I.
La Serpe e il Riccio
La serpe velenosa
Rampogne al riccio fea,
Ch'altre arme non avea
Che una scorza spinosa:
Ben con arme sì frali
Ad assalir tu vali
Degl'insetti la plebe
Che striscia fra le glebe;
O meglio ancor fai guerra
Ai grappoli vicini,
Fra cui lordo di terra
T' avvolgi e ti strascini.
E il riccio: Eppure ho sede
Esser meco cortese
Più che con te natura;
Tanto solo mi diede
Che basti alle difese:
Dolce vita e sicura;
Che altrui timor non movo,
D'altrui timor non provo.
II.
Il Delfino e il
Letterato
Sorse tempesta, e un legno
Carco di varie genti
Per lo nettunio regno
Volser sossopra i venti:
Entro i gorghi vicini
Albergo avean Delfini,
Che corsero, e più d'uno
Tolsero all'orco bruno.
Un di que' pesci avea
Uom che ritorno fea
Dal ricco indico mondo
Condotto un giorno a riva;
Politico profondo,
Che vie d' industria intatte
Mentre in sua mente apriva
A Batavia, a Suratte,
Sulla poppa seduto,
Era nel mar caduto.
Nel tragitto cortese
Di più cose il richiese,
Onde il capo s'empièo
Di commercio europeo.
Ora il Delfino istesso
A un naufrago fu presso,
Che di letteratura
Facea suo pasto e cura:
A lui, cammin facendo,
Leggi tu, lo dimanda,
Le gazzette d'Olanda? —
Bella! s' io le distendo:
Oh! di te parleranno,
Amico, almeno un anno. —
Vedrai sovente, io credo,
Lo Zuiderzée? — Se il vedo!
Qual uom! che brio! che mente! . . .
Gli è mio gran confidente . . .
In udir tal discorso
Scotesi il condottiere,
E l' impostor dal dorso
Lascia nel mar cadere:
Tanto fin anche a un pesce
Un impostore incresce!
La moda il vuol, millantati,
Cita l' autore, il tomo:
Che importa se confondasi
Un golfo con un uomo?
III.
Le due Colombe di
Citera
Due colombe avea Citera;
Per insolita beltà
L' una ha regno, e l' altra impera
Per gentil vivacità.
Tosto in due la gran coorte
Degli augelli si partì;
Alla bella altri fe' corte,
La vivace altri seguì.
Quella incanta il primo giorno,
L' altro giorno incanta men,
A' vivi occhi, al collo adorno
Avvezzando ognun si vien.
Questa ognor vie più contento
Far sapea ciascun di se,
E brillava ogni momento
D' alcun novo non so che.
Segue il grido, e a lei sen vola
Ogni giorno un disertor:
Resta alfin la bella sola
Senza regno e senza amor.
La beltà sempre è la stessa;
Ma lo spirto altra ha virtù:
D' appagar se quella cessa,
Questo appaga ogni dì più.
IV.
L' Uomo e il Cavallo
Uom che la prima volta
S' avvenne in un Corsiero
Che animoso e leggero
Scote la chioma sciolta,
Stronca boscaglie e salci,
Scaglia a più coppie i calci,
Empie le selve e i liti
Di sonori nitriti;
Quell' uom s' impaurì,
E via se ne fuggì.
Un' altra volta il vede,
Ma con minor paura;
Cauto appressando il piede,
I moti, la struttura
Di contemplar gli giova;
La terza volta il trova
Mentre a farsi satollo
Pe' larghi campi attende,
Gli gitta un laccio al collo,
E ad obbedir gli apprende.
Oggi soffrir t' è greve
Ciò ch' è nojoso e brutto?
Lo soffrirai tra breve:
L' uomo s' avvezza a tutto.
V.
Il Merlo fra gli
Usignuoli
Visse già un merlo gran seccatore,
Sfrontato e negro come un dottore,
Che penetrando nel bosco dove
Fean gli Usignuoli musiche prove,
In mezzo a quelli l' ale movea,
E le lor note talor rompea
Con certi asmatici suoi tuoni monchi
Da mover rabbia perfin ne' tronchi.
Un usignuolo perdè la flemma;
Ed, ecco, amici, disse, un dilemma:
O da noi lunge costui si stia,
O più non s' ode la voce mia.
