LXXXV.
Il Leoncino
La regina leonessa
Partori, nell' ora stessa
Che spumava un bel mattino,
Il suo primo leoncino;
E s' udivan d'ogni sorte
Complimenti nella corto:
Si dieta, ch' era vezzoso,
Ben tornito, e spiritoso
Che in bellezza era la madre,
Che in valor sarebbe il padre,
Che per suo piacer Natura
Di formarlo prese cura.
Il leon, lieto e giocondo
Quanto padre fosse al mondo,
Festeggiar volle il natale
Di quel suo bambiu reale
Con banchetti, suoni, e canti:
E venir fe'comedianti,
Saltatori, e ballerini,
Ne mancaro i fantoccini.
Quando giunse il principino
All' etade ornai vicino
Ch' educare si doveva,
Il leone che voleva
Far ch' ei fosse uno stupore
Di saper e di valore,
Molti elesse letterati,
E maestri rinomati;
Dico molli, nè so come
Ricordarmi del lor nome.
Dirò sol, che l' elefante
Era l'ajo dell'infante;
Che di scherma era maestra
Una scimia snella e destra;
Che la volpe malandrina
La politica dottrina
Gl'insegnava, e l' orso il ballo,
E le lingue il pappagallo.
Crebbe, e morto il genitore,
Gli divenne successore;
Ma l' impero mentre resse,
Io non so se mai facesse
Opre degne di memoria,
Che non parlane l'Istoria:
Sol si legge nelle stampe,
Ch' egli aveva grosse zampe,
Denti acuti, e gran mascella
Per sbranar le pecorelle,
E sovente quel ghiottone
D'una fece un sol boccone,
E solea, scrisse un autore,
Trangugiar anche il pastore.
La mia musa non vaneggia,
Se scherzando favoleggia:
Elia intende dir che amica
Del saper è la fatica;
E che mente, benchè rara,
Sa non studia, non impara.
LXXXVI.
Il Filosofo,
il Bambino, e 'l Ricco
Viveva un buou filosofo
In un suo poderetto,
Ch'ei stesso a render fertile
Prendea cura e diletto.
E star seco vedevasi
Un fanciullin vezzoso,
Dotato di bell indole,
E di saper bramoso.
A cui con modo facile
Nutriva quel sapiente
D' una dottrina semplice
La giovinetta mente.
E questi attento e docile
A quanto gli diceva,
Entro al suo core tenero
Tesoro ne faceva.
Un cittadin ricchissimo
Nella stagion estiva
Nei campi, ch' eran prossimi,
A villeggiar veniva.
Ei stanco de'spettacoli,
E de' tripudj, e feste,
La quiete dolce e placida
Turbava alle foreste;
E sempre ivi s' udivano
Latrati, grida, e corni,
Che rimbombar facevano
Le valli in quei contorni.
Le lepri, i cervi timidi,
E tutte l'altre fiere
Fuggendo cadean vittime
D' un barbaro piacere.
Costui, die tanto amabile
Vedeva quel fanciullo,
Talor seco a discorrere
Prendevasi trastullo:
Di cose inette e frivole
Garrir seco soleva
E del suo fasto splendido,
Che d'altro non sapeva.
Ma questi non curandosi
D' udirlo lungamente,
Di ritornar sollecito
Sol era col sapiente.
Tal cosa punse l'animo
A lui, che la ricchezza
Degna d' onor sol reputa,
E che il saper disprezza:
Va pur, gli disse, discolo,
Al tuo pedante in fretta;
La frusta che tu meriti
Per darti egli t'aspetta.
Rispose: compatitemi;
Io so che gli son caro,
Che belle cose insegnami,
E da voi nulla imparo.
LXXXVII.
Il Pastor deluso
Amava Titiro
La bella Fille:
Destar faville
D' amor reciproco
In lei voleva,
E a lei diceva:
O Fiile amabile,
In tutto il mondo
Stato giocondo
Non si dà simile
A quel d'un core,
Ch' arde d'amore.
Quei, che si godono,
Sono diletti
Veri, perfetti;
E per comprenderli
Pensa, che sono
D'un nume il dono.
È ver, che provasi
Talor l' affanno;
Ma poi si fanno
Dolci e piacevoli
Sino i sospiri,
Sino i deliri.
Al campo vadasi,
Al colle, al prato,
L'oggetto amato
Per tutto vedesi
Ne' bei colori
Di tute'i fiori.
Pare, se tremola
Nel bosco fronda,
Ch'ivi s' asconda;
Pare, se cantano
Teneri augelli,
Che s'oda in quelli.
