I. 
					Gli Animali in disputa su la felicità 
					 
					Un can magro, villan, burbero, irsuto, 
					Ch' era di setta Cinico mordace, 
					Viveasi in un villaggio; 
					E sè chiamando sol beato e saggio, 
					Con superbo disprezzo 
					D'aspri insulti ad ognun recava oltraggio: 
					Quando nel porco essendosi avvenuto, 
					Che fido d' Epicuro era seguace, 
					Uh! qual puzzo or ne vien? disse abbajando; 
					Sucido animalaccio,  
					Ma dimmi, e infino a quando 
					Avvolto ti starai così nel lezzo 
					Senza cangiar mai vezzo? 
					 
					Guardollo il porco; e, suso 
					Dal fango alzato un cotal poco il muso, 
					Rispose sbadigliando: 
					Misero è bene chi si prende impaccio 
					De' fatti altrui; ma per esser felice 
					Io vo seguendo ognor ciò che mi piace; 
					E ciò che piace, lice. 
					 
					Stava non lungi agli empj detti intento 
					Un irco d' età grave e di consiglio, 
					Il quale, perchè avea gran barba al mento, 
					Ed irto sopracciglio, 
					D'esser credeva Stoico perfetto: 
					Quindi con bieco ciglio, 
					Olà! che ascolto? ei disse, e quale insano 
					Parlar? se voi felici esser sperate, 
					Credete a me, voi lo sperate in vano. 
					Del tutto in pria spegner si vuole in petto 
					Ogni moto, ogni senso ed ogni affetto. 
					Da me senno imparate. 
					Voglie mai per vicende io non alterno: 
					Chiara sia l' aria o bruna, 
					Sia state o ver sia verno, 
					Senza curar di tempi o di fortuna, 
					Sempre lo stesso io sono, 
					Nè a duol nè a gioja in braccio io m'abbandono. 
					 
					Folle chi presta fede ai detti tuoi! 
					Sì, la chioma scotendo e il capo altero, 
					Gridò nobil destriero: 
					Chi non sa ch' altro dici, ed altro vuoi? 
					Ben dentro a regie stalle 
					Viver felice io spero: 
					A me si mieterà l'erbosa valle; 
					Io poi n' andrò di ricchi fregi adorno; 
					E le cupide ciglia 
					In me volgendo pien di meraviglia 
					Quai farà plausi il volgo a me d'intorno? 
					 
					Ma cotesti tuoi fregi, 
					Che tu cotanto or pregi, 
					A dirgli prese un semplicetto agnello, 
					Servo all' altrui voler non ti faranno? 
					Oh falso onor tiranno, 
					Come ancora a chi sa togli il cervello! 
					Benché povera e romita, 
					Più felice è la mia vita. 
					Or di sotto agli arboscelli 
					Io m'assido, e godo intanto 
					De' pastori e degli augelli 
					Ascoltare il dolce canto; 
					Or del monte in sul pendio 
					Vo pascendo erbette e fiori; 
					Or di schietto argenteo rio 
					Vo gustando i freschi umori.... 
					 
					Qui ti voleva, e sì di te mi rido; 
					L'interruppe il destrier; che ancor s' addita 
					Il noto fonte, ove da un lupo infido 
					Sbranato un tuo german perdéo la vita. 
					Tu pur di sorte uguale ognor paventi, 
					E tu chiami i tuoi dì lieti e contenti? 
					 
					Di questi la contesa 
					Udiro altri animali, e in pochi istanti 
					Disputa generale alfin s' è accesa. 
					Del pari ognun desia d' esser felice: 
					Quali però non fan sistemi e quanti! 
					Pur, se dirlo mi lice. 
					Molto maggiori ancor ne facciam noi: 
					Ma felici siam poi? 
					 
					II. 
					La Volpe saggia 
					 
					Già d'Esopo gli eroi 
					(Voglio dir gli animali) 
					Parlavan forse ancor meglio di noi 
					Con sentenze morali: 
					E appunto di quei dì si ritrovato 
					Uniti in concistoro 
					Il cane, il bue, il cavallo ed il somaro; 
					E così fersi a ragionar tra loro. 
					Primiero il can mette un sospiro, e dice: 
					Son io pur infelice! 
					Di notte io fo la guardia; e poi (qual pena!) 
					Sto il giorno alla catena; 
					E al fin che mi guadagno?Pochi ossi e muffo pane. 
					 
					Io sì, soggiunse il bue rivolto al cane, 
					Del mio destin con più ragion mi lagno. 
					Almen tu non ti stanchi; 
					Ed io, l'aratro, il solco, 
					Il carro, e del bifolco 
					Sempre il pungolo ai fianchi.... 
					Oh ciel! che stenti per un po' di fieno! 
					 
					Ma tu nel verno almeno 
					Ti riposi, ripiglia 
					Tosto a dire il cavallo; ed io la briglia 
					Ad ognora ho sul collo, e in bocca il morso, 
					E il cavalier sul dorso; 
					E di Marte tra i figli 
					Mi toccan della guerra anco i perigli. 
					 
					Un bel morir tutta la vita onora; 
					L' asino esclama allora: 
					Ma come tutti, oimè! gli affanni miei 
					Descrivere io potrei? 
					Per dir ch' uno la sorte abbia nemica, 
					Un somaro si dica. 
					 
					Di là una volpe vecchia 
					Passò in quel mentre; ed, Oh! dissero a lei. 
					Per breve tempo a noi porgi l'orecchia. 
					Noi siam tutti infelici; or tu che sei 
					Sì accorta, tu ne addita 
					Il più facil cammino 
					Per trarre omai felice appien la vita. 
					 
