Favole II.
 




Favole di
Gaetano Pérego

Milano 1830


 
Favole I.
 
Gli Animali in disputa su la felicità
La Volpe saggia
L' Orsacchino e l' Augello
Il Maestro e gli Scolari, o il detto di Piatone
La Gallina e i Pulcini
Il Puledro
Il Leone e il Leopardo
Il Canarino
Il Lione e la Volpe
Il Ranocchio e il Tigre
I due Ragni
La Passera e il Passerino
Il Lupo e i Lupicini
I due Carri e i Buoi
L'Aquilotto e la Lodola
Lo Scimiotto e le Scimie avventuriere
I tre Ragni
I due Cavalli

I.
Gli Animali in disputa su la felicità

Un can magro, villan, burbero, irsuto,
Ch' era di setta Cinico mordace,
Viveasi in un villaggio;
E sè chiamando sol beato e saggio,
Con superbo disprezzo
D'aspri insulti ad ognun recava oltraggio:
Quando nel porco essendosi avvenuto,
Che fido d' Epicuro era seguace,
Uh! qual puzzo or ne vien? disse abbajando;
Sucido animalaccio,
Ma dimmi, e infino a quando
Avvolto ti starai così nel lezzo
Senza cangiar mai vezzo?

Guardollo il porco; e, suso
Dal fango alzato un cotal poco il muso,
Rispose sbadigliando:
Misero è bene chi si prende impaccio
De' fatti altrui; ma per esser felice
Io vo seguendo ognor ciò che mi piace;
E ciò che piace, lice.

Stava non lungi agli empj detti intento
Un irco d' età grave e di consiglio,
Il quale, perchè avea gran barba al mento,
Ed irto sopracciglio,
D'esser credeva Stoico perfetto:
Quindi con bieco ciglio,
Olà! che ascolto? ei disse, e quale insano
Parlar? se voi felici esser sperate,
Credete a me, voi lo sperate in vano.
Del tutto in pria spegner si vuole in petto
Ogni moto, ogni senso ed ogni affetto.
Da me senno imparate.
Voglie mai per vicende io non alterno:
Chiara sia l' aria o bruna,
Sia state o ver sia verno,
Senza curar di tempi o di fortuna,
Sempre lo stesso io sono,
Nè a duol nè a gioja in braccio io m'abbandono.

Folle chi presta fede ai detti tuoi!
Sì, la chioma scotendo e il capo altero,
Gridò nobil destriero:
Chi non sa ch' altro dici, ed altro vuoi?
Ben dentro a regie stalle
Viver felice io spero:
A me si mieterà l'erbosa valle;
Io poi n' andrò di ricchi fregi adorno;
E le cupide ciglia
In me volgendo pien di meraviglia
Quai farà plausi il volgo a me d'intorno?

Ma cotesti tuoi fregi,
Che tu cotanto or pregi,
A dirgli prese un semplicetto agnello,
Servo all' altrui voler non ti faranno?
Oh falso onor tiranno,
Come ancora a chi sa togli il cervello!
Benché povera e romita,
Più felice è la mia vita.
Or di sotto agli arboscelli
Io m'assido, e godo intanto
De' pastori e degli augelli
Ascoltare il dolce canto;
Or del monte in sul pendio
Vo pascendo erbette e fiori;
Or di schietto argenteo rio
Vo gustando i freschi umori....

Qui ti voleva, e sì di te mi rido;
L'interruppe il destrier; che ancor s' addita
Il noto fonte, ove da un lupo infido
Sbranato un tuo german perdéo la vita.
Tu pur di sorte uguale ognor paventi,
E tu chiami i tuoi dì lieti e contenti?

Di questi la contesa
Udiro altri animali, e in pochi istanti
Disputa generale alfin s' è accesa.
Del pari ognun desia d' esser felice:
Quali però non fan sistemi e quanti!
Pur, se dirlo mi lice.
Molto maggiori ancor ne facciam noi:
Ma felici siam poi?

II.
La Volpe saggia

Già d'Esopo gli eroi
(Voglio dir gli animali)
Parlavan forse ancor meglio di noi
Con sentenze morali:
E appunto di quei dì si ritrovato
Uniti in concistoro
Il cane, il bue, il cavallo ed il somaro;
E così fersi a ragionar tra loro.
Primiero il can mette un sospiro, e dice:
Son io pur infelice!
Di notte io fo la guardia; e poi (qual pena!)
Sto il giorno alla catena;
E al fin che mi guadagno?Pochi ossi e muffo pane.

Io sì, soggiunse il bue rivolto al cane,
Del mio destin con più ragion mi lagno.
Almen tu non ti stanchi;
Ed io, l'aratro, il solco,
Il carro, e del bifolco
Sempre il pungolo ai fianchi....
Oh ciel! che stenti per un po' di fieno!

