I. 
					La Serpe e il Riccio 
					 
					La serpe velenosa 
					Rampogne al riccio fea, 
					Ch'altre arme non avea 
					Che una scorza spinosa: 
					Ben con arme sì frali 
					Ad assalir tu vali 
					Degl'insetti la plebe 
					Che striscia fra le glebe; 
					O meglio ancor fai guerra 
					Ai grappoli vicini, 
					Fra cui lordo di terra 
					T' avvolgi e ti strascini. 
					 
					E il riccio: Eppure ho sede 
					Esser meco cortese 
					Più che con te natura; 
					Tanto solo mi diede 
					Che basti alle difese: 
					Dolce vita e sicura; 
					Che altrui timor non movo, 
					D'altrui timor non provo. 
					 
					II. 
					Il Delfino e il 
					Letterato 
					 
					Sorse tempesta, e un legno 
					Carco di varie genti 
					Per lo nettunio regno 
					Volser sossopra i venti: 
					Entro i gorghi vicini 
					Albergo avean Delfini, 
					Che corsero, e più d'uno 
					Tolsero all'orco bruno. 
					 
					Un di que' pesci avea 
					Uom che ritorno fea 
					Dal ricco indico mondo 
					Condotto un giorno a riva; 
					Politico profondo, 
					Che vie d' industria intatte 
					Mentre in sua mente apriva 
					A Batavia, a Suratte, 
					Sulla poppa seduto, 
					Era nel mar caduto. 
					Nel tragitto cortese 
					Di più cose il richiese, 
					Onde il capo s'empièo 
					Di commercio europeo. 
					 
					Ora il Delfino istesso 
					A un naufrago fu presso, 
					Che di letteratura 
					Facea suo pasto e cura: 
					A lui, cammin facendo, 
					Leggi tu, lo dimanda, 
					Le gazzette d'Olanda? — 
					Bella! s' io le distendo: 
					Oh! di te parleranno, 
					Amico, almeno un anno. — 
					Vedrai sovente, io credo, 
					Lo Zuiderzée? — Se il vedo! 
					Qual uom! che brio! che mente! . . . 
					Gli è mio gran confidente . . . 
					In udir tal discorso 
					Scotesi il condottiere, 
					E l' impostor dal dorso 
					Lascia nel mar cadere: 
					Tanto fin anche a un pesce 
					Un impostore incresce! 
					 
					La moda il vuol, millantati, 
					Cita l' autore, il tomo: 
					Che importa se confondasi 
					Un golfo con un uomo? 
					 
					III. 
					Le due Colombe di 
					Citera 
					 
					Due colombe avea Citera; 
					Per insolita beltà 
					L' una ha regno, e l' altra impera 
					Per gentil vivacità. 
					 
					Tosto in due la gran coorte 
					Degli augelli si partì; 
					Alla bella altri fe' corte, 
					La vivace altri seguì. 
					 
					Quella incanta il primo giorno, 
					L' altro giorno incanta men, 
					A' vivi occhi, al collo adorno 
					Avvezzando ognun si vien. 
					 
					Questa ognor vie più contento 
					Far sapea ciascun di se, 
					E brillava ogni momento 
					D' alcun novo non so che. 
					 
					Segue il grido, e a lei sen vola 
					Ogni giorno un disertor: 
					Resta alfin la bella sola 
					Senza regno e senza amor. 
					 
					La beltà sempre è la stessa; 
					Ma lo spirto altra ha virtù: 
					D' appagar se quella cessa, 
					Questo appaga ogni dì più. 
					 
					IV. 
					L' Uomo e il Cavallo 
					 
					Uom che la prima volta 
					S' avvenne in un Corsiero 
					Che animoso e leggero 
					Scote la chioma sciolta, 
					Stronca boscaglie e salci, 
					Scaglia a più coppie i calci, 
					Empie le selve e i liti 
					Di sonori nitriti; 
					Quell' uom s' impaurì, 
					E via se ne fuggì. 
					 
					Un' altra volta il vede, 
					Ma con minor paura; 
					Cauto appressando il piede, 
					I moti, la struttura 
					Di contemplar gli giova; 
					La terza volta il trova 
					Mentre a farsi satollo 
					Pe' larghi campi attende, 
					Gli gitta un laccio al collo, 
					E ad obbedir gli apprende. 
					 
					Oggi soffrir t' è greve 
					Ciò ch' è nojoso e brutto? 
					Lo soffrirai tra breve: 
					L' uomo s' avvezza a tutto. 
					 