Ma men focoso con tali accenti
Un altro tutti rese contenti:
Tra noi si resti, chè ne compensa
Delle sue noje più che non pensa:
Finchè rimpetto costui tenghiamo,
Meglio n' è dato sentir chi siamo.
VI.
Il Cardellino
Un cardellino grato a un nocchiero
Con lui fe' il giro del mondo intero
Stette sull' ancore l'europèo legno
Presso le piagge d'indico regno:
Quivi volavano lungo la sponda
Augei scherzando tra fronda e fronda,
E vestian piume leggiadre assai,
Piume in Europa non viste mai.
Il Cardellino riguarda e gode,
E aspetta il canto, ma ancor non l' ode.
Più giorni passano; tornano ancora
Gli augei per gli alberi tacendo ognora.
Il forestiero si pone in testa,
Che d'oltremare moda sia questa;
La moda piacegli: riede ove nacque,
E finchè visse, sempre si tacque;
Ed alla madre che lo rampogna:
Del tuo silenzio non hai vergogna?
Tal solea grave risposta dare:
È nova moda presa oltremare.
Quanti oggi trovansi fra noi messeri,
Che il peggio tolsero dagli stranieri!
VII.
I Topini
Nella lingua ch' Esopo
Primo intese fra noi
Cosi parlava un topo
A due de' figli suoi:
Del nemico al ritratto
Mente, o figli, ponete,
E a fuggirlo apprendete.
Un mostro orrendo é il Gatto:
Occhi che gittan foco;
Eternamente ingorda
Bocca di sangue lorda,
Entro cui denti han loco
Che ignorano quíete;
A' piè feroci artigli:
Ecco il ritratto, o sigli;
A fuggirlo apprendete.
Piange, sì detto, e tace,
E li congeda in pace.
La copia fanciullesca
Cerca fortuna ed esca:
Un dì mentre all' amore
Fea con un caciofiore,
A un tratto nella stanza
Vispo gattin s' avanza;
Buffoneggiando và,
Corre quà, corre là,
Salta, volteggia, e ogn' atto
È un vezzo, è un giocolino:
Non é già questo un Gatto,
Van dicendo coloro
Intenti a' satti loro.
Ma l' amabil Micino
D' improvviso si slancia,
Uno afferrò alla pancia
Colle zampe scherzose,
E l' altro in fuga pose;
Il qual per la paura
Si chiuse in buca oscura,
E prima che morisse,
Padre, di fame io pero,
O padre, tra se disse,
Tu non dicesti il vero.
Mal prendi a colorire
Deforme il vizio ognora;
Mostra che sa vestire
Ridenti forme ancora.
VIII.
Il Garofano
Disse un garofano, dal vaso ov' era,
Passar Licoride veggendo a sera,
Bella cui scherzano trecce d' or fine
Del collo latteo sotto il confine:
Anzi che in terrea prigion, radice
Su quel crin mettere che non mi lice?
La Ninsa udendolo, lo coglie, e tosto
In grembo agli aurei capei l' ha posto.
Il fior ne giubbila, e ad ogni istante
Di se fa l' aere vie più fragrante.
Quella entro splendida festiva stanza
Va dove apprestasi frequente danza;
E già dell' agile piè i moti fanno.
Ch' alto scotendosi le treccie vanno;
Appar l' eburnea fronte già molle,
Più notte avanzasi, l' aria più bolle.
Quand' ecco accorgersi, sorpreso il fiore,
Che tenue esalano sue foglie odore;
Che tutto il perdono: geme, s' adira,
Langue, scolorasi, si piega e spira.
Fior che precipiti ratto al tuo occaso,
Meglio non erati restar nel vaso?
Ridi all' immagine del fior sì strana?
Quanto somiglialo la specie umana!
Che là ve' credesi fondar sua sorte,
Talor l' assalgono sciagure o morte.
IX.
Il Gallo d'India e
il Colombo
Desïando un Gallo indiano
Esser caro a Pavonessa,
Di un tenor di modi strano
Si valea parlando ad essa:
Le dicea lodi sonore
Non del vario e bel colore
Onde piaccion le sue penne:
Panegirico solenne
Fea de' piè, che immago sono
Di nodosi aridi stecchi;
E dicea: tua voce ha un suono,
Che m' è balsamo agli orecchi.