Ma tu nel verno almeno
Ti riposi, ripiglia
Tosto a dire il cavallo; ed io la briglia
Ad ognora ho sul collo, e in bocca il morso,
E il cavalier sul dorso;
E di Marte tra i figli
Mi toccan della guerra anco i perigli.

Un bel morir tutta la vita onora;
L' asino esclama allora:
Ma come tutti, oimè! gli affanni miei
Descrivere io potrei?
Per dir ch' uno la sorte abbia nemica,
Un somaro si dica.

Di là una volpe vecchia
Passò in quel mentre; ed, Oh! dissero a lei.
Per breve tempo a noi porgi l'orecchia.
Noi siam tutti infelici; or tu che sei
Sì accorta, tu ne addita
Il più facil cammino
Per trarre omai felice appien la vita.

Disse la volpe saggia:
Su via, s' appaghi ognun del suo destino,
Ché peggio non gli accaggia.
In mia sì lunga etade
Molto io vidi ed intesi;
Molte ho scorse contrade:
Al fin sol questo appresi,
Che per tutto vi son pene e lamenti,
Per tutto egri e dolenti.
No, però non vi sia chi si prometta
Su questo suol felicità perfetta.

III.
L' Orsacchino e l' Augello

Della tana petrosa
   Su la soglia muscosa
   Gemeva un orsacchino
   Con un suon sì dolente;
   Che dal bosco vicino
   Pietà un augel ne sente.
   Qual sia stato l' augello,
   Incerta n' è la fama;
   Chi lo dice un fanello,
   Chi un cardellino il chiama.
   Basta; qualunque ei fosse,
   Vêr l' orsacchin si mosse
   Dicendo: Ond' è che piagni?
   Forse da fame oppresso
   De' genitor ti lagni,
   Ch' io vidi adesso adesso
   Là penetrar nel fosco
   Di quel solingo bosco?
Quei, ch' ode il caro nome,
   S' allegra, e dice: Ah come
   Dolermi io mai potrei
   De' genitori miei?
   Se di me cura hann' essi
   Vie più che di sè stessi.
              AUGELLO
Dunque a che turbi i venti
   Con sì lunghi lamenti?
             ORSACCHINO
Quando lungi sen vanno
   Sempre così m'affanno;
   E infin che fan ritorno
   Qui sto guardando intorno,
   E coi gridi li chiamo.
   Nè ti stupire: io gli amo.
Plauso fe' colle penne
   L'augel, che si sovvenne
   De' primi giorni sui,
   E così disse a lui:
   Ah lo stesso io facea,
   Allor ch'io pure avea
   E l' amoroso padre
   E la tenera madre:
   Chè, se restava solo,
   Del nido in su l' uscinolo
   Con lungo pigolío
   Così gemeva anch' io.
Il filïale affetto
   Tal dunque ha forza fin de' bruti in petto!
   Figli, e voi che sì bello avete il core,
   Ai genitor qual non dovete amore?

IV.
Il Maestro e gli Scolari, o il detto di Piatone

Scrivasi; disse un giorno a' suoi scolari
   Un dotto precettore
   Che con l'amor temprar sapea il rigore;
   Scrivasi; e un gran dover da voi s' impari.
   Cessa al suo dir sul punto ogni bisbiglio:
   Ciascun l'orecchio tende;
   Pronta in mano ha la penna, attento il ciglio;
   Ed egli così loro a dettar prende:
   Oggi non sono io no che vi consigli.
   Platone a voi favella: è breve il detto;
   Voi lo scolpite in petto.
La madre, il padre in casa avete, o figli?
   O i lor vecchi parenti?
   Quai divìn simulacri
   Cari gli abbiate, e venerandi e sacri;
   Più benefìci Numi a voi presentì,
   Se lor, qual si convien, culto rendete,
   Aver già non potete
. —
   Qui tacque; e un po' rimaso
   Sovra pensier; soggiunse: È proprio il caso
   Per voi la gran sentenza. In verso o in prosa
   Fatele voi la chiosa.
Ma, Sesto, olà! che vidi?
   Guardi sott' occhio, abbassi il capo e ridi?
   E Alconte; il veggo Alconte
   Torcer la bocca e raggrinzar la fronte.
   Donde gli atti villani?
   Questo è il comento, o chiosatori insani?
                            SESTO
Io l'avo ho in casa mia, vecchio nojoso,
Che mai di nulla è pago,
Schifoso a rimirarsi e rantoloso:
E fia, d' un Nume fia questa l' immago?
                      ALCONTE
Io querula ho la madre,
   Sempre sdegnoso il padre,
   Nè via v' è mai da contentarli: e questi,
   Dênsi onorar quai Deità celesti?
                          MAESATRO
Temerarj, tacete:
   Ed obblïar potete
   Quanti essi già per voi soffriro affanni,
   E qual di voi pietosa ebbero cura
   Fin dai vostri prim'anni?
   Ben, figli, or vi conviene
   Dell'etade non men che di natura
   Soffrir ne' padri vostri anco i difetti;
   E, se mostri non siete,
   Sollevar le lor pene.
   Ma non basta: i precetti
   Eseguirne dovete;
   Le virtudi emular; con liete fronti
   Ogni onesta lor brama appagar pronti.
   Ne' detti alfin, negli atti,
   E molto più co' fatti
   L'eterno a lor dovuto
   Render d'onor tributo.
   Ah! così voi sarete il lor contento,
   E il più dolce ornamento.
   Ed essi a voi saranno e ne' perigli
   Difesa, e guida al piede
   Co' lor saggi consigli;
   E qual dal ciel non v'otterran mercede?
   Siate de' padri voi gioja e decoro,
   O figli; e avrete in loro
   (Questo, questo é il comento)
   Propizio un Nume al vostro bene intento.