					V. 
					Il Merlo fra gli 
					Usignuoli 
					 
					Visse già un merlo gran seccatore, 
					Sfrontato e negro come un dottore, 
					Che penetrando nel bosco dove 
					Fean gli Usignuoli musiche prove, 
					In mezzo a quelli l' ale movea, 
					E le lor note talor rompea 
					Con certi asmatici suoi tuoni monchi 
					Da mover rabbia perfin ne' tronchi. 
					 
					Un usignuolo perdè la flemma; 
					Ed, ecco, amici, disse, un dilemma: 
					O da noi lunge costui si stia, 
					O più non s' ode la voce mia. 
					 
					Ma men focoso con tali accenti 
					Un altro tutti rese contenti: 
					Tra noi si resti, chè ne compensa 
					Delle sue noje più che non pensa: 
					Finchè rimpetto costui tenghiamo, 
					Meglio n' è dato sentir chi siamo. 
					 
					VI. 
					Il Cardellino 
					 
					Un cardellino grato a un nocchiero 
					Con lui fe' il giro del mondo intero 
					Stette sull' ancore l'europèo legno 
					Presso le piagge d'indico regno: 
					Quivi volavano lungo la sponda 
					Augei scherzando tra fronda e fronda, 
					E vestian piume leggiadre assai, 
					Piume in Europa non viste mai. 
					 
					Il Cardellino riguarda e gode, 
					E aspetta il canto, ma ancor non l' ode. 
					Più giorni passano; tornano ancora 
					Gli augei per gli alberi tacendo ognora. 
					 
					Il forestiero si pone in testa, 
					Che d'oltremare moda sia questa; 
					La moda piacegli: riede ove nacque, 
					E finchè visse, sempre si tacque; 
					Ed alla madre che lo rampogna: 
					Del tuo silenzio non hai vergogna? 
					Tal solea grave risposta dare: 
					È nova moda presa oltremare. 
					 
					Quanti oggi trovansi fra noi messeri, 
					Che il peggio tolsero dagli stranieri! 
					 
					VII. 
					I Topini 
					 
					Nella lingua ch' Esopo 
					Primo intese fra noi 
					Cosi parlava un topo 
					A due de' figli suoi: 
					Del nemico al ritratto 
					Mente, o figli, ponete, 
					E a fuggirlo apprendete. 
					Un mostro orrendo é il Gatto: 
					Occhi che gittan foco; 
					Eternamente ingorda 
					Bocca di sangue lorda, 
					Entro cui denti han loco 
					Che ignorano quíete; 
					A' piè feroci artigli: 
					Ecco il ritratto, o sigli; 
					A fuggirlo apprendete. 
					Piange, sì detto, e tace, 
					E li congeda in pace. 
					 
					La copia fanciullesca 
					Cerca fortuna ed esca: 
					Un dì mentre all' amore 
					Fea con un caciofiore, 
					A un tratto nella stanza 
					Vispo gattin s' avanza; 
					Buffoneggiando và, 
					Corre quà, corre là, 
					Salta, volteggia, e ogn' atto 
					È un vezzo, è un giocolino: 
					Non é già questo un Gatto, 
					Van dicendo coloro 
					Intenti a' satti loro. 
					 
					Ma l' amabil Micino 
					D' improvviso si slancia, 
					Uno afferrò alla pancia 
					Colle zampe scherzose, 
					E l' altro in fuga pose; 
					Il qual per la paura 
					Si chiuse in buca oscura, 
					E prima che morisse, 
					Padre, di fame io pero, 
					O padre, tra se disse, 
					Tu non dicesti il vero. 
					 
					Mal prendi a colorire 
					Deforme il vizio ognora; 
					Mostra che sa vestire 
					Ridenti forme ancora. 
					 
					VIII. 
					Il Garofano 
					 
					 
					Disse un garofano, dal vaso ov' era, 
					Passar Licoride veggendo a sera, 
					Bella cui scherzano trecce d' or fine 
					Del collo latteo sotto il confine: 
					Anzi che in terrea prigion, radice 
					Su quel crin mettere che non mi lice? 
					La Ninsa udendolo, lo coglie, e tosto 
					In grembo agli aurei capei l' ha posto. 
					Il fior ne giubbila, e ad ogni istante 
					Di se fa l' aere vie più fragrante. 
					 