D'un fonte al margini
Nell' onda pura
Si raffigura;
E ancora fingesi
Nei zampilletti
Dei ruscelletti.
Se nube candida
In ciel s' aggira,
Ivi si mira:
E se sfavillano
In ciel le stelle,
Si mira in quelle.
Il Dio sonnifero
Con dolce errore
Seconda amore,
Chè mentre dormono,
Sono gli amanti
Fra lieti incanti;
E veder possono,
E toccar cose
Ad altri ascose,
E al seno stringere
Credon talora
Chi gì' innamora.
Sì disse: e Fillide,
Ch' aveva il core
Pien di pudore,
Gli ebbe a rispondere
Modesta e bella
Con tal favella:
Altri pur godasi
Codesta vita
Sì a te gradita:
Io no; che sembrami
Che l'amor sia
Vera pazzia.
LXXXVIII.
La Barca di Caronte
Giunse l' ombra d' un monarca
Sulla riva, ove si varca
L'onda nera d' Acheronte
Nella barca di Caronte;
E la gente al mondo estinta,
Da desir ignoto spinta,
In gran folla ivi s'aggira,
Che il tragittone sospira:
Ma il nocchiero sol riceve
Chi a suo tempo passar deve.
L'ombra regia giunse appena,
Che per gir all' altr'arena
Entra in barca; ma Caronte,
Verso lei la crespa fronte
Rivolgendo, la minaccia,
E col remo la discaccia.
L' ombra offesa allor s'infuria:
A me, disse, tanta ingiuria?
Tu così rispetti il trono?
O non sai forse chi sono?
Io lo so, tosto il nocchiero
Le rispose torvo e fiero;
Sappi tu, che voi mortali
Quaggiù siete tutti eguali.
Ella, che temea quel remo,
Si scostò dal guado estremo;
Ma sen giva a passi lenti
Brontolando fra' suoi denti.
LXXXIX.
La Scimia,
il Pappagallo, e 'l Cane
Spesso una scimia con un pappagallo
Di merto contendeva:
Maestra io son nel ballo,
Ella così diceva,
E fo salti e carole,
Capitomboli, giri, e capriole;
E son si disinvolta,
Che bastami una volta
Veder far una cosa, che ancor io
La posso far con ogni vezzo, e brio;
E si ferma sovente
Per ammirari giuochi miei la gente.
L'altro si dava vanto,
Così dicendo: Io so parlar, e canto;
E se una volta sola
Intendo una parola,
Ancor io so si ben articolarla,
Che voce umanasi diria che parla,
E spesso si diletta
La padroncina mia vezzosa e bella
Di prendermi sul dito, e mi favella.
Un cane, il qual udiva tai contese,
Con questo dir riprese
Quei vani di se stessi ammiratori:
Dovreste alfin, mi pare,
Finir le vostre gare;
Chè altro non siete voi che imitatori.
Con questi ultimi detti
Molti saccenti ancor vanno corretti.
XC.
La Morte e 'l Tiranno
La morte squallida
Giva rotando
L'inevitabile
Sua falce, quando
Giunse alle porte
Di regia corte.
Eccola ascendere
Per l'alte scale,
Eccola scorrere
Per l'ampie sale
Di quel soggiorno
Lucente, adorno.
Ella vedevasi
Da tutt' i lati
Attenti e vigili
Custodi armati
D'elmi, di scudi,
Di brandi ignudi,
Che, muti e pallidi,
Non die arrestarla,
Nè men ardivano
Di rimirarla:
Tanto nel core
Avean terrore.
Quell' i implacabile
Oltre sen varca
Per sin' al talamo,
Dove il monarca
Languia d'un male
Crudo, letale.
A lui s'attenebra
Tosto, vedendo
Di morte giungere
Lo spettro orrendo,
La luce intorno
Del vage giorno.
Per l'ossa scorrere
Sente un tremore,
Tutto ricopresi
D'atro pallore;
Parlar volea,
Ma non potea.
Essa prevennelo:
Uom , disse, è giunto
L' irrevocabile
Fatale punto;
Che vita e trono
Più tuoi non sono.
Ti sembro orribile?
Non è mia colpa;
Te stesso esamina,
Te stesso incolpa,
Se tal mi vedi,
Se tal mi credi.
In altri secoli
Ne suol romano
Bella mi videro
Tito, e Trajano,
Che avean l' impero
Del mondo intero.
Quei non sentivano
In tai momenti
Latrar uell' anima,
Come tu senti,
Con aspre voci
Rimorsi atroci.