V.
La Gallina e i Pulcini

Or che siete satolli,
E ch' io su quest' erboso
Molle cespo mi poso,
Ite, disse a' suoi polli
La gallina, a diporto
Ite, o figli, nell'orto.

Con pipilar giulivo
Sen vanno; e giunti appena,
Un già raspa l' arena,
Un s' asconde furtivo,
Un saltella, un svolazza:
Ciascun già si sollazza.

Quand' ecco palpitante
La madre a sè li chiama.
E, Qua qua, figli, esclama
Con voce gracidante;
Qua qua, figli, tornate,
Affrettate, volate.

Volgonsi que' pulcini
Dicendo: E donde questo
Richiamo sì molesto?
Pur pronti i poverini,
Benchè non senza duolo,
Tornano a lei di volo.

La chioccia allor distende
L'ali, e sotto li tira
Ben tutti: alfin respira.
Ma il perchè non s'intende
Da' figli ancora; ed ella
Così ad essi favella:

Da periglio mortale
D avervi tratti io spero;
E se volete il vero
Scoprir, fuor di quest'ale
Spignete il guardo, e quello
Mirate errante augello.

Voi nol vedeste: è desso,
È il nibbio traditore.
Ancor mi trema il core
Dallo spavento oppresso:
Ei v'adocchiò lontano;
Ma, grazie al ciclo, in vano.

Oh come ha il piede, il rostro
Fiero, adunco, sanguigno!
Quanto ha l'occhio maligno!
Il gran nemico vostro,
Figli, omai conoscete,
E a fuggirlo apprendete.

Ecco al guardo ei s'invola.
Qualche pulcin malnato
Renitente, ostinato,
Certo a ghermirsi ei vola.
Ma voi sicuri in pace
Ite or dove vi piace.

Quanti mali e perigli
Scopre l'occhio paterno,
Che voi prendete a scherno,
O non vedete, o figli!
E il perchè si rintraccia?
Ah s'ubbidisca e taccia.

VI.
Il Puledro

Abbastanza ho' di voi,
Con fronte alta e superba
Un puledro insolente,
Che già di fieno si pasceva e d'erba,
Nitrendo disse a' genitori suoi;
Abbastanza ho di voi.
Ah figlio sconoscente!
Quelli a lui rispondean; questa mercede
Dunque ci rendi? e dove andar tu vuoi?
Arresta, arresta il piede;
Di noi forse a ragion lagnar ti puoi?

Io di nobil valor ripieno ho il core,
Riprese il contumace;
Ed ho di voi rossore,
Che vi soffrite in pace
Altrui soggetti offrir le labbra al morso,
E a grave incarco il dorso.
No, ch'io tanta vilta veder non voglio;
Per sempre vi rifiuto.
E lor di calci, oimè! dato un saluto,
Senza più dir, di botto
Prese fuggendo il trotto.

A quegli atti, a quei detti empj, inumani
Dietro al fellon tutti abbajaro i cani.
Bestemmiato, abborrito, ovunque i passi
Rivolge, da' bifolchi e da'villani
Nembo sostien di sassi.
Spumante ei vie più corre; ed or ne' bronchi
La chioma strazia e il fianco;
Del capo or dà ne' tronchi;
Già gonfi ha gli occhi, al suol china ha la testa;
Pure ancor non s'arresta.
Al fin mancar si sente e possa e lena:
Trema, cade e vien manco
In su deserta arena.

D' acqua o di cibo ivi non ha ristoro;
Anzi a maggior martoro,
Ecco repente addosso a lui che langue,
Sitibondo di sangue
Scende un nuvol di mosche. A tanta noja
Ei più non regge, e dice:
Misero me! pur dianzi er' io felice;
E in questa etade, e così dunque io moro?
Ma bene sta eh' io inoja.
Grida alfin disperato:
Ah! l'orror de viventi è un figlio ingrato.

VII.
Il Leone e il Leopardo

Il lïon per monti e selve
Quale in senno ed in coraggio
Più valesse tra le belve
Cercar fece; ed il più saggio
Ad un tempo e più gagliardo
Ritrovossi il leopardo.

A sè il chiama; e, Del mio figlio
Tu, gli dice, il padre or sei;
Con l'esempio e col consiglio
Istruirlo sol tu dèi:
A te il fido; e di me degno
Tu lo rendi e del mio regno.