					Disse la volpe saggia: 
					Su via, s' appaghi ognun del suo destino, 
					Ché peggio non gli accaggia. 
					In mia sì lunga etade 
					Molto io vidi ed intesi; 
					Molte ho scorse contrade: 
					Al fin sol questo appresi, 
					Che per tutto vi son pene e lamenti, 
					Per tutto egri e dolenti. 
					No, però non vi sia chi si prometta 
					Su questo suol felicità perfetta. 
					 
					III. 
					L' Orsacchino e l' 
					Augello 
					 
					Della tana petrosa 
					   Su la soglia muscosa 
					   Gemeva un orsacchino 
					   Con un suon sì dolente; 
					   Che dal bosco vicino 
					   Pietà un augel ne sente. 
					   Qual sia stato l' augello, 
					   Incerta n' è la fama; 
					   Chi lo dice un fanello, 
					   Chi un cardellino il chiama. 
					   Basta; qualunque ei fosse, 
					   Vêr l' orsacchin si mosse 
					   Dicendo: Ond' è che piagni? 
					   Forse da fame oppresso 
					   De' genitor ti lagni, 
					   Ch' io vidi adesso adesso 
					   Là penetrar nel fosco 
					   Di quel solingo bosco? 
					Quei, ch' ode il caro nome, 
					   S' allegra, e dice: Ah come 
					   Dolermi io mai potrei 
					   De' genitori miei? 
					   Se di me cura hann' essi 
					   Vie più che di sè stessi. 
					              AUGELLO 
					Dunque a che turbi i venti 
					   Con sì lunghi lamenti? 
					             ORSACCHINO 
					Quando lungi sen vanno 
					   Sempre così m'affanno; 
					   E infin che fan ritorno 
					   Qui sto guardando intorno, 
					   E coi gridi li chiamo. 
					   Nè ti stupire: io gli amo. 
					Plauso fe' colle penne 
					   L'augel, che si sovvenne 
					   De' primi giorni sui, 
					   E così disse a lui: 
					   Ah lo stesso io facea, 
					   Allor ch'io pure avea 
					   E l' amoroso padre 
					   E la tenera madre: 
					   Chè, se restava solo, 
					   Del nido in su l' uscinolo 
					   Con lungo pigolío 
					   Così gemeva anch' io. 
					Il filïale affetto 
					   Tal dunque ha forza fin de' bruti in petto! 
					   Figli, e voi che sì bello avete il core, 
					   Ai genitor qual non dovete amore? 
					 
					IV. 
					Il Maestro e gli 
					Scolari, o il detto di Piatone 
					 
					Scrivasi; disse un giorno a' suoi scolari 
					   Un dotto precettore 
					   Che con l'amor temprar sapea il rigore; 
					   Scrivasi; e un gran dover da voi s' impari. 
					   Cessa al suo dir sul punto ogni bisbiglio: 
					   Ciascun l'orecchio tende; 
					   Pronta in mano ha la penna, attento il ciglio; 
					   Ed egli così loro a dettar prende: 
					   Oggi non sono io no che vi consigli. 
					   Platone a voi favella: è breve il detto; 
					   Voi lo scolpite in petto. 
					La madre, il padre in casa avete, o figli? 
					   O i lor vecchi parenti? 
					   Quai divìn simulacri 
					   Cari gli abbiate, e venerandi e sacri; 
					   Più benefìci Numi a voi presentì, 
					   Se lor, qual si convien, culto rendete, 
					   Aver già non potete. — 
					   Qui tacque; e un po' rimaso 
					   Sovra pensier; soggiunse: È proprio il caso 
					   Per voi la gran sentenza. In verso o in prosa 
					   Fatele voi la chiosa. 
					Ma, Sesto, olà! che vidi? 
					   Guardi sott' occhio, abbassi il capo e ridi? 
					   E Alconte; il veggo Alconte 
					   Torcer la bocca e raggrinzar la fronte. 
					   Donde gli atti villani? 
					   Questo è il comento, o chiosatori insani? 
					                            SESTO 
					Io l'avo ho in casa mia, vecchio nojoso, 
					Che mai di nulla è pago, 
					Schifoso a rimirarsi e rantoloso: 
					E fia, d' un Nume fia questa l' immago? 
					                      ALCONTE 
					Io querula ho la madre, 
					   Sempre sdegnoso il padre, 
					   Nè via v' è mai da contentarli: e questi, 
					   Dênsi onorar quai Deità celesti? 
					                          MAESATRO 
					Temerarj, tacete: 
					   Ed obblïar potete 
					   Quanti essi già per voi soffriro affanni, 
					   E qual di voi pietosa ebbero cura 
					   Fin dai vostri prim'anni? 
					   Ben, figli, or vi conviene 
					   Dell'etade non men che di natura 
					   Soffrir ne' padri vostri anco i difetti; 
					   E, se mostri non siete, 
					   Sollevar le lor pene. 
					   Ma non basta: i precetti 
					   Eseguirne dovete; 
					   Le virtudi emular; con liete fronti 
					   Ogni onesta lor brama appagar pronti. 
					   Ne' detti alfin, negli atti, 
					   E molto più co' fatti 
					   L'eterno a lor dovuto 
					   Render d'onor tributo. 
					   Ah! così voi sarete il lor contento, 
					   E il più dolce ornamento. 
					   Ed essi a voi saranno e ne' perigli 
					   Difesa, e guida al piede 
					   Co' lor saggi consigli; 
					   E qual dal ciel non v'otterran mercede? 
					   Siate de' padri voi gioja e decoro, 
					   O figli; e avrete in loro 
					   (Questo, questo é il comento) 
					   Propizio un Nume al vostro bene intento. 
					 