Su dal tetto un buon Colombo
Tal di lodi udia rimbombo;
Scende e grida: altro non puoi
Encomiar, se encomiar vuoi?
Quei si scosta dalla bella,
E pian piano gli favella:
Oh con quanti un miglior modo
D' esser caro non si dà!
Non è in lei quel che in lei lodo?
Che vi sia creder godrà.
X.
Il Ministro e il
Favorito
Un pover uomo di merti pieno
Di come vivere chiedeva almeno;
E a lui chiudendosi le regie sedi,
Va del ministro del prence a' piedi:
Più d'un gli narra sinistro caso,
Ricorda i meriti; l' ha persuaso:
Quegli al re parla, spera alcun bene;
Ma il tempo passa, l'uom nulla ottiene.
Un favorito quel prence avea;
E il bisognoso non lo sapea:
Il buon ministro parlava assai,
Ma il favorito non parlò mai.
Se alla ragione d' alcun i' appelli,
Nè aprirti al core la via procuri;
Tu col ministro del re favelli,
E il favorito del re trascuri.
XI.
La Mosca e l' Ape
Una mosca un di girare
Volle intorno a un alveare,
Osservando i varj uffici
Delle attente operatrici:
Indi a poco a quella sede
Appressarsi un villan vede,
Minacciar d' esiglio e morte
La regina e la sua corte,
E rapina far crudele
Di lor cera e di lor mele.
Sclamò allor mossa da sdegno:
A che dunque opra ed ingegno
Consumar, se la fatica
Man raccoglie a voi nemica?
Il lavor che indarno avanza,
Col vostr' uopo si misuri,
E dell' api l' abbondanza
Chi la vuol, la si procuri.
La regina a lei si accosta,
E in tai detti sa risposta:
Non mai l'ape diligente
I sudori indarno ha sparsi:
Infelice chi non sente
Il bisogno d' occuparsi!
XII.
Il Leone e il Coniglio
Venne un coniglio ammesso
Al desco leonino,
Onor che il pardo istesso
Riceve a capo chino.
Nell' aulico consesso
La scimmia mai non manca,
Che della mensa appié.
Quando de' cibi é stanca,
Fa da buffone al re.
La volpe v' è che attende
Pel re vivande a scerre,
E a divertirlo prende
Nel tempo del deserre;
E i corridori cervi
Fan quel che i paggi e i servi.
Il coniglio vi su
Due volte, e poi non più.
Ma il re fra i grandi sui,
Dir non so come, un giorno
Si risovvien di lui,
E il chiama a se davante.
Quello al real soggiorno
Viene con piè tremante.
E il Leon: chi dispregia
Cosi mia mensa regia,
Pute omai d'insolenza:
Quello una riverenza,
E tace; il re seguia,
Ragion da lui chiedendo:
E quello un altro inchino,
E poi: Se la natía
Uso sincerità,
Non io far torto intendo
A vostra maestà:
Ben al real destino
Risponde vostra mensa;
Quai beni non dispensa?
Ma quel ruggir che fate
Del pranzo in sul più bello,
Quelle occhiate infiammate,
Quell'ir scotendo il vello,
Quell' aguzzar gli artigli. . .
Sire . . . con permissione,
Produce ne' Conigli
Pessima digestione.
Spesso compagno é al danno
L' onor che i grandi fanno:
De' pari ti contenta,
E il Coniglio rammenta.
XIII.
Il Cane e il Quadro
Non so dove un vecchio Cane
Giva un dì pe' fatti sui
Ricercando a fiuto il pane,
Quando scopre un quadro in cui
Tre mastini eran dipinti
Cruda guerra a farsi accinti.
A mirar riman lung' ora,
Poi: così pugnato ho anch' io;
Ma suggeva il latte ancora,
E già contro al fratel mio
Ogni giorno il buon padrone
M'aïzzava a far tenzone.
In fanciul per riso o gioco
Non destar dell' ira il foco;
Perchè norma ognor desume
Da quei dì l'uman costume.
XIV.
I Castelli in aria
Una sera al socolare
Si sedean Dorillo e Nina:
Ei dicea, veder regina
Ti vorrei di terra e mar:
Di superbe vesti adorna
E di gemme preziose . . .