Indi al figlio: E vita e trono
Tu a me devi; a lui dovrai
Del valor, del senno il dono,
Don che ben più vale assai.
A lui dunque ognor sommesso
Porgi onor più ch'a me stesso.

Dice, e parte. Il precettore
A educare il regio infante,
Benché dubbio alquanto in core,
Pur con cura e zelo amante,
Qual sa meglio, tosto imprende,
Ed ogni opera vi spende.

Del suo re però la prole
Nell' alunno egli rispetta.
Quindi starsi in piedi ei suole
Mentre a lui favella o dêtta;
E sta l'altro altero in viso
Con grand' agio intanto assiso.

Venne il padre: Ahimé che veggio!
Esclamò sdegnato in volto:
Olà! sorgi da quel seggio;
Disse al figlio; indi rivolto
Al maestro: E tu che in piedi
Mal ti stai, colà ti siedi.

Che in quel punto si eseguisse,
Non v' ha dubbio, il real cenno;
Anzi fuvvi chi lo scrisse.
Perché apprendan quanta denno
Riverenza ai precettori
Ed i figli e i genitori.

VIII.
Il Canarino

Solo io dunque ai sordi venti,
Disse un giorno un canarino,
Senza mai cangiar destino
Spargo indarno i miei concenti?
Eh proviam, se altrove il mio
Può gradir canto natio.

Chi sa mai? Forse diletto
N' avrà l' uomo; io premio e vanto:
A lui serbisi il mio canto.
E volossene, ciò detto,
Già lasciati i boschi a tergo,
D' un filosofo all' albergo.

Qual già il Francklin o il Nolleto
Stava quegli a nuovo intento
Operoso esperimento;
Quando scioglie tutto lieto
L'augelletto inosservato
La sua voce al canto usato.

A che turbi il mio lavoro?
Il filosofo gli dice;
Di qui stare a te non lice:
Altro io vo'che il tuo canoro
Gorgheggiar, vano trastullo
Di donzella e di fanciullo.

Se di te degno non sono,
Gli rispose l' augel mesto,
Ecco io parto; e se molesto
Io ti fui, dileggio perdono.
E di là levossi a volo
Pieno il cor d'acerbo duolo.

Ahimè lasso! egli dicea:
La mia speme m'ha tradito;
Già non sono all' uom gradito,
Come d' esserlo credea.
Pure io penso ... e sì mi giova
Di tentar qualch' altra prova.

Quale il canto abbia dolcezza,
Freddo troppo o troppo astratto,
A gustar forse non atto
È il filosofo, e lo sprezza;
Ma il poeta, anch' ei cantore,
Ne fia giudice migliore.

Quindi ei vola immantinente
Al soggiorno d' un gran vate,
Che d' orecchie è dilicate,
Di bel core e di gran mente:
Ivi tosto, il più ch' e' puote,
Varie tesse e dolci note.

Lunga pezza il canto ei scioglie;
E il poeta intento l' ode:
Largo poi d'amica lode
Seco in sua magion l' accoglie;
Ed eletti cibi in copia
Porge a lui di sua man propia.

Canarino avventuroso,
Già del grande Italo Cigno,
Ch' amò i buoni, ed il maligno
Volgo vil guardò sdegnoso,
Con invidia, e tu tel sai,
Nella stanza io ti mirai:

E da' suoi canti divini,
In bell'estasi sospeso,
Quanto, oh quanto avrai tu appreso!
Ah dall' unico Parini
Esse ancor grazie novelle
Imparâr le Ascrée sorelle.

Odi, o giovane studente:
Sia scïenza, o sia bell' arte,
In cui vuoi perfezionarte,
Quale in essa è il più eccellente,
Se vuoi tu scorta sicura,
A tuo giudice procura.

IX.
Il Lione e la Volpe

Grande stuol di partigiani
Fatto aveva l' elefante:
E voleva il fier brigante
Al lione i suoi sovrani
Contrastar diritti augusti,
Benchè antichi e benchè giusti.

Tale almeno per le selve
Correa voce: ed il lïone
Con un bando il carco impone
Alle suddite sue belve,
Che di sua Grandezza offesa
Tosto s' armino a difesa.

Già il cinghiale arrota il dente,
L' unghie il tigre, i corni il bue;
L' orso, il lupo, ognun le sue
Armi appronta; e di repente
Quasi tuono e quasi lampo
Romorosi escono in campo.

Ma la volpe disarmata
Tra di lor sola si mostra,
E dinanzi al re si prostra,
Il qual torbido la guata:
Ella pur tutto rappella
Il coraggio, e sì favella:

Sire, è ver, atta io non sono
Senza spada e senza maglia
Per campale aspra battaglia,
E ne chiedo a te perdono.
Ma se penso al tuo vantaggio,
Tu il dirai, che sei sì saggio.