					Quella entro splendida festiva stanza 
					Va dove apprestasi frequente danza; 
					E già dell' agile piè i moti fanno. 
					Ch' alto scotendosi le treccie vanno; 
					Appar l' eburnea fronte già molle, 
					Più notte avanzasi, l' aria più bolle. 
					Quand' ecco accorgersi, sorpreso il fiore, 
					Che tenue esalano sue foglie odore; 
					Che tutto il perdono: geme, s' adira, 
					Langue, scolorasi, si piega e spira. 
					Fior che precipiti ratto al tuo occaso, 
					Meglio non erati restar nel vaso? 
					 
					Ridi all' immagine del fior sì strana? 
					Quanto somiglialo la specie umana! 
					Che là ve' credesi fondar sua sorte, 
					Talor l' assalgono sciagure o morte. 
					 
					IX. 
					Il Gallo d'India e 
					il Colombo 
					 
					Desïando un Gallo indiano 
					Esser caro a Pavonessa, 
					Di un tenor di modi strano 
					Si valea parlando ad essa: 
					Le dicea lodi sonore 
					Non del vario e bel colore 
					Onde piaccion le sue penne: 
					Panegirico solenne 
					Fea de' piè, che immago sono 
					Di nodosi aridi stecchi; 
					E dicea: tua voce ha un suono, 
					Che m' è balsamo agli orecchi. 
					 
					Su dal tetto un buon Colombo 
					Tal di lodi udia rimbombo; 
					Scende e grida: altro non puoi 
					Encomiar, se encomiar vuoi? 
					Quei si scosta dalla bella, 
					E pian piano gli favella: 
					Oh con quanti un miglior modo 
					D' esser caro non si dà! 
					Non è in lei quel che in lei lodo? 
					Che vi sia creder godrà. 
					 
					X. 
					Il Ministro e il 
					Favorito 
					 
					Un pover uomo di merti pieno 
					Di come vivere chiedeva almeno; 
					E a lui chiudendosi le regie sedi, 
					Va del ministro del prence a' piedi: 
					Più d'un gli narra sinistro caso, 
					Ricorda i meriti; l' ha persuaso: 
					Quegli al re parla, spera alcun bene; 
					Ma il tempo passa, l'uom nulla ottiene. 
					Un favorito quel prence avea; 
					E il bisognoso non lo sapea: 
					Il buon ministro parlava assai, 
					Ma il favorito non parlò mai. 
					 
					Se alla ragione d' alcun i' appelli, 
					Nè aprirti al core la via procuri; 
					Tu col ministro del re favelli, 
					E il favorito del re trascuri. 
					 
					XI. 
					La Mosca e l' Ape 
					 
					Una mosca un di girare 
					Volle intorno a un alveare, 
					Osservando i varj uffici 
					Delle attente operatrici: 
					Indi a poco a quella sede 
					Appressarsi un villan vede, 
					Minacciar d' esiglio e morte 
					La regina e la sua corte, 
					E rapina far crudele 
					Di lor cera e di lor mele. 
					 
					Sclamò allor mossa da sdegno: 
					A che dunque opra ed ingegno 
					Consumar, se la fatica 
					Man raccoglie a voi nemica? 
					Il lavor che indarno avanza, 
					Col vostr' uopo si misuri, 
					E dell' api l' abbondanza 
					Chi la vuol, la si procuri. 
					 
					La regina a lei si accosta, 
					E in tai detti sa risposta: 
					 
					Non mai l'ape diligente 
					I sudori indarno ha sparsi: 
					Infelice chi non sente 
					Il bisogno d' occuparsi! 
					 
					XII. 
					Il Leone e il Coniglio 
					 
					Venne un coniglio ammesso 
					Al desco leonino, 
					Onor che il pardo istesso 
					Riceve a capo chino. 
					Nell' aulico consesso 
					La scimmia mai non manca, 
					Che della mensa appié. 
					Quando de' cibi é stanca, 
					Fa da buffone al re. 
					La volpe v' è che attende 
					Pel re vivande a scerre, 
					E a divertirlo prende 
					Nel tempo del deserre; 
					E i corridori cervi 
					Fan quel che i paggi e i servi. 
					Il coniglio vi su 
					Due volte, e poi non più. 
					 