Padri dei popoli
Sul trono assisi
Compagni avevano
Sempre indivisi
Valor, sperienza,
Senno, clemenza.
Essi sapevano,
Pria che a' soggetti,
La legge imponete
Ai proprj affetti,
Tenerli a freno,
Domarli in seno.
Quì veggo splendere
Per ogni dove
L'oro e la porpora;
Ma veggo altrove
Povere e nude
Fede e Virtude.
Veggo la rustica
Fatica oppressa
Sudar sul vomere
Non per se stessa,
Ma per dar pasto
Al lusso, al fasto
Tu sai, che godono
I tuoi tesori
Mercuri, Veneri,
Adulatori,
Ministri odiosi,
Nobili oziosi.
E circondandoti
Fra quei che stanno,
Molti si trovano
Che aver pur sanno
Sul labro il miele,
Nel cor il fiele.
Or senti, o misero,
Che sei mortale.
Sì disse, e troncagli
La vita frale
Poi volge il piede
Ad altre prede.
Da forza, incognita
L' ombra fremente
Tosto nel Erebo
Portar si sente,
Là dov' è tutto
Orroi e lutto.
XCI.
Le Donne, e 'l Secreto
Deve l'Etna esser pesante
Sulle spalle del gigante;
Ma un secreto l' è non meno
Della donna sopra il seno:
E s' è ver che tanto posa,
Io la scuso, se 'l palesa.
Ma fra quei del nostro sesso
Quanti son che fan l' istesso;
E se questi av esser gonne,
Si diria che sono donne.
Un marito, per scoprire
Se indiscreta nel garrire
Fosse mai la sua consorte,
Una notte gridò forte:
Ahi! che spasmo! che dolore!
Me meschin! mi manca il core!
Che sarà quel mal che provo?
Me che sento? ò fatto un uovo;
Affè! un uovo fresco e tondo,
Il più bel che fosse al mondo.
Deh! se m'ami, vita mia,
Non parlarne a chi che sia;
Che gallina, se lo sanno,
Tutti quanti mi diranno.
Ella crede, e l'assicura,
E per tutt' i numi giura
Di voler prima morire,
Che il secreto mai tradire.
Ma coll' ombre sue la notte
Le promesse à via condotte:
Essa, il sol tosto che appare,
A trovar va la comare,
E le dice: Una novella
Vengo a darti strana e bella:
Questa notte mio marito
Un bell' uovo à partorito.
A te sola lo confido;
Non parlarne; a te mi fido;
Che se tu il dicessi mai,
Mio marito come sai,
Se una cosa mal gli suona,
È manesco, e non perdona.
Così l'altra: Non temere;
Son discreta, e so tacere,
E mi caschi, se parola
Ne dirò, la lingua in gola.
Quella parte: questa sente
Di garrir stimol pungente;
All' amica va di volo,
Nè le dice un uovo solo,
Ma bensi mezza dozzina.
Questa disse una decina,
Che, tacer benchè prometta,
Corre altrove, e ne cinguetta;
E la fama gran ciarlera
Spiega il volo, e menzognera
Case e strade trascorrendo,
Giva il numero crescendo
Di quell' uova ogni momento,
Tal che a sera furon cento.
XCII.
Il Torrente e la
Riviera
Un gran torrente rapido
Con spaventoso strepito
Scendea da rupe altissima;
E nel suo corso instabile
L'orrore accompagnavalo;
Nè i passaggeri ardivano
Varcarlo, e rivolgevano
Altrove i passi timidi.
Un solo che vedovasi
Da masnadieri premere,
Quell'onde minaccevoli
Varcò senza pericolo:
Ma il misero, vedendosi
Seguire dai medesimi,
Da lor fuggendo involasi;
E al suo fuggir opponeit
Una riviera limpida,
Il di cui piano scorrere
Del molle sonno immagine
Gli fece tosto credere,
Che fosse il guado facile:
All' apparenza ei fidasi,
Entra nell' onda, e scivola,
S' affoga, e presto vassene
A traversar nell' Erebo
Il fiume irremeabile.
Sovente i mali accadono
Là, dove men s' aspettano.
XCIII.
I due Amici
Deh! vieni, o dotta Clio;
Or che narrar desio
Una gentil novella,
La dolce tua favella
Inspirami cortese.
In un lontan paese
Due veri e rari amici
Vivevano felici:
Sempre nel cor sinceri,
Concordi nei voleri,
Quel, ch' uno possedeva,
All' altro apparteneva.