Grande esercito ed invitto
Qui raccolto vantar puoi;
Ma di tanti illustri eroi
E chi pensa intanto al vitto?
Io sì certo; chè apprestai
Salvaggiume e polli assai.

Questi a me cibi son cari:
Pur li cedo; e, se non sogno,
Fíano attissimi al bisogno;
Chè a te, sire, son del pari
Necessarj, e son dovuti
La difesa ed i tributi.

Così disse; e fu sentita
Con gran plauso, e ne fu degna.
Ella intanto a tutti insegna
Qual dobbiam noi pure aíta
E co' beni e colla mano
Alla patria ed al sovrano.

X.
Il Ranocchio e il Tigre

Dì e notte in una fossa
Gracidava un ranocchio;
Nè v' ha modo che possa
Un tigre chiuder occhio;
Ch' ei di là non lontana
A caso avea la tana.

A soffrir non avvezzo
Andò al ranocchio, e disse:
Eh pensa a cangiar vezzo,
Se non vuoi liti e risse;
E ben saper tu dèi
Chi son io, chi tu sei.

Udisti? — Quei sospende
I clamori loquaci;
E questi a dir riprende:
O di qua parti, o taci.
E senza udir risposta
Dalla fossa ei si scosta.

Ch' io mi parta o mi taccia?
Il ranocchio borbotta:
Nè far ciò che mi piaccia,
O se aggiorna o se annotta,
Non potrò in casa mia?
Questa bella saria!

S' e' vuol ch' i' mi stia zitto,
In sua magion m'accoglia;
Ovver mi paghi il fitto:
Allora ei se ne doglia.
Dice, e nuova canzone
Ad intonar si pone.

Taci, l' avola saggia,
Taci olà, con affanno
Gridò, che non t'accaggia
Oimè! qualche malanno
Che te ravvolga e noi:
Di te pietà e de' tuoi.

Ma il ranocchio imprudente
Prosegue incaponito;
E il tigre che lo sente
E si tiene schernito,
Arrabbia; alla vendetta
Furibondo s' affretta.

Nulla il ritien: s'avventa
Entro la vil pozzanghera;
Tutta co' piè la tenta,
E tutte abbatte o sganghera
Quelle fangose tane.
Escon ranocchi e rane.

Ed ecco ei te gli acciuffa,
E gli strazia e gli uccide:
Nè cessò dalla zuffa,
Fin che alcun più non vide
Che a lui di turbar osi
Importuno i riposi.

Fu la vendetta, è vero,
Troppo ingiusta ed atroce;
Ma del possente e fiero
Ah! nè pur colla voce
Si provochi lo sdegno;
Ch' ei più non ha ritegno.

XI.
I due Ragni

Spossato, egro ed afflitto
Un vecchio ragno geme
Privo di stanza e vitto,
E fra miserie estreme.

Ahi! da crudel procella
La rete a lui fu guasta;
E a farne una novella
L' etade ah! gli contrasta:

Ché in lui già venne meno
L' antica sua virtude,
Nè più materia in seno
Per trar le fila ei chiude.

Lasso! e d'insetti erranti
Ei più non può far prede,
E presso ai neri istanti
Del suo morir si vede;

Nè resta altro al meschino
Fra sì spietati affanni.
Che girne a un suo vicino
Di vigor fresco e d'anni.

Squallido dunque e tristo
Vêr d' esso i passi move;
E appena quei l' ha visto,
Che a pietà si commove.

So, dice, la tempesta
Qual ti fé' danno; or vieni:
Qui vieni, e compi in questa
Mia casa i dì sereni.

Folle! che dico mia,
S' io te la dono e cedo?
Sì, tua vo' ch' ella sia;
Io più non la possedo.

Per me già n' apparecchio
Un' altra. Or qui son tese
Le fila; e ancor che vecchio
Molte potrai far prese.

Dice, e a partir s'aflretta.
E il vecchio in tronchi accenti
Ah! grida, aspetta, aspetta
Almen per poco, e senti.

Ma l' altro via sen fugge;
Ed ei cogli occhi immoti
L'accompagna, e si strugge,
Ebbro di gioja, in voti.

L' egro vecchio impotente,
Giovani, a voi ricorre;
Ma chi pietà ne sente?
Chi pronto lo soccorre?

Ah seritto ancor ne' vostri
Fasti del ragno mio
Fia mai che mi si mostri
L' atto sì grande e pio?

XII.
La Passera e il Passerino

Entro d' angusta gabbia
Di vimini contesta
Una passera mesta
Si distruggea di rabbia.
E a ragion; chè trastullo,
Misera! è d' un fanciullo,
Il qual fuor d' un balcone
Tienla in sì ria prigione.

Di sangue a lei congiunto
Videla un passerino,
E da pietà compunto
Pel barbaro destino
Della cara parente
Tanta doglia ne sente,
Che per recarle aíta
Citnenteria la vita.
Quindi è che a lei d'intorno
S' aggira e notte e giorno.
Ma vana ogni arte ei teme,
E nel suo cor ne geme.
Pur che non può l' afletto
Acceso in gentil petto?