					V. 
					La Gallina e i Pulcini 
					 
					Or che siete satolli, 
					E ch' io su quest' erboso 
					Molle cespo mi poso, 
					Ite, disse a' suoi polli 
					La gallina, a diporto 
					Ite, o figli, nell'orto. 
					 
					Con pipilar giulivo 
					Sen vanno; e giunti appena, 
					Un già raspa l' arena, 
					Un s' asconde furtivo, 
					Un saltella, un svolazza: 
					Ciascun già si sollazza. 
					 
					Quand' ecco palpitante 
					La madre a sè li chiama. 
					E, Qua qua, figli, esclama 
					Con voce gracidante; 
					Qua qua, figli, tornate, 
					Affrettate, volate. 
					 
					Volgonsi que' pulcini 
					Dicendo: E donde questo 
					Richiamo sì molesto? 
					Pur pronti i poverini, 
					Benchè non senza duolo, 
					Tornano a lei di volo. 
					 
					La chioccia allor distende 
					L'ali, e sotto li tira 
					Ben tutti: alfin respira. 
					Ma il perchè non s'intende 
					Da' figli ancora; ed ella 
					Così ad essi favella: 
					 
					Da periglio mortale 
					D avervi tratti io spero; 
					E se volete il vero 
					Scoprir, fuor di quest'ale 
					Spignete il guardo, e quello 
					Mirate errante augello. 
					 
					Voi nol vedeste: è desso, 
					È il nibbio traditore. 
					Ancor mi trema il core 
					Dallo spavento oppresso: 
					Ei v'adocchiò lontano; 
					Ma, grazie al ciclo, in vano. 
					 
					Oh come ha il piede, il rostro 
					Fiero, adunco, sanguigno! 
					Quanto ha l'occhio maligno! 
					Il gran nemico vostro, 
					Figli, omai conoscete, 
					E a fuggirlo apprendete. 
					 
					Ecco al guardo ei s'invola. 
					Qualche pulcin malnato 
					Renitente, ostinato, 
					Certo a ghermirsi ei vola. 
					Ma voi sicuri in pace 
					Ite or dove vi piace. 
					 
					Quanti mali e perigli 
					Scopre l'occhio paterno, 
					Che voi prendete a scherno, 
					O non vedete, o figli! 
					E il perchè si rintraccia? 
					Ah s'ubbidisca e taccia. 
					 
					VI. 
					Il Puledro 
					 
					Abbastanza ho' di voi, 
					Con fronte alta e superba 
					Un puledro insolente, 
					Che già di fieno si pasceva e d'erba, 
					Nitrendo disse a' genitori suoi; 
					Abbastanza ho di voi. 
					Ah figlio sconoscente! 
					Quelli a lui rispondean; questa mercede 
					Dunque ci rendi? e dove andar tu vuoi? 
					Arresta, arresta il piede; 
					Di noi forse a ragion lagnar ti puoi? 
					 
					Io di nobil valor ripieno ho il core, 
					Riprese il contumace; 
					Ed ho di voi rossore, 
					Che vi soffrite in pace 
					Altrui soggetti offrir le labbra al morso, 
					E a grave incarco il dorso. 
					No, ch'io tanta vilta veder non voglio; 
					Per sempre vi rifiuto. 
					E lor di calci, oimè! dato un saluto, 
					Senza più dir, di botto 
					Prese fuggendo il trotto. 
					 
					A quegli atti, a quei detti empj, inumani 
					Dietro al fellon tutti abbajaro i cani. 
					Bestemmiato, abborrito, ovunque i passi 
					Rivolge, da' bifolchi e da'villani 
					Nembo sostien di sassi. 
					Spumante ei vie più corre; ed or ne' bronchi 
					La chioma strazia e il fianco; 
					Del capo or dà ne' tronchi; 
					Già gonfi ha gli occhi, al suol china ha la testa; 
					Pure ancor non s'arresta. 
					Al fin mancar si sente e possa e lena: 
					Trema, cade e vien manco 
					In su deserta arena. 
					 
					D' acqua o di cibo ivi non ha ristoro; 
					Anzi a maggior martoro, 
					Ecco repente addosso a lui che langue, 
					Sitibondo di sangue 
					Scende un nuvol di mosche. A tanta noja 
					Ei più non regge, e dice: 
					Misero me! pur dianzi er' io felice; 
					E in questa etade, e così dunque io moro? 
					Ma bene sta eh' io inoja. 
					Grida alfin disperato: 
					Ah! l'orror de viventi è un figlio ingrato. 
					 
					VII. 
					Il Leone e il Leopardo 
					 
					Il lïon per monti e selve 
					Quale in senno ed in coraggio 
					Più valesse tra le belve 
					Cercar fece; ed il più saggio 
					Ad un tempo e più gagliardo 
					Ritrovossi il leopardo. 
					 
					A sè il chiama; e, Del mio figlio 
					Tu, gli dice, il padre or sei; 
					Con l'esempio e col consiglio 
					Istruirlo sol tu dèi: 
					A te il fido; e di me degno 
					Tu lo rendi e del mio regno. 
					 
					Indi al figlio: E vita e trono 
					Tu a me devi; a lui dovrai 
					Del valor, del senno il dono, 
					Don che ben più vale assai. 
					A lui dunque ognor sommesso 
					Porgi onor più ch'a me stesso. 
					 
					Dice, e parte. Il precettore 
					A educare il regio infante, 
					Benché dubbio alquanto in core, 
					Pur con cura e zelo amante, 
					Qual sa meglio, tosto imprende, 
					Ed ogni opera vi spende. 
					 