Ma perchè, Nina rispose,
L'impossibile bramar?
Se formar desiri godi,
Brama il prato ognor più erboso,
Brama il gregge numeroso;
Quello alfin che aver si può.
A che prò, l'altro risposo,
Se provai finor bramando,
Che il piacer vien meno quando
L'alma ottien quel che bramò?
XV.
Il Cocchio
Senti che strepito di ferree ruote!
Flagel continuo l'aria percote:
Che sia? dispacciasi la via davante
Al rapidissimo romoreggiante:
Già mille girano pe' capi accesi
Nomi di principi, duchi e marchesi:
Quanti occhi fissansi! quanti pié in moto! . . .
Gli è un cocchio a dodici posti, ma vuoto.
Molti fra gli uomini più chiari io vidi
Di cocchio simile ritratti fidi.
XVI.
L' Avoltojo e il Cigno
Avoltojo nel mondo
Chiaro per cento prede
D' un' erma valle in fondo
Giovane cigno vede;
Ratto ver lui discende,
E il fero artiglio stende:
Quei si rannicchia a terra,
E china l' ali, e dice:
A che muover vuoi guerra
A un augello inselice?
Con sì facil vittoria
Tu non acquisti gloria.
Ma l' altro al cigno, e il prese
Fra l' adunch' arme intanto:
Io colle grandi imprese
So procacciarmi vanto,
Stancando artiglj ed ale;
Ma queste più leggiere
Servono al mio piacere:
Egli è poi sì gran male
Qualche cigno di meno?
Di cigni il mondo è pieno.
Così su gli altrui danni
Ragionano i tiranni.
XVII.
Il Cinghiale Gravido
Gran novella! in gran pensiere
È lo stuol degli animali;
Nè avea torto, a mio parere,
Chè son rari eventi tali:
Un Cinghiale a più d' un segno
Giudicato venne pregno.
Chiama tosto il re Leone
I vassalli a radunanza;
Chè trovar desia ragione
Di sì strana gravidanza:
E il famoso tumescente
Tratto è in mezzo a tanta gente.
Bello fu l' udire il vario
Ragionar di quello e questo;
Chi con medico frasario
Fea del come un manifesto;
Chi rivolto al ciel, pensava;
Chi guatava, chi toccava.
Ma del re per tal consulto
Non è paga ancor la brama:
Cresce il dubbio ed il tumulto,
Che sarà? ciascuno esclama;
E ciascun segue al cervello
Indagando a dar martello.
Quando alfin dell' Elefante
Tal fu il saggio sentimento:
A che pro tai cure e tante
A spiegar sì oscuro evento?
Partorisca alla buon' ora;
Spiegheremo il parto allora.
XVIII.
Il Canarino e il Gatto
Il Canarino:
Che non mi dice, che non mi dona!
Quante finezze dalla padrona!
Io son, sì bello gli é il mio destino,
Re degli augelli, non Canarino.
Il Gatto:
Tieni tua sorte; m' è dilettosa
Della fantesca la man callosa:
Goffo! a carezze tu presti fede,
Che fansi a quello che in don, ti diede.
Spesso taluno lodi si piglia
Da sè lontane le mille miglia.
XIX.
Il
Passerotto e la Passera vecchia
Degli augelli l' amore
Divenne giovin passerotto un giorno:
Occhiata di favore
A lui volgeva l' aquila orgogliosa,
E a fargli festa gli scherzava intorno
La Colomba amorosa.
Era umile da prima in tanta gloria.
Poi tosto superbì: battendo l' ali
Lo strepito affettava di vittoria
De' magnati pennuti;
Sprezzator degli uguali
Passava innanzi, e non rendea saluti.
Sciolse finanche il canto
Senza vergogna all' Usignuolo accanto;
Alfìn così divenne
Impertinente, tumido, importuno,
Che fu, qual pria l' amor, l' odio d' ognuno.
Confuso ed avvilito
In una vecchia Passera s' avvenne:
Perchè sgridato io son, perchè schernito?
Qual degli augei fra il coro
Serbar tenor di vita io potea mai?
E non è colpa loro,
Se in me tanti bei pregi io ravvisai?
E la Passera a lui:
È sommo rischio il favor sommo altrui;
E di goderlo non convien dar segno;
Ma comparirne degno.