Al suo solito gioco
Ecco il fanciul sen viene.
Apre la gabbia un poco;
Ma sì la man vi tiene,
Che ne resta impedita
Al prigionier l' uscita.

Amico Cielo, ajuto,
Il passerino esclama;
E verso lei, ch' e' brama
Salvar, già move astuto.
Con giro incerto e spesso
Alla gabbia da presso
Or fassi ed or lontano:
Alfin s' abbassa e scende
Quasi al fanciullo in mano.
Semplice! ed ei la stende
Vago del nuovo acquisto:
Ma quanto e' ne fu tristo!
Chè la passera un volo
Fuor per l'aperto usciuolo
Dispiega in quel momento;
E il passerin contento
Di plauso alza una voce,
E via fugge veloce.

In giovinetta etate
Bella è pur la pietate!
Di sè stessa innamora
Più bella ancor, qualora
S'usa a' congiunti suoi.
Giovani, dunque a voi
Sia d' esempio e conforto
Il passerino accorto.

XIII.
Il Lupo e i Lupicini

Jer con caccia felice
(Un lupo così dice
A' suoi figli) un agnello
Presi, un capro e un vitello
Ed oggi un ampio invito
Al parentado io fei
Di solenne convito.
V' avverto, o figli miei,
Che verranno a momenti,
Ed ai vostri parenti
Voi pur fate finezze;
Chè ben per balze e selve
Le loro gentilezze
Hanno anch'esse le belve;
Che che l' uom se ne dica
A noi razza nemica.

Ma già quasi ad un punto
Ogn' invitato è giunto:
Ch' essi buona creanza
Credon l' anticipare;
Nè la scortese usanza
Han di farsi aspettare.

Con vezzi e con inchini
Loro incontro si fanno
I prodi lapiditi;
E come meglio sanno
Usan tutte maniere
Di cortesíe sincere.
Un sol nè in piedi alzosse,
Nè in segno almen di festa
La coda o il capo scosse;
Ma cupo e immobil resta.

Con fiero e torvo ciglio
Guatollo il padre; e fisse
Immobilmente il figlio
Tenne le luci, e disse:
Io già reo non mi chiamo;
Col cor gli onoro ed amo.

Quasi uno scherzo il detto
Ognun con riso accolse;
E ben tosto si volse
Il pensiero al banchetto.
Fu lauto, fu condito
Da vivace appetito,
Senza puntigli in pace,
E con gioja verace.

Ma quando ai vicendevoli
Congedi alfin si venne,
Il misantropo pazzo
Per non far convenevoli,
E tôrsi d' imbarazzo,
Nascoso allor si tenne,
E a nessun fu veduto
Far nè pure un saluto.

Troppo quel tratto amaro
A tutti rïuscì,
E al dito sel legaro.
Ma passar pochi dì
Che il padre senza prede
Da' boschi ai figli riede,
Nè può l' avide brame
Saziar della lor fame.
Onde lor dice: Andate
Dai parenti, o miei figli,
E sì v' avran pietate;
Ch' io di novella caccia
Non ricuso i perigli
Per gir di cibo in traccia.

Languidi i figli e smunti
Se n'andâr da' congiunti,
E quegli v' era ancora
Che in cor gli ama e gli onora.
I congiunti dier loro
E ricetto e ristoro:
Solo chiuso davante
L'uscio al filosofante
Tutti disser d'accordo:
Basti a costui l' affetto
Che gli serbiamo in petto.
Certo allor non fu sordo;
Ma intese che dal' opre
Il vero amor si scopre.

Le gentili maniere
D' alma gentil son segno,
Son, qual d'amore un pegno,
Tra i congiunti un dovere.
Il vedeste; e gran bene
Spesso da lor proviene.

XIV.
I due Carri e i Buoi

Due colonne del par gravi
E con argani e con travi
Su due carri alfin si carcano.
Di stupor le ciglia inarcano
Varj buoi che quivi stanno;
Ed intendere non sanno
Come mai mover si possa
Sì gran peso, o con qual possa.
Quando sentono che loro,
Olà, dicesi, al lavoro.
Fatto è il carco; o fidi buoi,
A tirarlo or tocca a voi.
Scorre un gel lor per le membra,
E possibil ciò non sembra.
Ma, checchè loro ne paja,
D' essi aggiungonsi tre paja
Per ciascuno de' due carri.
E il villan poi grida: Or arri,
Arri là, carne cattiva.
Ed intanto, dove arriva,
Così il pungolo li fere,
Che, volere o non volere,
Forza è pur che alfin si movano.
Dunque uniti a gir si provano,
E concordi il carro tirano;
E concordi anch' esse girano
Le volubili unte rote.
Tal concordia e che non puote?
Ecco i buoi, nè con gran pena,
Tal che il credon essi appena,
Trar quei carri sì pesanti,
Meraviglia ai riguardanti.
Lungo i carri in su la via
Solco imprimono, e via via
Fan cammin; però fin tanto
Che concorde si dà vanto
Di compir le parti sue
Ogni rota ed ogni bue.