					Ma il re fra i grandi sui, 
					Dir non so come, un giorno 
					Si risovvien di lui, 
					E il chiama a se davante. 
					Quello al real soggiorno 
					Viene con piè tremante. 
					E il Leon: chi dispregia 
					Cosi mia mensa regia, 
					Pute omai d'insolenza: 
					Quello una riverenza, 
					E tace; il re seguia, 
					Ragion da lui chiedendo: 
					E quello un altro inchino, 
					E poi: Se la natía 
					Uso sincerità, 
					Non io far torto intendo 
					A vostra maestà: 
					Ben al real destino 
					Risponde vostra mensa; 
					Quai beni non dispensa? 
					Ma quel ruggir che fate 
					Del pranzo in sul più bello, 
					Quelle occhiate infiammate, 
					Quell'ir scotendo il vello, 
					Quell' aguzzar gli artigli. . . 
					Sire . . .  con permissione, 
					Produce ne' Conigli 
					Pessima digestione. 
					 
					Spesso compagno é al danno 
					L' onor che i grandi fanno: 
					De' pari ti contenta, 
					E il Coniglio rammenta. 
					 
					XIII. 
					Il Cane e il Quadro 
					 
					Non so dove un vecchio Cane 
					Giva un dì pe' fatti sui 
					Ricercando a fiuto il pane, 
					Quando scopre un quadro in cui 
					Tre mastini eran dipinti 
					Cruda guerra a farsi accinti. 
					 
					A mirar riman lung' ora, 
					Poi: così pugnato ho anch' io; 
					Ma suggeva il latte ancora, 
					E già contro al fratel mio 
					Ogni giorno il buon padrone 
					M'aïzzava a far tenzone. 
					 
					In fanciul per riso o gioco 
					Non destar dell' ira il foco; 
					Perchè norma ognor desume 
					Da quei dì l'uman costume. 
					 
					XIV. 
					I Castelli in aria 
					 
					Una sera al socolare 
					Si sedean Dorillo e Nina: 
					Ei dicea, veder regina 
					Ti vorrei di terra e mar: 
					 
					Di superbe vesti adorna 
					E di gemme preziose . . . 
					Ma perchè, Nina rispose, 
					L'impossibile bramar? 
					 
					Se formar desiri godi, 
					Brama il prato ognor più erboso, 
					Brama il gregge numeroso; 
					Quello alfin che aver si può. 
					 
					A che prò, l'altro risposo, 
					Se provai finor bramando, 
					Che il piacer vien meno quando 
					L'alma ottien quel che bramò? 
					 
					XV. 
					Il Cocchio 
					 
					Senti che strepito di ferree ruote! 
					Flagel continuo l'aria percote: 
					Che sia? dispacciasi la via davante 
					Al rapidissimo romoreggiante: 
					Già mille girano pe' capi accesi 
					Nomi di principi, duchi e marchesi: 
					Quanti occhi fissansi! quanti pié in moto! . . . 
					Gli è un cocchio a dodici posti, ma vuoto. 
					 
					Molti fra gli uomini più chiari io vidi 
					Di cocchio simile ritratti fidi. 
					 
					XVI. 
					L' Avoltojo e il Cigno 
					 
					Avoltojo nel mondo 
					Chiaro per cento prede 
					D' un' erma valle in fondo 
					Giovane cigno vede; 
					Ratto ver lui discende, 
					E il fero artiglio stende: 
					Quei si rannicchia a terra, 
					E china l' ali, e dice: 
					A che muover vuoi guerra 
					A un augello inselice? 
					Con sì facil vittoria 
					Tu non acquisti gloria. 
					 
					Ma l' altro al cigno, e il prese 
					Fra l' adunch' arme intanto: 
					Io colle grandi imprese 
					So procacciarmi vanto, 
					Stancando artiglj ed ale; 
					Ma queste più leggiere 
					Servono al mio piacere: 
					Egli è poi sì gran male 
					Qualche cigno di meno? 
					Di cigni il mondo è pieno. 
					 
					Così su gli altrui danni 
					Ragionano i tiranni. 
					 
					XVII. 
					Il Cinghiale Gravido 
					 
					Gran novella! in gran pensiere 
					È lo stuol degli animali; 
					Nè avea torto, a mio parere, 
					Chè son rari eventi tali: 
					Un Cinghiale a più d' un segno 
					Giudicato venne pregno. 
					 
					Chiama tosto il re Leone 
					I vassalli a radunanza; 
					Chè trovar desia ragione 
					Di sì strana gravidanza: 
					E il famoso tumescente 
					Tratto è in mezzo a tanta gente. 
					 