XX.
L'Alveare e l'Oriuolo
Come io non so, so ben che un Alveare
Da un Oriuol non si trovò lontano,
E come udito avevane a parlare
(Chè n'ha il grillo a dì nostri anche il villano)
Qual d' opra in cui mirabilmente appare
Tutta la forza dell' ingegno umano,
Lungora fiso fiso il contemplò;
E poi pien di baldanza incominciò:
Tu dunque sei quell' opera stupenda
Che regina fra tutte esser si dice?
Di più semplici modi in me si prenda
Esempio assai più bello e più felice:
Quanto conviensi che il tuo fabbro apprenda
Dalla schiera di me fabbricatrice!
Sì parla in tuon sicuro e in atto regio,
E il guarda con altissimo dispregio.
L'altro tacer potea: ragion ben franca
Dà spesso col tacer risposte belle;
Ma più sovente ancora il savio manca,
Se si senta ferire oltra ha pelle:
Or come un baccellier di Salamanca
L' Oriuolo sua voce alza alle stelle:
Fu inver prolisso alquanto al par ch' enfatico;
Ma lice a chi ben parla essere asiatico.
Non ti sprezz' io come tu me; qual opra
Peregrinta e gentile anzi t' onoro;
Ma non dirò che merito si scopra
Eguale a quel ch' è in me nel tuo lavoro;
Son l' api industri, e molto senno adopra
In mirabil fatica anche il Castoro;
Ma il merto loro al merto uman rimpetto
Nella parte miglior trovo in difetto.
Ciò che fan l' api tue, guidate il fanno
Da necessario istinto: a' lor sudori
Tempo, figura, idea cangiar non sanno,
E ministri son solo e non autori;
Lor potrai lodi dar come si donno
Agli alberi che portan frutta e fiori;
E il merto è in lor ch' hanno le stelle e il sole,
Che mandan luce alla terrestre mole.
Non si palesa in lor verace ingegno,
Ma traccia sol di tale ingegno impressa:
E di che lode mai fabbro fia degno
Il qual ripeta ognor l' immago istessa?
Qui 'l confuso Alvear fa all' Api un segno,
Che ronzan sì che alfin l' aringa cessa:
E tal suole aver fine ogni quistione,
Che mena più romor chi ha men ragione.
Distingui il merto, che minore è dove
La mente o il cor necessità sol move.
XXI.
Le due Scimmie e
il Lucciolone
Benché fossero alle spalle
Dell' inverno i dì ridenti,
Eran bianchi e poggio e valle
Di notturne brine algenti.
Or due Scimmie, intirizzite
Per l' acuta aria nevosa,
A ricovero eran gite
Sovra pianta assai ramosa;
Ma sì tremano, che sonno
Ritrovare ancor non ponno.
Quando al foco, grida, al foco,
La più giovane accennando
Una siepe; e sì gridando
Spicca un salto, e corre al loco
Dove vivida favilla
Fra i cespugli luccicante
Ha ferito la pupilla
Dell' afflitta vigilante.
L' altra ancor discende, e adropra
Denti e piedi; un buon fastello
Fan di salci, e il pongon sopra
All' ardente carboncello;
Nè vi manca un po' di paglia,
Perchè fiamma tosto saglia.
Ecco entrambe a terra chine
Con tal forza soffiar drento,
Che non fan nelle fucine
Forse i mantici più vento.
Muso intanto avean sì fatto
Per la scarna guancia enfiata,
Che da Eraclito avrían tratto
Senza stento una risata:
Ma già soffìasi da un' ora,
Nè s' accende il foco ancora.
Cangian paglia, cangian salci,
Al fastello aggiungon tralci;
Soffia, amica, il legno è asciutto;
Ma si soffia senza frutto.
Quando alfine entra in sospetto
La men giovane più scaltra;
Meglio guarda, e con dispetto,
A che soffi? dice all' altra,
È un malnato Lucciolone,
Ch' abbiam preso per carbone.
Tal più d' un che soffia, e il petto
Vuol da Apolline infiammato,
Per carbon prende un insetto,
Perde il tempo e gitta il fiato.
XXII.
L' Aquila,
la Lepre e lo Scarafaggio
Da un' Aquila affamata
La Lepre era cacciata,
E dimandò d' ajuto
Un vecchio Scarafaggio
Che le venne veduto:
Ne' perigli più brutti
Hassi ricorso a tutti.