					Del suo re però la prole 
					Nell' alunno egli rispetta. 
					Quindi starsi in piedi ei suole 
					Mentre a lui favella o dêtta; 
					E sta l'altro altero in viso 
					Con grand' agio intanto assiso. 
					 
					Venne il padre: Ahimé che veggio! 
					Esclamò sdegnato in volto: 
					Olà! sorgi da quel seggio; 
					Disse al figlio; indi rivolto 
					Al maestro: E tu che in piedi 
					Mal ti stai, colà ti siedi. 
					 
					Che in quel punto si eseguisse, 
					Non v' ha dubbio, il real cenno; 
					Anzi fuvvi chi lo scrisse. 
					Perché apprendan quanta denno 
					Riverenza ai precettori 
					Ed i figli e i genitori. 
					 
					VIII. 
					Il Canarino 
					 
					Solo io dunque ai sordi venti, 
					Disse un giorno un canarino, 
					Senza mai cangiar destino 
					Spargo indarno i miei concenti? 
					Eh proviam, se altrove il mio 
					Può gradir canto natio. 
					 
					Chi sa mai? Forse diletto 
					N' avrà l' uomo; io premio e vanto: 
					A lui serbisi il mio canto. 
					E volossene, ciò detto, 
					Già lasciati i boschi a tergo, 
					D' un filosofo all' albergo. 
					 
					Qual già il Francklin o il Nolleto 
					Stava quegli a nuovo intento 
					Operoso esperimento; 
					Quando scioglie tutto lieto 
					L'augelletto inosservato 
					La sua voce al canto usato. 
					 
					A che turbi il mio lavoro? 
					Il filosofo gli dice; 
					Di qui stare a te non lice: 
					Altro io vo'che il tuo canoro 
					Gorgheggiar, vano trastullo 
					Di donzella e di fanciullo. 
					 
					Se di te degno non sono, 
					Gli rispose l' augel mesto, 
					Ecco io parto; e se molesto 
					Io ti fui, dileggio perdono. 
					E di là levossi a volo 
					Pieno il cor d'acerbo duolo. 
					 
					Ahimè lasso! egli dicea: 
					La mia speme m'ha tradito; 
					Già non sono all' uom gradito, 
					Come d' esserlo credea. 
					Pure io penso ... e sì mi giova 
					Di tentar qualch' altra prova. 
					 
					Quale il canto abbia dolcezza, 
					Freddo troppo o troppo astratto, 
					A gustar forse non atto 
					È il filosofo, e lo sprezza; 
					Ma il poeta, anch' ei cantore, 
					Ne fia giudice migliore. 
					 
					Quindi ei vola immantinente 
					Al soggiorno d' un gran vate, 
					Che d' orecchie è dilicate, 
					Di bel core e di gran mente: 
					Ivi tosto, il più ch' e' puote, 
					Varie tesse e dolci note. 
					 
					Lunga pezza il canto ei scioglie; 
					E il poeta intento l' ode: 
					Largo poi d'amica lode 
					Seco in sua magion l' accoglie; 
					Ed eletti cibi in copia 
					Porge a lui di sua man propia. 
					 
					Canarino avventuroso, 
					Già del grande Italo Cigno, 
					Ch' amò i buoni, ed il maligno 
					Volgo vil guardò sdegnoso, 
					Con invidia, e tu tel sai, 
					Nella stanza io ti mirai: 
					 
					E da' suoi canti divini, 
					In bell'estasi sospeso, 
					Quanto, oh quanto avrai tu appreso! 
					Ah dall' unico Parini 
					Esse ancor grazie novelle 
					Imparâr le Ascrée sorelle. 
					 
					Odi, o giovane studente: 
					Sia scïenza, o sia bell' arte, 
					In cui vuoi perfezionarte, 
					Quale in essa è il più eccellente, 
					Se vuoi tu scorta sicura, 
					A tuo giudice procura. 
					 
					IX. 
					Il Lione e la Volpe 
					 
					Grande stuol di partigiani 
					Fatto aveva l' elefante: 
					E voleva il fier brigante 
					Al lione i suoi sovrani 
					Contrastar diritti augusti, 
					Benchè antichi e benchè giusti. 
					 
					Tale almeno per le selve 
					Correa voce: ed il lïone 
					Con un bando il carco impone 
					Alle suddite sue belve, 
					Che di sua Grandezza offesa 
					Tosto s' armino a difesa. 
					 
					Già il cinghiale arrota il dente, 
					L' unghie il tigre, i corni il bue; 
					L' orso, il lupo, ognun le sue 
					Armi appronta; e di repente 
					Quasi tuono e quasi lampo 
					Romorosi escono in campo. 
					 
					Ma la volpe disarmata 
					Tra di lor sola si mostra, 
					E dinanzi al re si prostra, 
					Il qual torbido la guata: 
					Ella pur tutto rappella 
					Il coraggio, e sì favella: 
					 
					Sire, è ver, atta io non sono 
					Senza spada e senza maglia 
					Per campale aspra battaglia, 
					E ne chiedo a te perdono. 
					Ma se penso al tuo vantaggio, 
					Tu il dirai, che sei sì saggio. 
					 
					Grande esercito ed invitto 
					Qui raccolto vantar puoi; 
					Ma di tanti illustri eroi 
					E chi pensa intanto al vitto? 
					Io sì certo; chè apprestai 
					Salvaggiume e polli assai. 
					 
					Questi a me cibi son cari: 
					Pur li cedo; e, se non sogno, 
					Fíano attissimi al bisogno; 
					Chè a te, sire, son del pari 
					Necessarj, e son dovuti 
					La difesa ed i tributi. 
					 