					Bello fu l' udire il vario 
					Ragionar di quello e questo; 
					Chi con medico frasario 
					Fea del come un manifesto; 
					Chi rivolto al ciel, pensava; 
					Chi guatava, chi toccava. 
					 
					Ma del re per tal consulto 
					Non è paga ancor la brama: 
					Cresce il dubbio ed il tumulto, 
					Che sarà? ciascuno esclama; 
					E ciascun segue al cervello 
					Indagando a dar martello. 
					 
					Quando alfin dell' Elefante 
					Tal fu il saggio sentimento: 
					A che pro tai cure e tante 
					A spiegar sì oscuro evento? 
					Partorisca alla buon' ora; 
					Spiegheremo il parto allora. 
					 
					XVIII. 
					Il Canarino e il Gatto 
					 
					Il Canarino: 
					Che non mi dice, che non mi dona! 
					Quante finezze dalla padrona! 
					Io son, sì bello gli é il mio destino, 
					Re degli augelli, non Canarino. 
					 
					Il Gatto: 
					Tieni tua sorte; m' è dilettosa 
					Della fantesca la man callosa: 
					Goffo! a carezze tu presti fede, 
					Che fansi a quello che in don, ti diede. 
					 
					Spesso taluno lodi si piglia 
					Da sè lontane le mille miglia. 
					 
					XIX. 
					Il 
					Passerotto e la Passera vecchia 
					 
					Degli augelli l' amore 
					Divenne giovin passerotto un giorno: 
					Occhiata di favore 
					A lui volgeva l' aquila orgogliosa, 
					E a fargli festa gli scherzava intorno 
					La Colomba amorosa. 
					Era umile da prima in tanta gloria. 
					Poi tosto superbì: battendo l' ali 
					Lo strepito affettava di vittoria 
					De' magnati pennuti; 
					Sprezzator degli uguali 
					Passava innanzi, e non rendea saluti. 
					Sciolse finanche il canto 
					Senza vergogna all' Usignuolo accanto; 
					Alfìn così divenne 
					Impertinente, tumido, importuno, 
					Che fu, qual pria l' amor, l' odio d' ognuno. 
					 
					Confuso ed avvilito 
					In una vecchia Passera s' avvenne: 
					Perchè sgridato io son, perchè schernito? 
					Qual degli augei fra il coro 
					Serbar tenor di vita io potea mai? 
					E non è colpa loro, 
					Se in me tanti bei pregi io ravvisai? 
					E la Passera a lui: 
					È sommo rischio il favor sommo altrui; 
					E di goderlo non convien dar segno; 
					Ma comparirne degno. 
					 
					XX. 
					L'Alveare e l'Oriuolo 
					 
					Come io non so, so ben che un Alveare 
					Da un Oriuol non si trovò lontano, 
					E come udito avevane a parlare 
					(Chè n'ha il grillo a dì nostri anche il villano) 
					Qual d' opra in cui mirabilmente appare 
					Tutta la forza dell' ingegno umano, 
					Lungora fiso fiso il contemplò; 
					E poi pien di baldanza incominciò: 
					 
					Tu dunque sei quell' opera stupenda 
					Che regina fra tutte esser si dice? 
					Di più semplici modi in me si prenda 
					Esempio assai più bello e più felice: 
					Quanto conviensi che il tuo fabbro apprenda 
					Dalla schiera di me fabbricatrice! 
					Sì parla in tuon sicuro e in atto regio, 
					E il guarda con altissimo dispregio. 
					 
					L'altro tacer potea: ragion ben franca 
					Dà spesso col tacer risposte belle; 
					Ma più sovente ancora il savio manca, 
					Se si senta ferire oltra ha pelle: 
					Or come un baccellier di Salamanca 
					L' Oriuolo sua voce alza alle stelle: 
					Fu inver prolisso alquanto al par ch' enfatico; 
					Ma lice a chi ben parla essere asiatico. 
					 
					Non ti sprezz' io come tu me; qual opra 
					Peregrinta e gentile anzi t' onoro; 
					Ma non dirò che merito si scopra 
					Eguale a quel ch' è in me nel tuo lavoro; 
					Son l' api industri, e molto senno adopra 
					In mirabil fatica anche il Castoro; 
					Ma il merto loro al merto uman rimpetto 
					Nella parte miglior trovo in difetto. 
					 