Quello si fe' coraggio,
E alla fiera regina,
Che la preda vicina
Coll' ugne già fería:
Deh! la vita perdona
Alla lepre meschina,
Ch' è molto cosa mia.
Mentr' ei così ragiona,
Colei la Lepre uccide,
La si divora e ride.
L'intercessore afllitto
Si stette zitto zitto;
Ma il loco e l' ora aspetta
A pigliarsi vendetta.
A tempo il nido spia
Dell' Aquila ove sia;
Indi il momento trova
Ch' ell' ita era a far guerra,
E vola al nido, e l' uova
Precipitar fa in terra.
XXIII.
L' Ananasso e la
Fragola
Tratta a un giardino la ben succosa
Della montagna Fraga odorosa,
In chiusi vetri s' avea vicino
Un Ananasso oltramarino,
Che l' altre frutta guarda sovrano,
Come i suoi schiavi guarda il Sultano,
E ch' alto disse: rimpetto a me
Alla vil Fraga loco si diè?
La Fragoletta non si confonde,
E in sua modestia così risponde:
Signor, perdona; forse il pensiero
Io t' indovino del giardiniero:
Quì vuolmi a fede far più sicura,
Che più dell' Arte vale Natura.
XXIV.
La Lucertola e il
Coccodrillo
Una Lucertoletta
Diceva al Coccodrillo:
Oh quanto mi diletta
Di veder finalmente
Un della mia famiglia
Sì grande e sì potente!
Ho fatto mille miglia
Per venirvi a vedere.
Sire, tra noi si serba
Di voi memoria viva;
Benchè fuggiam tra l' erba
E il sassoso sentiero,
In sen però non langue
L' onor del prisco sangue.
L' anfibio re dormiva
A questi complimenti;
Pur sugli ultimi accenti
Dal sonno si riscosse,
E addimandò chi fosse.
La parentela antica,
Il camin, la fatica
Quella gli torna a dire:
Ed ei torna a dormire.
Lascia i grandi e i Potenti
Di sognar per parenti:
Puoi cortesi stimarli,
Se dormon mentre parli.
XXV.
La Lucarina
Giva una Lucarina
Dicendo ad ogni augello
(Ah semplice augellina!)
Io de' figli ho il più bello;
Venitelo a vedere,
Che vi darà piacere.
Non anco é ben piumoso,
Ma é festoso, é scherzoso,
Becca, saltella ed ha
La grazia e la beltà:
Venitelo a vedere,
Che vi darà piacere.
Dicealo ai buoni ognora,
Ed ai malvagi ancora.
Più d' un augello andò,
E il vero ritrovò.
Tornando una mattina
L' ingenua Lucarina
Da un campo seminato
Del favorito miglio,
Nel nido insanguinato
Più non ritrova il figlio.
T' è caro il ben che godi?
Guarda con chi lo Iodi.
XXVI.
I due Viaggiatori
Due vilissimi insetti
Si fecero coraggio,
E da' natii boschetti
Si posero in vïaggio,
Dicendo: Ove si ha cuna
Non si fa mai fortuna;
Noi qui dobbiam languire
Tra la plebe più bassa,
O sotto il piè perire
D' un animal che passa:
Viaggiamo, usciam di guai,
Il mondo è grande assai.
Scorser di fronda in fronda
Tutta la patria sponda;
Dopo la terza aurora
Toccan selva straniera,
Ove d' insetti è schiera
Di lor più vili ancora,
Che tra l' erba frequente
Striscian timidamente:
Nè pastor mai, nè belva
Pon piede in quella selva.
Oh sì! fra queste piante,
Disser gl' insetti arditi,
Posiamo il passo errante;
Qui non vivrem romiti;
Avrem sicuro impero
D' insetti sopra un gregge;
Noi detterem qui legge:
E regnano da vero
Sugl' insetti minori
Gl' insetti viaggiatori.
Quanti veggiamo, oh quanti!
Insetti ove son nati,
Fra stranieri ignoranti
Ergersi letterati!
XXVII.
La Neve di Marzo
e un Fioretto
Ad un tenero Fioretto
Che fai qui? dicea la Neve
Scesa in marzo sul poggetto;
La tua vita fia pur breve!
