avessi il mio consiglio,
Detto t' avrei: non correre
In braccio al tuo periglio.

Or son costretta a piangere
La misera tua sorte:
Ma cauta in fiamma perfida
Non cercherò la morte.

Mentre costei lamentasi,
La vecchia intorno gira,
E alle Zanzare incomode
A far la caccia aspira.

Tacito è il pie: la provida
Man col cerino ardente
Lungo il Muro le tenebre
Toglie alle luci attente.

L' occhio distingue pendola
Su l' infima parete
Già la Zanzara, è l' animo
Già del suo sangue ha sete.

La man la face approssima
Con insensibil moto;
Sta sulle labbra l' alito
Sospeso, il ciglio è immoto.

Pur la Zanzara stassene
Ferma, o non ha timore,
O non vi pensa. Investela
La fiamma, ecl ella more.

La Farfalla alla fiaccola
Corse, e perdè la vita,
E la Zanzara esanime
Perchè non l' ha fuggita.

Chi non cerca il pericolo,
Ma poi fuggir nol sa
Quando s' appressa; è stolido,
O almen saggio a metà.

XCVI.
Il Cavallo e il Bue

Disse un Cavallo a un Bue:
Poichè le cose tue
Mi stanno a cuore assai,
E tu sei tanto un animal dabbene.
Vo' darti per tuo bene
Una certa notizia che non hai.
Parla, rispose il Bue; ben grato accetto
Il tuo buon cuore, e ascolto ogni tuo detto.
Se tu ti trovi adesso
Dalla fatica oppresso,
Il Cavallo soggiunse, un dì verrà
Che da te la fatica
Neppur si sognerà. —
Bene! — E se ti nutrica
Or cibo parco, e sàzian le tue voglie
Aride paglie, erbe triviali e foglie,
Allor crusche e tritelli in beveroni,
Fieni odorosi e buoni,
Trifogli, sagginelle
Ti faranno scialare a crepa pelle. —
Oh meglio! — Ma . . — Che ma?— Ma quando poi
Saranno i membri tuoi
Grassi bracati, allora... — Allor che fia?—
Sarai condotto alla macelleria.
Il Bue rimase mesto
All' annunzio funesto, e fin che visse
Detestò, maledisse
Il Cavallo indiscreto,
Per avergli svelato un tal segreto.

Dire all' amico un suo futuro danno
Ch' è per recargli affanno,
Ben fatto egli è, se scampo alcun si trova;
Ma se scampo non v' è, dirlo che giova?

XCVII.
Lo Scimiotto e la Lepre

Fuvvi nei tempi antichi uno Scimiotto,
Che servendo un famoso ciarlatano,
S' era fatto cortese e molto dotto
Nelle galanterie dell' uso umano;
Ma vecchio alfine ottenne il benservito,
E ritirossi in un deserto lito.

Quì forestiero in passeggiar s' avvenne
In una Lepre dolce di natura,
E tosto il piè con leggiadria ritenne,
E arrecatosi in bella positura,
Un inchin sorridendo assai gentile
Le fece, ed un saluto in scelto stile.

Ed entrato in parole, a lei palese
Fe' della vita sua tutta la storia;
Quanti regni percorse, e quanto apprese,
Quanti plausi ne ottenne, e quanta gloria.
In somma era un gran savio a quel eh' è' disse,
Nè imparò tanto in viaggiando Ulisse.

E proseguendo il suo sermon dicea:
Poichè la favorevol mia ventura,
Oltre ciò che sperar giammai potea,
Sì fortunato incontro a me procura,
Degnatevi accettarmi, o mia signora,
Tra i vostri amici, anzi tra i servi ancora.

Sì, che il servirvi a mia fortuna ascrivo,
Costi quanto può mai tempo o sudore;
E al gran merito vostro insin ch' io vivo
Consacrato sarà questo mio cuore:
Io dunque sono a' vostri cenni intento;
Sarà il vostro comando un mio contento.

La Lepre ch' era semplice persona,
Non usa molto a tante sicumere,
Brevemente risposegli alla buona,
Che a tali offerte ella ci avea piacere;
Che gli era grata, e ne' bisogni sui
Avrebbe fatto capitai di lui.

Dopo questo amichevole congresso
Ognuno se n' andò per la sua via;
Ma la signora Lepre il giorno appresso;
Mentre il suo cibo a ricercar sen già.
Vide salito in albero eminente
Il suo nuovo amatissimo cliente.

Nel circuito de' rami ampio e capace
Erasi estesa smisurata vite;
Ed il caro Scimiotto in santa pace
Stava mangiando l' uve saporite.
La Lepre allor: bella occasion mi viene!
L' aver dell' amicizie è sempre bene.