					Ciò che fan l' api tue, guidate il fanno 
					Da necessario istinto: a' lor sudori 
					Tempo, figura, idea cangiar non sanno, 
					E ministri son solo e non autori; 
					Lor potrai lodi dar come si donno 
					Agli alberi che portan frutta e fiori; 
					E il merto è in lor ch' hanno le stelle e il sole, 
					Che mandan luce alla terrestre mole. 
					 
					Non si palesa in lor verace ingegno, 
					Ma traccia sol di tale ingegno impressa: 
					E di che lode mai fabbro fia degno 
					Il qual ripeta ognor l' immago istessa? 
					Qui 'l confuso Alvear fa all' Api un segno, 
					Che ronzan sì che alfin l' aringa cessa: 
					E tal suole aver fine ogni quistione, 
					Che mena più romor chi ha men ragione. 
					 
					Distingui il merto, che minore è dove 
					La mente o il cor necessità sol move. 
					 
					XXI. 
					Le due Scimmie e 
					il Lucciolone 
					 
					Benché fossero alle spalle 
					Dell' inverno i dì ridenti, 
					Eran bianchi e poggio e valle 
					Di notturne brine algenti. 
					Or due Scimmie, intirizzite 
					Per l' acuta aria nevosa, 
					A ricovero eran gite 
					Sovra pianta assai ramosa; 
					Ma sì tremano, che sonno 
					Ritrovare ancor non ponno. 
					 
					Quando al foco, grida, al foco, 
					La più giovane accennando 
					Una siepe; e sì gridando 
					Spicca un salto, e corre al loco 
					Dove vivida favilla 
					Fra i cespugli luccicante 
					Ha ferito la pupilla 
					Dell' afflitta vigilante. 
					L' altra ancor discende, e adropra 
					Denti e piedi; un buon fastello 
					Fan di salci, e il pongon sopra 
					All' ardente carboncello; 
					Nè vi manca un po' di paglia, 
					Perchè fiamma tosto saglia. 
					 
					Ecco entrambe a terra chine 
					Con tal forza soffiar drento, 
					Che non fan nelle fucine 
					Forse i mantici più vento. 
					Muso intanto avean sì fatto 
					Per la scarna guancia enfiata, 
					Che da Eraclito avrían tratto 
					Senza stento una risata: 
					Ma già soffìasi da un' ora, 
					Nè s' accende il foco ancora. 
					 
					Cangian paglia, cangian salci, 
					Al fastello aggiungon tralci; 
					Soffia, amica, il legno è asciutto; 
					Ma si soffia senza frutto. 
					 
					Quando alfine entra in sospetto 
					La men giovane più scaltra; 
					Meglio guarda, e con dispetto, 
					A che soffi? dice all' altra, 
					È un malnato Lucciolone, 
					Ch' abbiam preso per carbone. 
					 
					Tal più d' un che soffia, e il petto 
					Vuol da Apolline infiammato, 
					Per carbon prende un insetto, 
					Perde il tempo e gitta il fiato. 
					 
					XXII. 
					L' Aquila, 
					la Lepre e lo Scarafaggio 
					 
					Da un' Aquila affamata 
					La Lepre era cacciata, 
					E dimandò d' ajuto 
					Un vecchio Scarafaggio 
					Che le venne veduto: 
					Ne' perigli più brutti 
					Hassi ricorso a tutti. 
					Quello si fe' coraggio, 
					E alla fiera regina, 
					Che la preda vicina 
					Coll' ugne già fería: 
					Deh! la vita perdona 
					Alla lepre meschina, 
					Ch' è molto cosa mia. 
					Mentr' ei così ragiona, 
					Colei la Lepre uccide, 
					La si divora e ride. 
					 
					L'intercessore afllitto 
					Si stette zitto zitto; 
					Ma il loco e l' ora aspetta 
					A pigliarsi vendetta. 
					A tempo il nido spia 
					Dell' Aquila ove sia; 
					Indi il momento trova 
					Ch' ell' ita era a far guerra, 
					E vola al nido, e l' uova 
					Precipitar fa in terra. 
					 
					XXIII. 
					L' Ananasso e la 
					Fragola 
					 
					Tratta a un giardino la ben succosa 
					Della montagna Fraga odorosa, 
					In chiusi vetri s' avea vicino 
					Un Ananasso oltramarino, 
					Che l' altre frutta guarda sovrano, 
					Come i suoi schiavi guarda il Sultano, 
					E ch' alto disse: rimpetto a me 
					Alla vil Fraga loco si diè? 
					 