Perchè mai nascer sì presto?
Spesso ai fior marzo è funesto.
Le rispose il fior gentile:
Aspettava il Sol d' Aprile;
Vivo, e in copia il succo interno
Femmi uscir col fin del verno;
Se il tuo gel mi dà la morte,
Ho servito alla mia sorte.
Su quel poggio era un pastore,
Che pietà sentì del fiore,
E con pronta mano e lieve
Fe' dal Fior lunge la Neve;
E di giunchi a chiusa cella
Affidò la pianticella,
Sì che giunse il fior gentile
A vedere il Sol d' aprile.
Virtù, sollecita
Previeni gli anni;
Nè ti spaventino
D' invidia i danni.
Temi che manchinti
Pietosi cuori,
Se ne trovarono
Gli stessi fiori?
XXVIII.
La Rosa e la Ruggiada
Il Fiore più orgoglioso
De' giardini e il più adorno
Alla Ruggiada un giorno
Fieramente sdegnoso
Così parlar s' udía:
Quando su me discendi,
Perchè, se ti raccendi
Della porpora mia,
Ami poscia de' fiori
Sulla varia famiglia
Varj prender colori,
Gialla sulla giunchiglia,
Bianca sul gelsomino;
Nè ricusi persino
Di rinverdir sull' erba?
Io già non son superba,
Ma te non vo' comune
Cogli altri fior più vili;
Eh pregia tue fortune!
I colori gentili,
Ond' io t' adorno, serba
Fatti per sempre tuoi;
E poi . . . portali poi
Anche sull' umil erba.
La Ruggiada rispose:
Io so pregiar le rose;
Ma immutabil nè novo
Il mio costume è questo:
Io del color mi vesto
Del loco ove mi trovo.
II facile piegarsi
Ai caratteri vari
Chi amabile vuol farsi
Dalla Ruggiada impari.
XXIX.
I due Cerbiatti
Due giovani Cerbiatti
Insieme assuefatti
Givano al fonte uniti
Ed a' cespi romiti,
Stavansi uniti al rezzo
Delle folte pendici
Agli altri cervi in mezzo;
Eran due veri amici.
Ma l' uno era animoso,
E l' altro timoroso;
Così che ad ogni auretta
Sentirsi la saetta
Già nel fianco credea;
E temendo bevea,
Temendo si cibava,
Temendo riposava.
Agosto viene, ai fonti
Mancan gli umori usati;
Erran per valli e monti
I Cerbiatti assetati:
Di guida al timoroso
Serve il cervo animoso,
E con sicuro piede
Di più passi il precede:
Alfin tra grotte cupe
Di là da un' erta rupe
Scopre il rumor diletto
Di un fresco ruscelletto:
Ecco in due salti arriva
Sulla bramata riva;
E al compagno perplesso
Fa core a girgli appresso.
Ah! là basso, là basso,
Diceva il timoroso,
Forse tra sasso e sasso
È un traditor nascoso.
Pur vinto dalla sete
Al rivo avanza il corso;
Ma un palpito a ogni sorso:
Il compagno in quiete
Godè del fresco umore,
Nè vi fu traditore.
Il soverchio temere
Attosca ogni piacere.
XXX.
Il Pesce di
mare e i Pesci di fiume
Ad un pesce marino
Giunto ad un fiume in seno
Si ferono vicino
Tutti in gran festa i pesci;
E il ben venga s' udiva
Suonar da fondo a riva.
Ei restò più d' un mese
Nel novello paese;
Trattato, festeggiato
In questo ed in quel lato,
Così che saggio ei crede
Quivi fermar sua sede.
Intanto giù nel fondo
Un buco ermo e profondo
Trovossi, e quì, dicea,
Più che nel mar cruccioso,
Avrò facil riposo.
Ma i pesci paesani
Non eran più sì umani:
Gli passavan davante
Con aria petulante;
Or l' esca che a lui tocca
Rapivangli di bocca;
Or tessean trame nere;
Or gíano a schiere a schiere
Insulto a fargli e oltraggio
Entro il suo romitaggio.
Tu, cui fra estranie genti
Il lieto ospizio alletta,
Se cittadin diventi,
Sorte simíl t' aspetta.
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