La notte allor che il mondo
Tace in obblio profondo,
Un d'essi sogna, e desto
Vestesi, e corre presto
Dell' altro alla dimora.
Dormiano i servi allora;
Ei chiama: un dal balcone
Risponde: al suo padrone
Va subito, e l'avvisa.
Tal visita improvisa
L'inquieta, e lo sorprende;
Ei borsa, e spada prende;
La scala scende in fretta,
E corre a lui, che aspetta;
E dice: Ora tu vieni?
Perdesti al giuoco? tieni
La borsa : una contesa
Ài forse? in tua difesa
Ecco son io: d' amore
Sentisti il pizzicore?
Giovane schiava è meco,
La chiamo, e venga teco.
No, no, l' altro rispose,
Non cerco queste cose:
In sogno te non lieto
Io vidi, e, molto inquieto,
Quà venni per sapere
Se fosser l' ombre vere:
Va, ti riposa; ch' io
Ritorno a casa: addio.
In chi fosse maggiora
L'affetto? tu, o lettore,
Decider ora dei;
Ch'io dirlo non saprei.
Felice, sol io dico,
Chi vanta un vero amico!
Ei, che gli legge in coro,
Fa, che non à il rossore
Di dir il suo bisogno:
Un' ombra, un moto, un sogno
L'affanna, e lo sgomenta,
Sè scorda, e si rammenta
Di chi sol è l'oggetto
Del suo verace affetto.
XCIV.
L'Uomo e la Sirena
L'umano spirito
Vuole, e disvuole;
Sempre desidera,
Spesso si duole;
Sempre volubile,
Nè mai contento,
Da se procurasi
Il suo tormento.
Quand' era placida
L'aria e serena,
Dal mare limpido
Vaga Sirena
Soleva sorgere,
E di se quello
Render visibile
Ch' avea di bello.
Un uom vedendola
Subito il core
Sentissi accendere
Di vivo ardore;
E su quell' umida
Spiaggia marina
Sempre aggiravasi
Sera e mattina;
E quando tacita
La notte in cielo
Sorgeva a stendere
L'oscuro velo,
Gli occhj alle lagrime
Aperti aveva,
Che il sonno chiudere
Mai gli poteva;
E pria che spuntino
I rai del giorno,
Facea sollecito
Al mar ritorno,
E spesso estatico
Su quella riva
Con voci simili
Parlar s'udiva:
Quanto son lucide
Le sue pupille,
Che al sen mi vibrano
Dardi e faville?
Quei labri teneri
Quanto son belli,
Si vegga ridere,
Canti, o favelli!
Che seno candido?
Che chiome bionde!
E quel, che celasi,
Qual fia, nell' onde?
Mai non si videro
Forme sì rare;
Tal sola Venere
Sorgea dal mare.
Il Dio marittimo,
Che udia sovente
Gemer quel misero,
Dargli consente,
Per porre un termine
Alla sua pena,
Sposa legittima
Quella Sirena.
Tosto si celebra
Il sacro imene:
Ei giunto credesi
Al sommo bene:
Ma nell' accorgersi,
Ch' avea la sposa
E lunga e lubrica
Coda squammosa,
Quello che amabile
Credeva in tutto,
Disama, e sembragli
Diforme e brutto:
Sipente, e sdegnasi
D'averla seco;
Si chiama stolido,
Si chiama cieco.
XCV.
Il Pastore e i Baci
Fileno che d'amore
Avea ferito il core
Per dori pastorella
Vezzosa quanto bella,
Mentre passava, un giorno,
Per un boschetto adorno,
Mirò dal mirto al pino
Volar un augellino:
Dipinto egli parea,
Sì vaghe penne avea;
Pure al suo dolce canto
Perdean le penne il vanto.
Ei tosto un laccio tese,
E destramente il prese,
E al prato, ove le agnello
Pascean l' erbe novelle,
Con quello in man venia
Dicendogli tra via:
Non ti dolere,
E non temere,
S'ora tu sei
Fra' laccj miei:
Voglio portarti,
Voglio donarti
Alla vezzosa
Clori amorosa:
Ai vezzi, al riso
Del suo bel viso
L'amor mi vinse,
L'amor mi cinse
Di sue catene;
Ma non dan pene,
Non son amare,
Ma dolci e care.
Io sarò teco,
Tu sarai meco
Suo prigionero,
E per te spero
Dalla bocchini
Sua corallina,
Che un bacio grato
Mi sarà dato.