					Così disse; e fu sentita 
					Con gran plauso, e ne fu degna. 
					Ella intanto a tutti insegna 
					Qual dobbiam noi pure aíta 
					E co' beni e colla mano 
					Alla patria ed al sovrano. 
					 
					X. 
					Il Ranocchio e il Tigre 
					 
					Dì e notte in una fossa 
					Gracidava un ranocchio; 
					Nè v' ha modo che possa 
					Un tigre chiuder occhio; 
					Ch' ei di là non lontana 
					A caso avea la tana. 
					 
					A soffrir non avvezzo 
					Andò al ranocchio, e disse: 
					Eh pensa a cangiar vezzo, 
					Se non vuoi liti e risse; 
					E ben saper tu dèi 
					Chi son io, chi tu sei. 
					 
					Udisti? — Quei sospende 
					I clamori loquaci; 
					E questi a dir riprende: 
					O di qua parti, o taci. 
					E senza udir risposta 
					Dalla fossa ei si scosta. 
					 
					Ch' io mi parta o mi taccia? 
					Il ranocchio borbotta: 
					Nè far ciò che mi piaccia, 
					O se aggiorna o se annotta, 
					Non potrò in casa mia? 
					Questa bella saria! 
					 
					S' e' vuol ch' i' mi stia zitto, 
					In sua magion m'accoglia; 
					Ovver mi paghi il fitto: 
					Allora ei se ne doglia. 
					Dice, e nuova canzone 
					Ad intonar si pone. 
					 
					Taci, l' avola saggia, 
					Taci olà, con affanno 
					Gridò, che non t'accaggia 
					Oimè! qualche malanno 
					Che te ravvolga e noi: 
					Di te pietà e de' tuoi. 
					 
					Ma il ranocchio imprudente 
					Prosegue incaponito; 
					E il tigre che lo sente 
					E si tiene schernito, 
					Arrabbia; alla vendetta 
					Furibondo s' affretta. 
					 
					Nulla il ritien: s'avventa 
					Entro la vil pozzanghera; 
					Tutta co' piè la tenta, 
					E tutte abbatte o sganghera 
					Quelle fangose tane. 
					Escon ranocchi e rane. 
					 
					Ed ecco ei te gli acciuffa, 
					E gli strazia e gli uccide: 
					Nè cessò dalla zuffa, 
					Fin che alcun più non vide 
					Che a lui di turbar osi 
					Importuno i riposi. 
					 
					Fu la vendetta, è vero, 
					Troppo ingiusta ed atroce; 
					Ma del possente e fiero 
					Ah! nè pur colla voce 
					Si provochi lo sdegno; 
					Ch' ei più non ha ritegno. 
					 
					XI. 
					I due Ragni 
					 
					Spossato, egro ed afflitto 
					Un vecchio ragno geme  
					Privo di stanza e vitto, 
					E fra miserie estreme. 
					 
					Ahi! da crudel procella 
					La rete a lui fu guasta; 
					E a farne una novella 
					L' etade ah! gli contrasta: 
					 
					Ché in lui già venne meno 
					L' antica sua virtude, 
					Nè più materia in seno 
					Per trar le fila ei chiude. 
					 
					Lasso! e d'insetti erranti 
					Ei più non può far prede, 
					E presso ai neri istanti 
					Del suo morir si vede; 
					 
					Nè resta altro al meschino 
					Fra sì spietati affanni. 
					Che girne a un suo vicino 
					Di vigor fresco e d'anni. 
					 
					Squallido dunque e tristo 
					Vêr d' esso i passi move; 
					E appena quei l' ha visto, 
					Che a pietà si commove. 
					 
					So, dice, la tempesta 
					Qual ti fé' danno; or vieni: 
					Qui vieni, e compi in questa 
					Mia casa i dì sereni. 
					 
					Folle! che dico mia, 
					S' io te la dono e cedo? 
					Sì, tua vo' ch' ella sia; 
					Io più non la possedo. 
					 
					Per me già n' apparecchio 
					Un' altra. Or qui son tese 
					Le fila; e ancor che vecchio 
					Molte potrai far prese. 
					 
					Dice, e a partir s'aflretta. 
					E il vecchio in tronchi accenti 
					Ah! grida, aspetta, aspetta 
					Almen per poco, e senti. 
					 
					Ma l' altro via sen fugge; 
					Ed ei cogli occhi immoti  
					L'accompagna, e si strugge, 
					Ebbro di gioja, in voti. 
					 
					L' egro vecchio impotente, 
					Giovani, a voi ricorre; 
					Ma chi pietà ne sente? 
					Chi pronto lo soccorre? 
					 
					Ah seritto ancor ne' vostri 
					Fasti del ragno mio 
					Fia mai che mi si mostri 
					L' atto sì grande e pio? 
					 
					XII. 
					La Passera e il 
					Passerino 
					 
					Entro d' angusta gabbia 
					Di vimini contesta 
					Una passera mesta 
					Si distruggea di rabbia. 
					E a ragion; chè trastullo, 
					Misera! è d' un fanciullo, 
					Il qual fuor d' un balcone 
					Tienla in sì ria prigione. 
					 
					Di sangue a lei congiunto 
					Videla un passerino, 
					E da pietà compunto 
					Pel barbaro destino 
					Della cara parente 
					Tanta doglia ne sente, 
					Che per recarle aíta 
					Citnenteria la vita. 
					Quindi è che a lei d'intorno 
					S' aggira e notte e giorno. 
					Ma vana ogni arte ei teme, 
					E nel suo cor ne geme. 
					Pur che non può l' afletto 
					Acceso in gentil petto? 
					 