E vôlta allo scimiotto, o camerata.
Disse, poichè tu sei nell' abbondanza,
Non far solo per te la scorpacciata;
Butta un grappolo giù per mia pietanza.
E lo Scimiotto a lei: chi siete voi?
Bella? son pure tra gli amici tuoi.

Son la Lepre di ieri: eh di tant' alto
Tu non mi riconosci forse affatto
Maisì, ci veggo ben; ma in sì gran salto
Il grappolo verrebbe giù disfatto.
Prova. — Non provo; io penso al corpo mio:
Signora Lepre, a rivederci, addio.

È già del guasto mondo un' uso antico
Mille servigi offrir, non farne un mezzo;
Chiamarsi ed umil servo e vero amico
Sol per legge di moda e sol per vezzo;
E crede esser nel cuor la gente sciocca
La bella cortesia che è solo in bocca.

XCVIII.
Il Platano e gli Alberi fruttiferi

In amenissirno giardino adorno,
Ove mill' Alberi facean soggiorno,
Tutti fruttiferi, tutti pregiati
E per moltissime poma incurvati,
S' intruse un Platano, non so già come,
Solo stimabile per belle chiome.
Fors' io m' immagino che fosse oscura
La di lui sterile pigra natura,
E che sperassero le Piante tutte
Un dì lui carico veder di frutte,
O lo soffrivano per compassione,
Chè son poi gli Alberi buone persone.
Ed ecco un nuvolo tetro s' avanza,
Il tuono mormora già in lontananza:
D' atra caligine l' aria si veste,
Ruotano i vortici che le tempeste
Annunziar sogliono alle infelici
Ricchezze rustiche dei campi aprici;
Le Piante misere del bel giardino
Incerte pendono sul lor destino,
Poichè già un valido vento le scuote,
Pioggia grossissima già le percuote,
E par che il turbine porti su l' ali
D' atroce grandine globi fatali.
Or mentre l'impeto la pioggia addoppia,
Un formidabile fulmine scoppia,
E al solo Platano di cima toglie
Un ramo picciolo con dieci foglie.
Dopo il pericolo di quel momento
La pioggia allentasi, s' accheta il vento;
Il Sol tra i nuvoli raggia da un lato,
Dall' altro l' Iride: tutto è passato.
Allontanatosi sì gran periglio,
Faceano gli Alberi lieti un bisbiglio,
E con reciproche voci cortesi
Congratulavansi d' essere illesi.
Ma lagrimevoli forti lamenti
Tra i dolci mormori dei lor contenti
Alzava il Platano, gridando: ohimè!
Ohimè! me misero! misero me!
Ho perso un tenero mio ramoscello
Tra' miei bellissimi forse il più bello.
Oh! gli altri dissero, troppo ti lagni;
Forse non giovati de' tuoi compagni
La sorte? e il pubblico ben non ti preme?
Siam pur tuoi prossimi, viviamo insieme.
Tutti un medesimo giardin ci serra,
Ci è madre tenera la stessa terra;
E mentre giubbila tutta la schiera,
Ignobil perdita sì ti dispera?
E a loro il Platano disse: a me cale,
Sia grande o piccolo, molto il mio male:
Più che il ben pubblico curo il privato,
E mi considero come isolato.
Allora gli Alberi tutti un contegno
Sì fatto presero per chiaro segno
Di non sociabile natura trista,
E fu sul Platano scritto: Egoista.

XCIX.
La Farfalla e il Cavolo

Una certa farfalletta
Mossa un dì da' appetito
Svolazzava in sulla vetta
D' un bel cavolo fiorito;

E suggendo un breve istante
Ora questo ed or quel fiore,
Nauseata, disprezzante
Ah, dicea, che reo sapore!

A' mai sì disgustoso;
Cavol mio, per me non fai,
Sovra te più non mi poso.

A sì fatto complimento
Tosto il Cavol replicò:
Mia signora, a quel ch' io sento,
Molto il gusto in voi cangiò.

Vi conobbi in altri arredi,
E in più misera fortuna:
Foste bruco, ed io vi diedi
Molto tempo e cibo e cuna.

Era allora a voi ben grato
Il sapor delle mie foglie;
Ma cangiando il vostro stato
Voi cangiaste ancor le voglie.

Dalla Favola s' intende
Chiò che segue in uom leggiero,
Se la sorte o sale o scende,
Sale o scende il suo pensiero;

Ma l' uom saggio mai non falla
Nè in superbia, nè in viltà;
O sia bruco o sia farfalla
Immutabile si stà.