Se men concede
Uno in mercede,
Potrò ben scaltro
Rapirne un altro,
E 'l terzo allora
Con altri ancora
Avrò l' ardire
Di a lei rapire.
Nel prato sul terreno
Pose, e coprì Fileno
Col suo cappel leggero
L'alato prigionero;
Indi veloce e snello
Corse al vichi ruscello,
Che cristalline a l'onda,
Che folti sulle spende
Feconda gli arboscelli:
Qui vari ramicelli
Il pastorel recise;
All' ombra poi s' assise,
E, fatto abil e destro
D'amor, che gli è maestro,
Gabbietta ne compose':
Laqual ornò con rose,
Con varj altri Coretti
Di bei colori eletti.
Il passo indi rivolse
Al prato, onde si tolse,
Per riportar a Clori
Augello, gabbia, fiori.
Ma quando fu vicino
Filen all' augellino,
Furbetto un venticello
Geloso e cattivello
Allor' allora venne,
E colle forti penne
Ebbe il cappel rivolto,
E l' augellino sciolto
Fuggì, ma non ei solo,
Fuggi coi baci a volo.
Spesso la nostra speme
Sen va col vento insieme.
XCVI.
La Quercia e la Canna
Povera debil canna,
Disse la quercia di sua mole altera,
Il tuo destin m'affanna:
Aura, che increspa il mar, dolce leggera
Al suol ti curva e doma,
E un augellin a te par grave soma.
La sorte mia è diversa:
Qual Caucaso la fronte ergo alle stelle;
Al vento che imperversa,
Al fragore di nembi e di procelle,
Al tuono che rimbomba,
Immota son, e al fulmine che piomba.
Se quivi sul terreno,
Che questa mia frondosa chioma ingombra,
Tu fossi nata, almeno
Io schermo ti farei dal sol coll' ombra;
Ma quasi sempre all'onde
Vicina nasci in paludose sponde.
Rispose l'altra: Cessa
D' aver per me così tenero affetto:
S' io cedo, non oppressa
Risorgo sempre; e l'avvenir aspetto
Per dir, se le tempeste
A te, meno che a me, sono funeste.
Appena questi accenti
Finì, che là nell' ultimo orizonte,
Dove ànno sede i venti,
Esce aquilon dal cavernoso monte,
E con orribil guerra
Ogni contrasto affronta, crolla, atterra.
Cede la canna: ei viene
Muggendo ad assalir l' audace pianta;
I colpi ella sostiene:
Ei si rinforza; alfin abbatte, e schianta
Colei che al ciel la fronte
Stendeva, quanto i piedi all' Acheronte.
XCVII.
Il Topo eremita
Pien di fede, e pien di zelo
Aspirava un topo al cielo,
E per viver santa vita
Un di fecesi eremita.
Egli avea per romitaggio
Un rotondo gran formaggio,
Dov'ei stesso, denticchiando
Poco a poco, e razzolando,
Una cella e una dispensa
Fatte avea con letto e mensa.
E divenne ivi polputo,
Grasso, morbido, e paffuto,
Non avendo altro che fare,
Che dormir, e ben mangiare.
Ah! Dio premia quei fra noi
Che fan voto d'esser suoi.
Ecco a lui venir, un giorna,
Al devoto suo soggiorno
Anelanti i deputati
Di Topopoli, mandati
Con un sacco sopra il dorso,
Per pregarlo di soccorso,
E gli disser: O buon padre,
Colle sue gattesche squadre
Il feroce Rodilardo,
Che il terror porta nel guardo,
E la morte nella zampa,
Di Topopoli s' accampa
Sulle porte, ch' or assedia,
E dovran morir d'inedia
Gli abitanti, o crudelmente
Passar tutti a fil di dente.
Noi per lunghi calli torti
Con periglio d'esser morti.
Padre, a te siamo venuti
Per pregai ti che ci ajuti.
Miei fratelli, lor rispose
L'eremita, queste cose
Non m'aspettano: dal mondo,
In quest' eremo m' ascondo
Per pregar sol tanto Dio:
Questo sol posso far io,
E farollo; vel prometto:
Ite in pace. Così detto,
Chiuse lor la porticella,
E tornò nella sua cella.
Tutt'i nostri solitarj
Son umani, e non avari;
E l'autore, il quale scrisse
Di quel topo, turco il disse.
XCVIII.
La Ghianda e la Zucca
Quel che Dio fa, è boa fatto;
E chi lo hiega, è matto.
Io nelle zucche vedo
Tal verità, e la credo
Senza cercar altrove
Mille argomenti e prove.