					Al suo solito gioco 
					Ecco il fanciul sen viene. 
					Apre la gabbia un poco; 
					Ma sì la man vi tiene, 
					Che ne resta impedita 
					Al prigionier l' uscita. 
					 
					Amico Cielo, ajuto, 
					Il passerino esclama; 
					E verso lei, ch' e' brama 
					Salvar, già move astuto. 
					Con giro incerto e spesso 
					Alla gabbia da presso 
					Or fassi ed or lontano: 
					Alfin s' abbassa e scende 
					Quasi al fanciullo in mano. 
					Semplice! ed ei la stende 
					Vago del nuovo acquisto: 
					Ma quanto e' ne fu tristo! 
					Chè la passera un volo 
					Fuor per l'aperto usciuolo 
					Dispiega in quel momento; 
					E il passerin contento 
					Di plauso alza una voce,  
					E via fugge veloce. 
					 
					In giovinetta etate 
					Bella è pur la pietate! 
					Di sè stessa innamora 
					Più bella ancor, qualora 
					S'usa a' congiunti suoi. 
					Giovani, dunque a voi 
					Sia d' esempio e conforto 
					Il passerino accorto. 
					 
					XIII. 
					Il Lupo e i Lupicini 
					 
					Jer con caccia felice 
					(Un lupo così dice 
					A' suoi figli) un agnello 
					Presi, un capro e un vitello 
					Ed oggi un ampio invito 
					Al parentado io fei 
					Di solenne convito. 
					V' avverto, o figli miei, 
					Che verranno a momenti, 
					Ed ai vostri parenti 
					Voi pur fate finezze; 
					Chè ben per balze e selve 
					Le loro gentilezze 
					Hanno anch'esse le belve; 
					Che che l' uom se ne dica 
					A noi razza nemica. 
					 
					Ma già quasi ad un punto 
					Ogn' invitato è giunto: 
					Ch' essi buona creanza 
					Credon l' anticipare; 
					Nè la scortese usanza 
					Han di farsi aspettare. 
					 
					Con vezzi e con inchini 
					Loro incontro si fanno 
					I prodi lapiditi; 
					E come meglio sanno 
					Usan tutte maniere 
					Di cortesíe sincere. 
					Un sol nè in piedi alzosse, 
					Nè in segno almen di festa 
					La coda o il capo scosse; 
					Ma cupo e immobil resta. 
					 
					Con fiero e torvo ciglio 
					Guatollo il padre; e fisse 
					Immobilmente il figlio 
					Tenne le luci, e disse: 
					Io già reo non mi chiamo; 
					Col cor gli onoro ed amo. 
					 
					Quasi uno scherzo il detto 
					Ognun con riso accolse; 
					E ben tosto si volse 
					Il pensiero al banchetto. 
					Fu lauto, fu condito 
					Da vivace appetito, 
					Senza puntigli in pace, 
					E con gioja verace. 
					 
					Ma quando ai vicendevoli 
					Congedi alfin si venne, 
					Il misantropo pazzo 
					Per non far convenevoli, 
					E tôrsi d' imbarazzo, 
					Nascoso allor si tenne, 
					E a nessun fu veduto 
					Far nè pure un saluto. 
					 
					Troppo quel tratto amaro 
					A tutti rïuscì, 
					E al dito sel legaro. 
					Ma passar pochi dì 
					Che il padre senza prede 
					Da' boschi ai figli riede, 
					Nè può l' avide brame 
					Saziar della lor fame. 
					Onde lor dice: Andate 
					Dai parenti, o miei figli, 
					E sì v' avran pietate; 
					Ch' io di novella caccia 
					Non ricuso i perigli 
					Per gir di cibo in traccia. 
					 
					Languidi i figli e smunti 
					Se n'andâr da' congiunti, 
					E quegli v' era ancora 
					Che in cor gli ama e gli onora. 
					I congiunti dier loro 
					E ricetto e ristoro: 
					Solo chiuso davante 
					L'uscio al filosofante 
					Tutti disser d'accordo: 
					Basti a costui l' affetto 
					Che gli serbiamo in petto. 
					Certo allor non fu sordo; 
					Ma intese che dal' opre 
					Il vero amor si scopre. 
					 
					Le gentili maniere 
					D' alma gentil son segno, 
					Son, qual d'amore un pegno, 
					Tra i congiunti un dovere. 
					Il vedeste; e gran bene 
					Spesso da lor proviene. 
					 
					XIV. 
					I due Carri e i Buoi 
					 
					Due colonne del par gravi 
					E con argani e con travi 
					Su due carri alfin si carcano. 
					Di stupor le ciglia inarcano 
					Varj buoi che quivi stanno; 
					Ed intendere non sanno 
					Come mai mover si possa 
					Sì gran peso, o con qual possa. 
					Quando sentono che loro, 
					Olà, dicesi, al lavoro. 
					Fatto è il carco; o fidi buoi, 
					A tirarlo or tocca a voi. 
					Scorre un gel lor per le membra, 
					E possibil ciò non sembra. 
					Ma, checchè loro ne paja, 
					D' essi aggiungonsi tre paja 
					Per ciascuno de' due carri. 
					E il villan poi grida: Or arri, 
					Arri là, carne cattiva. 
					Ed intanto, dove arriva, 
					Così il pungolo li fere, 
					Che, volere o non volere, 
					Forza è pur che alfin si movano. 
					Dunque uniti a gir si provano, 
					E concordi il carro tirano; 
					E concordi anch' esse girano 
					Le volubili unte rote. 
					Tal concordia e che non puote? 
					Ecco i buoi, nè con gran pena, 
					Tal che il credon essi appena, 
					Trar quei carri sì pesanti, 
					Meraviglia ai riguardanti. 
					Lungo i carri in su la via 
					Solco imprimono, e via via 
					Fan cammin; però fin tanto 
					Che concorde si dà vanto 
					Di compir le parti sue 
					Ogni rota ed ogni bue. 
					 