Ma oimé! cigola d' un carro
Un rotin tristo e bizzarro:
Ogni carco egli detesta,
Ed ostinasi e s' arresta.
Tenta smoverlo il villano,
Ed arrabbiasi, ma in vano;
Nè più possono innoltrarsi
Di sudore i buoi cosparsi.

De' due carri or che n' avvenne?
L'uno al suo destin pervenne,
E per colpa d'un rotino
Restò l' altro in sul cammino.

Nelle case la concordia
Lieve rendene il gran peso;
Che importabile vien reso,
S' entra in esse la discordia.
Ahi però eh' ella vi ha spesso
Per voi, giovani, l'ingresso.

XV.
L'Aquilotto e la Lodola

Un superbo aquilotto
D' un' alta quercia in vetta
Vede una lodoletta
Posarsi a lui di sotto
In su la stessa pianta;
E a lei così si vanta.

Non sai quale nel petto
Regio sangue mi bolle?
E come osasti, o folle,
Tu sì vile augelletto
Sol atto a inutil canto,
A me venir d' accanto?

Tu della quercia in cima;
Al basso io qui mi siedo:
E ben con ciò mi credo
Mostrarti ossequio e stima:
La lodola all' audace
Tal fa risposta, e tace.

Ma quegli a dir riprende:
Così a me si risponde?
Via via da quelle fronde.
Sol la tua vista offende
L'idee sempre in me deste
Di mia stirpe celeste.

Dimmi, e chi su le sfere
Con ali ardite e pronte
Portò d'Ida dal monte
De' numi il bel Coppiere?
O chi ministra nuove
Ognor saette a Giove?

Non sono i miei? ... Ma in quella
Sovra rapide penne
Il padre a lui sen venne,
E così gli favella:
Vieni alla prova, o figlio:
Fissa nel sole il ciglio.

Vo' vedere se degno
Sei tu d'esser mia prole:
Se tu non reggi al sole,
Ah! te ne scopri indegno:
Né vo' nella mia schiatta
Soffrir onta sì fatta.

Ei con pupilla tesa
Nel Sol le luci affisa;
Ma se n' abbaglia in guisa,
Che non sostien I' offesa.
E il padre al suol gittollo,
Ov' ei si ruppe il collo.

Tra i rami intanto ascosa
Sta la lodola attenta.
Ode, vede, paventa,
E di fiatar non osa.
Ma l' aquila al ciel vola;
Ed essa si consola.

Dunque, dice, era tanto
Dissimile da' suoi
Quel bel germe d' eroi,
E tal davasi vanto?
Ei là disteso al suolo
Ah mi fa sdegno e duolo!

Il canto indi sciogliendo:
Cerchiamo i proprj pregi,
Non gli altrui fatti egregi;
Va per tutto dicendo;
E chi vantar si vuole,
Guardi se regge al sole.

XVI.
Lo Scimiotto e le Scimie avventuriere

In signoril palagio
Ogni laute/za, ogni agio
Godeva uno scimiotto:
Non perch' ei fosse dotto,
O di prodi maniere;
Chè la sorte al sapere,
Od al valor non bada:
Sovente anzi le aggrada
Versar suoi doni in seno
A chi li merta meno.
Mio scimiotto, e per lei
Sol felice tu sei:
Ma ben farai tu aperto
Che non ne avevi il merto.

Del nuovo stato altero
Eccolo il cavaliero
Che ad un balcon s' affaccia
E collo scherno in faccia,
Non senza acerbo ghigno,
Getta un guardo maligno
Su la vil plebe e pazza
Che stava in su la piazza.

Di scimie avventuriere
Intente a dar piacere
Uno stuol quivi giunto
Era giusto in quel punto.
E già con arti nove
Elle cento dan prove
D'industria e di talento;
Onde, sebbene a stento,
Pure senza delitto
Gían procacciando il vitto.

Ma il nobil vegetante,
Sul balcon sovrastante,
I piè batte, le gote
Gonfia, ed il capo scuote
Gridando: Olà! che veggio?
E tollerarlo io deggio?
Ah! la canaglia infame
Perchè non muor di fame?

Sotto il pendio del tetto
Ampio avevan ricetto
Molti passeri; e i nidi
Lasciâr, scossi a quei gridi,
Dicendo: Oh boria matta!
E non son di tua schiatta?
Ma tu, che il devi e il puoi,
Così soccorri i tuoi?
Ah con obbrobrio eterno
Cada su te lo scherno!
E con alto schiamazzo
Gridaro: Al pazzo, al pazzo.

Giovani, da' primi anni
Parli a voi la natura,
Nè folle error v' inganni.
Se avversa sorte e dura
De' vostri alcun condanni
A bassa vita oscura,
Non siate, no, fra i tanti
Scimiotti vegetanti.