					La Fragoletta non si confonde, 
					E in sua modestia così risponde: 
					Signor, perdona; forse il pensiero 
					Io t' indovino del giardiniero: 
					Quì vuolmi a fede far più sicura, 
					Che più dell' Arte vale Natura. 
					 
					XXIV. 
					La Lucertola e il 
					Coccodrillo 
					 
					Una Lucertoletta 
					Diceva al Coccodrillo: 
					Oh quanto mi diletta 
					Di veder finalmente 
					Un della mia famiglia 
					Sì grande e sì potente! 
					Ho fatto mille miglia 
					Per venirvi a vedere. 
					Sire, tra noi si serba 
					Di voi memoria viva; 
					Benchè fuggiam tra l' erba 
					E il sassoso sentiero, 
					In sen però non langue 
					L' onor del prisco sangue. 
					L' anfibio re dormiva 
					A questi complimenti; 
					Pur sugli ultimi accenti 
					Dal sonno si riscosse, 
					E addimandò chi fosse. 
					La parentela antica, 
					Il camin, la fatica 
					Quella gli torna a dire: 
					Ed ei torna a dormire. 
					 
					Lascia i grandi e i Potenti 
					Di sognar per parenti: 
					Puoi cortesi stimarli, 
					Se dormon mentre parli. 
					 
					XXV. 
					La Lucarina 
					 
					Giva una Lucarina 
					Dicendo ad ogni augello 
					(Ah semplice augellina!) 
					Io de' figli ho il più bello; 
					Venitelo a vedere, 
					Che vi darà piacere. 
					Non anco é ben piumoso, 
					Ma é festoso, é scherzoso, 
					Becca, saltella ed ha 
					La grazia e la beltà: 
					Venitelo a vedere, 
					Che vi darà piacere. 
					Dicealo ai buoni ognora, 
					Ed ai malvagi ancora. 
					Più d' un augello andò, 
					E il vero ritrovò. 
					 
					Tornando una mattina 
					L' ingenua Lucarina 
					Da un campo seminato 
					Del favorito miglio, 
					Nel nido insanguinato 
					Più non ritrova il figlio. 
					 
					T' è caro il ben che godi? 
					Guarda con chi lo Iodi. 
					 
					XXVI. 
					I due Viaggiatori 
					 
					Due vilissimi insetti 
					Si fecero coraggio, 
					E da' natii boschetti 
					Si posero in vïaggio, 
					Dicendo: Ove si ha cuna 
					Non si fa mai fortuna; 
					Noi qui dobbiam languire 
					Tra la plebe più bassa, 
					O sotto il piè perire 
					D' un animal che passa: 
					Viaggiamo, usciam di guai, 
					Il mondo è grande assai. 
					 
					Scorser di fronda in fronda 
					Tutta la patria sponda; 
					Dopo la terza aurora 
					Toccan selva straniera, 
					Ove d' insetti è schiera 
					Di lor più vili ancora, 
					Che tra l' erba frequente 
					Striscian timidamente: 
					Nè pastor mai, nè belva 
					Pon piede in quella selva. 
					 
					Oh sì! fra queste piante, 
					Disser gl' insetti arditi, 
					Posiamo il passo errante; 
					Qui non vivrem romiti; 
					Avrem sicuro impero 
					D' insetti sopra un gregge; 
					Noi detterem qui legge: 
					E regnano da vero 
					Sugl' insetti minori 
					Gl' insetti viaggiatori. 
					 
					Quanti veggiamo, oh quanti! 
					Insetti ove son nati, 
					Fra stranieri ignoranti 
					Ergersi letterati! 
					 
					XXVII. 
					La Neve di Marzo 
					e un Fioretto 
					 
					Ad un tenero Fioretto 
					Che fai qui? dicea la Neve 
					Scesa in marzo sul poggetto; 
					La tua vita fia pur breve! 
					Perchè mai nascer sì presto? 
					Spesso ai fior marzo è funesto. 
					Le rispose il fior gentile: 
					Aspettava il Sol d' Aprile; 
					Vivo, e in copia il succo interno 
					Femmi uscir col fin del verno; 
					Se il tuo gel mi dà la morte, 
					Ho servito alla mia sorte. 
					 
					Su quel poggio era un pastore, 
					Che pietà sentì del fiore, 
					E con pronta mano e lieve 
					Fe' dal Fior lunge la Neve; 
					E di giunchi a chiusa cella 
					Affidò la pianticella, 
					Sì che giunse il fior gentile 
					A vedere il Sol d' aprile. 
					 