Marcene era un villano
Che quanto il suo pievano
Di lettere sapeva,
Che libri ognor leggeva
E di filosofìa,
E di teologia,
E gli altri contadini
Lontani, oppur vicini
Faceangli tutti onore,
Qual fosse un gran dottore.
Costui vide una zucca,
E pensa, e si spilucca
Il dotto suo cervello:
Che frutto grosso e bello!
Così fra se dicea:
Ma qual fu mai l'idea
Del creator del tutto
Nel fare questo frutto
Sì grande a terra steso?
Ah! s'ei l'avesse appeso
A quella querce annosa,
Saria mirabil cosa;
Che un arbor tanto grande
Le zucche e non le ghiande
Secondo il mio parere
Dovea per certo avere.
Si disse, e per pesare
Meglio si grave affare,
Sull' erba si riposa
Sotto la querce ombrosa,
E mentre egli argomenta,
Pian piano s'addormenta.
Dormiva egli supino,
E venne un uccellino,
Il quale il vol raccoglie
Tra quelle verdi foglie;
E scosso un ramicello,
Avviene che da quello
La ghianda si distacca,
E nel cader gli ammacca
Appunto, oh strano caso!
Il suo ronfante naso.
Marcone allor si desta,
E pone la man presta
In sulla parte offesa,
E quella poi distesa
Sul petto irsuto e folto,
Vi trova il frutto involto.
Allor pien di stupore,
Di tema, e di dolore:
Che mai di te saria,
Ei disse, o testa mia,
O testa mammalucca,
Se ghianda fosse zucca?
Alfin umil, e pio
Ei grazie rende a Dio;
E in tutto da quell' ora
L ammira, loda, adora.
XCIX.
Gli Animali
ammalati della peste
Un mal, che inspira orrore
Col nome sol, che puote in un sol giorno,
Quando il ciel va in furore,
Arricchir di Pluton l'ampio soggiorno,
E spopolar la terra,
A tutti gli animai facea la guerra.
La peste intendo dire.
Non morivano tutti; ma i viventi
Distesi al suol languire
Si vedevan oppressi, egri, gementi;
Nè si davano cura
Di cercar l'ombra, il rivo, e la verdura.
Garrire gli augelletti
Non s'udivan tra' mirti e tra gli allori,
Nascose fra boschetti
Fuggian le tortorelle i lor amori,
Quasi di vita prive;
Che chi ama, gode, e sol chi gode, vive.
Tenne il leon consiglio,
Perr placar degli Dei l'ira funesta
Nel nostro gran periglio,
Ei disse, un sol a noi rimedio resta:
Per il publico bene
Sacrificar uno di noi conviene.
Accusi ognun se stesso;
Ma non tradisca colla lingua il core.
Io primo mi confesso,
Né sarò, vel prometto, adulatore
Della coscienza mia,
E quel più reo di noi, vittima sia:
Io molte pecorelle
Sbranai per appagar sol la mia gola.
Che mi fecero quelle?
Non una colpa mai minima sola;
E nel pastor sovente
Ancor insanguinai l'avido dente.
Sire, disse la volpe,
Voi puniste un nemico nel pastore;
Son scrupoli, e non colpe.
Alle pecore poi faceste onore;
Che nel ventre reale
Deste ricetto a si vii animale.
A questo suo discorso
Grandi applausi facean gli adulatori.
La tigre, il lupo, e l'orso
Confessar man'a mano i lor errori;
Non tutti, che con arte
Ne ommisero la grave e maggior parte.
L'asino a dir seguia:
Nel passar in un prato appartenente
A una ricca badia,
La fame, l'erba verde, e certamente
Uno spinto rio
Mi spinse a prender quel che non fù mio;
E tosai di quel prato
Appena quant' è larga la mia lingua.
Oh delitto! oh peccato!
Gridan tutti; costui lo sdegno estingua
Del ciel, ei che l'accese:
No, sacrilegio tal mai non s'intese.
Allora condannato
Quel misero asinel da tutti a morte,
Venne tosto immolato.
Grandi, e piccioli, voi che andate in corti
Secondo voi sarete,
Colombi o corvi ancora ne uscirete.
C.
Il Lupo fintosi Pastore
Un lupo mal accorto
Rimase un giorno morto,
Perchè far ei voleva
Quello che non sapeva.
Dove un pastor dormiva
All' ombra fresca estiva,
Ei venne: a lui vicino
Ei vide il suo mastino
Dormir, e le agnellette
Distese in sull' erbette.