XVII.
I tre Ragni

Nati a un tempo e cresciuti
Ognor fidi compagni
Su di un olmo tre ragni
AI tempo eran venuti
Di trar le reti loro;
E imprendono il lavoro.

A gara ognun s' adopra;
Tesse le fila e piega,
E le ritorce e lega
Fin che compiesi l' opra;
E a vederla compita
L'un l'altro alfin s'invita.

Ma di giro sì stretto
L'un la sua ragna ha tesa,
Che mal potrà far presa
Di volatore insetto;
Perocchè tra due fronde
S'accoglie e si nasconde.

Due rami un po' distanti
L' altro co' fili abbraccia,
E in lor ben tosto allaccia
Più moscherini erranti;
Che, mentre sbatton l' ale,
Ei d'improvviso assale.

Il terzo poi dall' alto
Al basso della pianta
Dare ai moscon si vanta,
Ed alle vespe assalto
Con forte rete e vasta,
Che a tutt' altre sovrasta.

Ma che? d'opra sì bella
Il primo in cor si rode;
Al compagno ogni lode
Nega, e sì gli favella:
Eh! ch' io son persuaso
Che tutto devi al caso.

Tu là da quella cima
Sconsigliato cadesti,
E la linea traesti
Avventurosa e prima
Sol per sottrarti a morte.
Oh, che non può la sorte!

Già non così il secondo;
Ch' anzi al lavoro altero
Egli applaude sincero;
E indagator profondo
Più volte attento il mira,
E ad emularlo aspira.

Sâle dell' olmo in vetta;
Forte un filo v' appende,
Su quel si libra e scende,
Godendo d' un' auretta
Che penzolon l'accosta
Ad una quercia opposta.

Su d' essa egli ad un tratto
Felice un salto spicca;
S' aggrappa, il fil v' appicca:
Ed ecco il ponte è fatto,
Su cui sicuro e scaltro
Da un arbor passa all' altro.

Posar più non si vede
Or alto, or basso ed ora
Nel vôto aer lavora,
E qua viene e là riede.
In fin l' opra a tal crebbe,
Che mai l egual non v' ebbe.

Vago di bella fama
Sprezzò fatiche e pene;
E il prode ragno ottiene
Ancor più ch' ei non brama.
Di già il compagno ei vinse,
Che ad emular s' accinse.

Ma l' inviclo e maligno
(Giovani, lungi sia
Da voi tanta follia)
Con livid' occhio arcigno
Si strugge all' altrui vanto,
E muor di fame intanto.

De' codardi è retaggio
L' invidia, e di lor degno.
Ma d' ogni bello ingegno
Emulatore é il saggio
Che spesso ei vince poi
Co' nuovi studi suoi.

XVIII.
I due Cavalli

Lacero i fianchi e il dosso,
La testa curvo al suolo,
Magro, che scopre ogni osso,
Un rozzon barcajuolo
Trae con ansante lena
Carca nave a gran pena.

Or lento innoltra; in atto
Or cade miserando;
E sente ad ogni tratto
Voce che bestemmiando
L' orecchio gli rintuona,
E inaii che lo bastona.

Per quella stessa via
Di ricchi fregi altero
Incontro a lui venia
Ben nudrito destriero,
Di piè snello e di membra
Così, che danzar sembra

Scuote su l'ampie spalle
Il folto crin che ondeggia;
Suona percosso il calle,
L' aere ai nitriti eccheggia.
Così pien di sé slesso
Giunge al meschin da presso.

Guardalo l' infelice;
Ed, Oh! tu che natura
Hai meco egnal, gli dice,
Abbi di tuia sciagura
Pietà. Vedi qual sorte
Ahi! mi riduce a morte.

Sbuffa, di foco avvampa,
Più volte con disdegno
Batte il destrier la zampa;
Poi gli risponde: Indegno!
T' agguagli a' pari miei?
Ma dimmi, e chi tu sei?

Ah questa dunque in dono
Aita tu mi porgi?
Dice il meschin; Chi sono
Mi chiedi? e non lo scorgi?
Benchè in destin sì rio,
Sono un cavallo aneh' io.

Antico scritto io serbo,
Cui non vorrei dar fede;
Ei nota che il superbo
Un calcio al miser diede;
Ma certo è che la groppa
Gli volge e via galoppa.

Va, snaturato ed empio;
Meco ognun ti detesti.
Ma oimè! che il tristo esempio
De' casi più funesti
Rinnovato ognor mira
L' oppresso, e ne sospira.

Cara innocente etude,
Che i teneri ancor serbi
Bei sensi di pietade,
Odia, fuggi i superbi;
E se un miser tu vedi,
Chi sia, giammai non chiedi.

Ch' ei ti diría gemente:
Un uomo anch' io son quale
Il ricco ed il possente,
Ma non in sorte eguale
Tu il compiangi; e, se puoi,
Provvedi a' mali suoi.