					Virtù, sollecita 
					Previeni gli anni; 
					Nè ti spaventino 
					D' invidia i danni. 
					 
					Temi che manchinti 
					Pietosi cuori, 
					Se ne trovarono 
					Gli stessi fiori? 
					 
					XXVIII. 
					La Rosa e la Ruggiada 
					 
					Il Fiore più orgoglioso 
					De' giardini e il più adorno 
					Alla Ruggiada un giorno 
					Fieramente sdegnoso 
					Così parlar s' udía: 
					Quando su me discendi, 
					Perchè, se ti raccendi 
					Della porpora mia, 
					Ami poscia de' fiori 
					Sulla varia famiglia 
					Varj prender colori, 
					Gialla sulla giunchiglia, 
					Bianca sul gelsomino; 
					Nè ricusi persino 
					Di rinverdir sull' erba? 
					Io già non son superba, 
					Ma te non vo' comune 
					Cogli altri fior più vili; 
					Eh pregia tue fortune! 
					I colori gentili, 
					Ond' io t' adorno, serba 
					Fatti per sempre tuoi; 
					E poi . . .  portali poi 
					Anche sull' umil erba. 
					 
					La Ruggiada rispose: 
					Io so pregiar le rose; 
					Ma immutabil nè novo 
					Il mio costume è questo: 
					Io del color mi vesto 
					Del loco ove mi trovo. 
					 
					II facile piegarsi 
					Ai caratteri vari 
					Chi amabile vuol farsi 
					Dalla Ruggiada impari. 
					 
					XXIX. 
					I due Cerbiatti 
					 
					Due giovani Cerbiatti 
					Insieme assuefatti 
					Givano al fonte uniti 
					Ed a' cespi romiti, 
					Stavansi uniti al rezzo 
					Delle folte pendici 
					Agli altri cervi in mezzo; 
					Eran due veri amici. 
					Ma l' uno era animoso, 
					E l' altro timoroso; 
					Così che ad ogni auretta 
					Sentirsi la saetta 
					Già nel fianco credea; 
					E temendo bevea, 
					Temendo si cibava, 
					Temendo riposava. 
					 
					Agosto viene, ai fonti 
					Mancan gli umori usati; 
					Erran per valli e monti 
					I Cerbiatti assetati: 
					Di guida al timoroso 
					Serve il cervo animoso, 
					E con sicuro piede 
					Di più passi il precede: 
					Alfin tra grotte cupe 
					Di là da un' erta rupe 
					Scopre il rumor diletto 
					Di un fresco ruscelletto: 
					Ecco in due salti arriva 
					Sulla bramata riva; 
					E al compagno perplesso 
					Fa core a girgli appresso. 
					 
					Ah! là basso, là basso, 
					Diceva il timoroso, 
					Forse tra sasso e sasso 
					È un traditor nascoso. 
					Pur vinto dalla sete 
					Al rivo avanza il corso; 
					Ma un palpito a ogni sorso: 
					Il compagno in quiete 
					Godè del fresco umore, 
					Nè vi fu traditore. 
					 
					Il soverchio temere 
					Attosca ogni piacere. 
					 
					XXX. 
					Il Pesce di 
					mare e i Pesci di fiume 
					 
					Ad un pesce marino 
					Giunto ad un fiume in seno 
					Si ferono vicino 
					Tutti in gran festa i pesci; 
					E il ben venga s' udiva 
					Suonar da fondo a riva. 
					 
					Ei restò più d' un mese 
					Nel novello paese; 
					Trattato, festeggiato 
					In questo ed in quel lato, 
					Così che saggio ei crede 
					Quivi fermar sua sede. 
					 
					Intanto giù nel fondo 
					Un buco ermo e profondo 
					Trovossi, e quì, dicea, 
					Più che nel mar cruccioso, 
					Avrò facil riposo. 
					 
					Ma i pesci paesani 
					Non eran più sì umani: 
					Gli passavan davante 
					Con aria petulante; 
					Or l' esca che a lui tocca 
					Rapivangli di bocca; 
					Or tessean trame nere; 
					Or gíano a schiere a schiere 
					Insulto a fargli e oltraggio 
					Entro il suo romitaggio. 
					 
					Tu, cui fra estranie genti 
					Il lieto ospizio alletta, 
					Se cittadin diventi, 
					Sorte simíl t' aspetta. 
					 
					 
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