C.
Il Passeraio

La donna nella lingua ha certa molla,
Che sempre è tesa, e mai non si riposa;
Onde non mai di cicalar satolla,
Torni ben, torni mal, dice ogni cosa;
Svela gli altrui segreti, e svela i suoi,
E se si san, si maraviglia poi.

Per chiarirmi di ciò mi fu narrata
Una favola no, ma storia vera
Che nella estate prossima passata
Accadde a certe Passere una sera;
Io per me molto ben chiarito fui,
E chi non lo sarà, peggio per lui.

Quel che però non poco mi dispiace,
È che vi son degli uomini sovente,
Che in così fatta abilità loquace
Sanno imitar le donne ottimamente,
In somma il fatto quadra e quà e là;
L' applichi a modo suo chi leggerà.

Allor che il Sole a tramontar già presso
Sparge rossiccio e indebolito il lume,
Molte Passere in seno a un gran Cipresso
Adunarsi ad Albergo avean costume;
E lì fin che ogni raggio non svania
Se ne stavano a crocchio e in allegria.

Una sera che forse avean ripieno
Il gozzo d' una buona vettovaglia,
E che l' aria tranquilla e il ciel sereno
Inspiravan letizia alla marmaglia,
Faceano più dell' usato un tal frastuono,
Che a rifarlo vent Oche atte non sono;

Chi cantando si sta: chi or scende, or monta
Pe' rami in danza, e l' altre al ballo invita;
Chi chiama, chi risponde, e chi racconta
Vaghe novelle a compagnia gradita;
Chi motteggia, chi scherza, e chi affatica
La lingua in far la critica all' amica.

Le voci, ch' eran forse un centinaio,
Anco da lungi si facean sentire;
Onde i villani udendo il passeraio
Dicean: là van le Passere a dormire;
Ed un ch'era il più destro e il più inumano,
Pensò far loro un tiro alquanto strano.

Prese un cerchio da botte, a cui distesa
Era nel vano un' impaniata rete:
Stava nel centro una gran face accesa,
Che a sè gli occhi traea fra l' ombre chete;
Un gran palo era poi nel cerchio fitto,
Che lo tenea come una rosta ritto.

Tale strumento è detto il diavolaccio,
Forse perchè va fuori a mezza notte
A dar ne' boschi agli augelletti impaccio,
E ne fa delle crude e delle cotte;
Con questo in man venne il villano, e appresso
Fitto in terra lo pose al gran Cipresso.

Con lunga canna poi dall' altro lato
A diverse riprese i rami scosse;
Le Passere al romore inaspettato,
Furo svegliate e dal timor percosse;
E vedendo che un certo albore imbianca
La parte appunto ove il periglio manca,

Là si rivolgon tutte, e lascian tosto
L' albergo sacro alla notturna pace;
Segna loro la via quella che accosto
Splende al cipresso insidiosa face;
Ma la rete non vista il volo arresta,
E il visco all' ali un fermo laccio appresta.

Oh quante, a cui sembrò dolce o benigna,
Quando il sonno le prese, esser la sorte,
Or sotto luce torbida e maligna
Apron le ciglia, e incontrano la morte!
Cangiata in pianto è di cianciar la voglia,
E una macchina sola a quante è doglia!

Così appunto ad un dì lieto e ridente
Succeder si mirò notte d' affanno,
Quando ai Troiani ordì la Greca gente
Con votivo Cavallo atroce inganno:
E alla stessa cittade un giorno solo
Recò somma letizia e sommo duolo.

E come Enea scampò con fida schiera
Dell' ardente città dalla ruina,
Ond' ebber poi l' origine primiera
Gli Albani Padri e la città Latina,
Così per sorte più che per consiglio
Scansaro alcune il barbaro periglio.

Esse raccolte in bosco assai vicino
Passar tremanti della notte il resto;
E poi che il primo raggio mattutino
Sulla pendice orientai fu desto,
Venne ognuno a consiglio, e lì si pose
A ragionar delle passate cose.

Quale animal, dicean, sì discortese
Il nostro dormentorio altrui fe' noto?
Come divenne al contadin palese
Albero sì nascoso e sì remoto?
Forse fu qualche uccello a noi rivale,
Che il disse, per goder del nostro male.

E qui strepitan molto in pieno coro
Contro i costumi rei ch' or son frcquenti,
Onde tanto dolor ne venne a loro,
Che son poi sì modeste e sì prudenti;
E pur una non vi è che a sè l' ascriva,
E dica: il nostro mal da noi deriva.