					Ma oimé! cigola d' un carro 
					Un rotin tristo e bizzarro: 
					Ogni carco egli detesta, 
					Ed ostinasi e s' arresta. 
					Tenta smoverlo il villano, 
					Ed arrabbiasi, ma in vano; 
					Nè più possono innoltrarsi 
					Di sudore i buoi cosparsi. 
					 
					De' due carri or che n' avvenne? 
					L'uno al suo destin pervenne, 
					E per colpa d'un rotino 
					Restò l' altro in sul cammino. 
					 
					Nelle case la concordia 
					Lieve rendene il gran peso; 
					Che importabile vien reso, 
					S' entra in esse la discordia. 
					Ahi però eh' ella vi ha spesso 
					Per voi, giovani, l'ingresso. 
					 
					XV. 
					L'Aquilotto e la Lodola 
					 
					Un superbo aquilotto 
					D' un' alta quercia in vetta 
					Vede una lodoletta 
					Posarsi a lui di sotto 
					In su la stessa pianta; 
					E a lei così si vanta. 
					 
					Non sai quale nel petto 
					Regio sangue mi bolle? 
					E come osasti, o folle, 
					Tu sì vile augelletto 
					Sol atto a inutil canto, 
					A me venir d' accanto? 
					 
					Tu della quercia in cima; 
					Al basso io qui mi siedo: 
					E ben con ciò mi credo 
					Mostrarti ossequio e stima: 
					La lodola all' audace 
					Tal fa risposta, e tace. 
					 
					Ma quegli a dir riprende: 
					Così a me si risponde? 
					Via via da quelle fronde. 
					Sol la tua vista offende 
					L'idee sempre in me deste 
					Di mia stirpe celeste. 
					 
					Dimmi, e chi su le sfere 
					Con ali ardite e pronte 
					Portò d'Ida dal monte 
					De' numi il bel Coppiere? 
					O chi ministra nuove 
					Ognor saette a Giove? 
					 
					Non sono i miei? ... Ma in quella 
					Sovra rapide penne 
					Il padre a lui sen venne, 
					E così gli favella: 
					Vieni alla prova, o figlio: 
					Fissa nel sole il ciglio. 
					 
					Vo' vedere se degno 
					Sei tu d'esser mia prole: 
					Se tu non reggi al sole, 
					Ah! te ne scopri indegno: 
					Né vo' nella mia schiatta 
					Soffrir onta sì fatta. 
					 
					Ei con pupilla tesa 
					Nel Sol le luci affisa; 
					Ma se n' abbaglia in guisa, 
					Che non sostien I' offesa. 
					E il padre al suol gittollo, 
					Ov' ei si ruppe il collo. 
					 
					Tra i rami intanto ascosa 
					Sta la lodola attenta. 
					Ode, vede, paventa, 
					E di fiatar non osa. 
					Ma l' aquila al ciel vola; 
					Ed essa si consola. 
					 
					Dunque, dice, era tanto 
					Dissimile da' suoi 
					Quel bel germe d' eroi, 
					E tal davasi vanto? 
					Ei là disteso al suolo 
					Ah mi fa sdegno e duolo! 
					 
					Il canto indi sciogliendo: 
					Cerchiamo i proprj pregi, 
					Non gli altrui fatti egregi; 
					Va per tutto dicendo; 
					E chi vantar si vuole, 
					Guardi se regge al sole. 
					 
					XVI. 
					Lo Scimiotto e le 
					Scimie avventuriere 
					 
					In signoril palagio 
					Ogni laute/za, ogni agio 
					Godeva uno scimiotto: 
					Non perch' ei fosse dotto, 
					O di prodi maniere; 
					Chè la sorte al sapere, 
					Od al valor non bada: 
					Sovente anzi le aggrada 
					Versar suoi doni in seno 
					A chi li merta meno. 
					Mio scimiotto, e per lei 
					Sol felice tu sei: 
					Ma ben farai tu aperto 
					Che non ne avevi il merto. 
					 
					Del nuovo stato altero 
					Eccolo il cavaliero 
					Che ad un balcon s' affaccia 
					E collo scherno in faccia,  
					Non senza acerbo ghigno, 
					Getta un guardo maligno 
					Su la vil plebe e pazza 
					Che stava in su la piazza. 
					 
					Di scimie avventuriere 
					Intente a dar piacere 
					Uno stuol quivi giunto 
					Era giusto in quel punto. 
					E già con arti nove 
					Elle cento dan prove 
					D'industria e di talento; 
					Onde, sebbene a stento,  
					Pure senza delitto  
					Gían procacciando il vitto. 
					 
					Ma il nobil vegetante, 
					Sul balcon sovrastante, 
					I piè batte, le gote 
					Gonfia, ed il capo scuote 
					Gridando: Olà! che veggio? 
					E tollerarlo io deggio? 
					Ah! la canaglia infame 
					Perchè non muor di fame? 
					 
					Sotto il pendio del tetto 
					Ampio avevan ricetto 
					Molti passeri; e i nidi 
					Lasciâr, scossi a quei gridi, 
					Dicendo: Oh boria matta! 
					E non son di tua schiatta? 
					Ma tu, che il devi e il puoi, 
					Così soccorri i tuoi? 
					Ah con obbrobrio eterno 
					Cada su te lo scherno! 
					E con alto schiamazzo 
					Gridaro: Al pazzo, al pazzo. 
					 