Fra i lupi aquistar lode
Ei crede con tal frode:
Essendosi vestito
Qual un pastor, ardito
Sopra due pie cammina,
E al gregge s'avvicina.
Ma il goffo imitatore
La voce del pastore
Poi fingere volendo,
Un urlo fece orrendo.
Ne geme la foresta;
Tosto il pastor si desta,
E cane, e gregge ancora.
Il lupo fugge allora
Tremante, impaurito;
Ma quel non suo vestito
Sì gli ritarda il corso,
Che già del cane il morso
Ei sente; indi il padrone
Lo giunge, e col bastone
Talmente gli tempesta
Sul tergo, e sulla testa,
Che il manda stramazzone
A urlar presso a Plutone.
Chi è lupo, lupo stia;
Miglior la cosa fia.
CI.
La Volpe, il
Cavallo, e 'l Lupo
Una volpe giovinetta,
Ma prudente, ma furbetta,
Un cavallo un dì vedea,
Che mai visto non avea.
Ella tosto al lupo corre,
E in tal moda gli discorre:
Là nel prato, non so quale
Sta pascendo un animale.
Bello, grasso, e par vivanda
Che la sorte a noi quì manda:
Vieni meco, che tu il veda,
Poi si tenti farne preda.
Vanno: il lupo s'avvicina
Al destriero, egli s'inchina,
Poi gli parla: Mio signore.
Gli son umil servitore:
Deh! mi dica in cortesia
Quale il nome di lei sia,
Per trattar, com' è dovere
Un sì nobil forestiere.
Il mio nome? il caval disse,
Chi mi calza, melo scrisse
Nella suola sotto il piede;
E chi legger sa, lo vede.
A tal dire la volpetta,
Che di frode lo sospetta:
Legger, disse, non saprei
Senz' aver gli occhiali miei.
Ma quel lupo: Non tu sola,
Ancor io son stato a scuola.
Al destrier indi s'accosta.
Che il suo piede ben gli apposta,
E sul ceffo gli diserra
Tale un calcio, che l'atterra,
E gli spezza molti denti.
Sorge il lupo: a passi lenti
Si rimbosca; ma gli disse
Pria la volpe ch' ei partisse:
Tu sai legger; e mi pare
Che ti possa ben giovare,
Ora che quell' animale
Un ricordo in modo tale
Ti scolpì sulla mascella,
Quale mai non si cancella.
Non si fidi c!ii è prudente,
Se non sa chi sia la gente.
CII.
I Cane deluso
dall' apparenza
Nel mondo tanti e tanti
Dell' ombra son amanti,
E per un ben fallace
Perdono un ben verace.
Passando un cane l'onda
D'un fiume all' altra sponda,
In quella egli vedea
La carne che tenea
Stretta fra dente e dente:
L'immagine apparente
L'inganna, e io to tenta
Rapirla, e l' onda addenta,
E dall' ingorda gola
La vera gli s' invola,
Nè la potè riavere:
Così per possedere
La cosa vana, incerta,
Perdè la cosa certa.
CIII.
I Lupi e le Pecore
Per molti secoli
In ulla terra
Tra lupi e pecora
Durò la guerra.
Alfine fecero
Tralor la pace.
Pace durevole,
E non fallace.
Tutti gli articoli,
E tutt' i patti
Con ogni formula
Erano fatti.
Eran reciprochi
I lor vantaggi,
E si mandarono
Entrambi ostaggi.
Avean le pecore
I lapicidi,
I lupi avevano
I lor mastini.
Allor trescavano
Le pecorelle
Nei verdi pascoli
Sicure e snelle:
L'onda bevevano
Di chiara fonte,
E s'aggiravano
Al piano, al monte;
E sulle morbide
Frondose rive
Si riposavano
Ali' ombre estive.
Ma fù brevissima
Si lieta sorte,
E la scontarono
Colla lor morte.
I lupi crebbero
Pria pargoletti,
E alfin si videro
Lupi perfetti.
E, mentre stavano
Lunge i pastori.
Strozzar le misere,
Qual traditori;
E s'imboscarono
Lieti e contenti.
Seco portandole
Ai lor parenti.
I quali accolsero
I figli ladri,
Come degnissimi
Dei loro padri.
E questi perfidi
Miser' a brani,
Mentre dormivano,
Prima i lor cani.
O voi che facili
A creder siete,
Da questa favola
Or apprendete,
Che per nascondere
Lor a titicj,
Molti si fiagno
Sinceri amici.
CIV.
Il Pievano e il Morto
In carozza piano piano
Giva un morto alla dimora,
Dove andremo man' a mano
Tutti noi, nè si sa l'ora.
Lunga e larga sopraveste,
Detta bara dalla gente.
L'involgeva: chi la veste
Freddo o caldo mai non sente.
I parenti in nero ammanto
Lo seguivan, e nel viso
Si vedeva a molti il pianto,
Ma nel cor avean il riso.
Un Pievano grosso e grasso
Lo guardava con gran cura,
Per vietar che Satanasso
Gli graffiasse la figura.
E con voce grave e forte
Intonava il pio pastore
Salmi e preci d' ogni sorte,
Per salvar quel peccatore.
Chi ben paga, è ben servito,
Ei diceva: a star con Dio
Voi dovete esser salito,
Sol mercé del canto mio.
Col denaro che mi viene
Io di quel frizzante vino,
Che ravviva polsi e vene,
Vo' com prar un botticino;
E trincando il buon licore
Cogli amici in compagnia,
Viva il morto, noi di cuore
Grideremo in allegria.
Tanto disse, e si dispone
A cantar con maggio, lena,
E tal gonfiasi il pulmone,
Ch' ivi rompesi una vena;
E col morto la gran via
Corse insieme; e quella sete
Che del vino si sentia,
Ammorzò bevendo in Lete.
Di consimili accidenti
La mortale vita è piena:
Spera l' uom lieti momenti,
Che la sorte volge in pena.
CV.
Il Sogno
Fileno, e Titiro,
Ambo pastori,
Fuggendo i fervidi
Estivi ardori,
All' ombra stavano
Di verdi faggi,
Dove non penetra
Febo co' raggi.
D' un sonno placido
Filen dormiva,
E Morfeo prodigo
Tutte gli offriva
Le belle immagini
Ridenti e rare,
Che mai si possano
Dall' uom bramare.
Gli parea d' essere
In una reggia,
Dove qual principe
Egli grandeggia,
E vedea splendere
Per tutto intorno
D'oro e di porpora
L'ampio soggiorno.
Servi in gran numero,
Paggi, e scudieri,
Tutti attentissimi
A' suoi voleri,
Lo circondavano,
E prevenire
Di lni sapevano
Ogni desire.
Credeva intendero
Canzoni e canti,
Di quoi che allettano
I cori amanti;
E udir purei agli
Un tintinnire
Di dotte cetere,
Di dolci lire.
Vedeva nobili
Dame vezzose,
E belle e giovani,
Tra lor gelose,
Che tutte aspirano
All' alt' onore
D' esser le Veneri
Del real coroe,
E per esprimere
La fiamma ascosa,
Che il labro timido
Spiegar non osa,
Tutte raffinano
Sui loro visi;
E sguardi languidi.
Vezzi e sorrisi.
Clori medesima,
Sempre ritrosa,
Or a lui mo trasi
Tutt' amorosa:
Seco accompagnasi,
E vanno insieme,
Dove conduceli
L'istrssa speme.
Vanno, e trapassano
Un orto ameno,
Di fior, che olezzano,
Tutto ripieno;
E in sen a Cloride
Ei pone quelli,
Che più gli sembrano
Leggiadri e belli.
Per un girevole
Calle, soletti
Entran fra taciti
Folti boschetti,
Dove le tortore
Tra verdi rami
Par, che si dicano:
Io t'amo, e m' ami.
Vanno; e si fermano,
Dove un ruscello
Serpendo mormora
Limpido e bello;
E la s'assidono
In sull' ei betta
Che move l' alito
Di dolce auretra.
Con voce trèmula
A poco a poco
Ivi si svelano
Il lor bel fuoco:
Amor, che osservali,
Non è più tardo
Dall'arco a spingere
Possente dardo.
Fra i baci teneri,
Fra i dolci amplessi
Al vero simili
Dal sogno espressi,
Ei grida: ah! Cloride
Ah! qual contento!
Mio ben, mie viscere,
Sei mia; lo sento.
S' accorge Titiro,
Il qual non dorme.
Che l' altro immagina
Fallaci forme,
E grida: Svegliati;
Vano vapore
T'ingombra il cerebro
Di stolto errore.
Fileno destasi:
Col sonno ancora
Sparir veggendosi
Chi l'innamora,
Rispondi: Ah! barbaro,
M' involi, oh dio!
Colei ch' è l'anima
Del seno mio.
Se felicissimo
Son col pensiero,
Che cosa importami
Se falso, o vero.
Ah! sogno amabile,
Chi sa, se mai
Felice a rendermi
Ritornerai.
|