					Giovani, da' primi anni 
					Parli a voi la natura, 
					Nè folle error v' inganni. 
					Se avversa sorte e dura 
					De' vostri alcun condanni 
					A bassa vita oscura, 
					Non siate, no, fra i tanti 
					Scimiotti vegetanti. 
					 
					XVII. 
					I tre Ragni 
					 
					Nati a un tempo e cresciuti 
					Ognor fidi compagni 
					Su di un olmo tre ragni 
					AI tempo eran venuti 
					Di trar le reti loro; 
					E imprendono il lavoro. 
					 
					A gara ognun s' adopra; 
					Tesse le fila e piega, 
					E le ritorce e lega 
					Fin che compiesi l' opra; 
					E a vederla compita 
					L'un l'altro alfin s'invita. 
					 
					Ma di giro sì stretto 
					L'un la sua ragna ha tesa, 
					Che mal potrà far presa 
					Di volatore insetto; 
					Perocchè tra due fronde 
					S'accoglie e si nasconde. 
					 
					Due rami un po' distanti 
					L' altro co' fili abbraccia, 
					E in lor ben tosto allaccia 
					Più moscherini erranti; 
					Che, mentre sbatton l' ale, 
					Ei d'improvviso assale. 
					 
					Il terzo poi dall' alto 
					Al basso della pianta 
					Dare ai moscon si vanta, 
					Ed alle vespe assalto 
					Con forte rete e vasta, 
					Che a tutt' altre sovrasta. 
					 
					Ma che? d'opra sì bella 
					Il primo in cor si rode; 
					Al compagno ogni lode 
					Nega, e sì gli favella: 
					Eh! ch' io son persuaso 
					Che tutto devi al caso. 
					 
					Tu là da quella cima 
					Sconsigliato cadesti, 
					E la linea traesti 
					Avventurosa e prima 
					Sol per sottrarti a morte. 
					Oh, che non può la sorte! 
					 
					Già non così il secondo; 
					Ch' anzi al lavoro altero 
					Egli applaude sincero; 
					E indagator profondo 
					Più volte attento il mira, 
					E ad emularlo aspira. 
					 
					Sâle dell' olmo in vetta; 
					Forte un filo v' appende, 
					Su quel si libra e scende, 
					Godendo d' un' auretta 
					Che penzolon l'accosta 
					Ad una quercia opposta. 
					 
					Su d' essa egli ad un tratto 
					Felice un salto spicca; 
					S' aggrappa, il fil v' appicca: 
					Ed ecco il ponte è fatto, 
					Su cui sicuro e scaltro 
					Da un arbor passa all' altro. 
					 
					Posar più non si vede 
					Or alto, or basso ed ora 
					Nel vôto aer lavora, 
					E qua viene e là riede. 
					In fin l' opra a tal crebbe, 
					Che mai l egual non v' ebbe. 
					 
					Vago di bella fama 
					Sprezzò fatiche e pene; 
					E il prode ragno ottiene 
					Ancor più ch' ei non brama. 
					Di già il compagno ei vinse, 
					Che ad emular s' accinse. 
					 
					Ma l' inviclo e maligno 
					(Giovani, lungi sia 
					Da voi tanta follia) 
					Con livid' occhio arcigno 
					Si strugge all' altrui vanto, 
					E muor di fame intanto. 
					 
					De' codardi è retaggio 
					L' invidia, e di lor degno. 
					Ma d' ogni bello ingegno 
					Emulatore é il saggio 
					Che spesso ei vince poi 
					Co' nuovi studi suoi. 
					 
					XVIII. 
					I due Cavalli 
					 
					Lacero i fianchi e il dosso, 
					La testa curvo al suolo, 
					Magro, che scopre ogni osso, 
					Un rozzon barcajuolo 
					Trae con ansante lena 
					Carca nave a gran pena. 
					 
					Or lento innoltra; in atto 
					Or cade miserando; 
					E sente ad ogni tratto 
					Voce che bestemmiando 
					L' orecchio gli rintuona, 
					E inaii che lo bastona. 
					 
					Per quella stessa via 
					Di ricchi fregi altero 
					Incontro a lui venia 
					Ben nudrito destriero, 
					Di piè snello e di membra 
					Così, che danzar sembra 
					 
					Scuote su l'ampie spalle 
					Il folto crin che ondeggia; 
					Suona percosso il calle, 
					L' aere ai nitriti eccheggia. 
					Così pien di sé slesso 
					Giunge al meschin da presso. 
					 
					Guardalo l' infelice; 
					Ed, Oh! tu che natura 
					Hai meco egnal, gli dice, 
					Abbi di tuia sciagura 
					Pietà. Vedi qual sorte 
					Ahi! mi riduce a morte. 
					 
					Sbuffa, di foco avvampa, 
					Più volte con disdegno 
					Batte il destrier la zampa; 
					Poi gli risponde: Indegno! 
					T' agguagli a' pari miei? 
					Ma dimmi, e chi tu sei? 
					 
					Ah questa dunque in dono  
					Aita tu mi porgi? 
					Dice il meschin; Chi sono 
					Mi chiedi? e non lo scorgi? 
					Benchè in destin sì rio, 
					Sono un cavallo aneh' io. 
					 
					Antico scritto io serbo, 
					Cui non vorrei dar fede; 
					Ei nota che il superbo  
					Un calcio al miser diede; 
					Ma certo è che la groppa 
					Gli volge e via galoppa. 
					 
					Va, snaturato ed empio; 
					Meco ognun ti detesti. 
					Ma oimè! che il tristo esempio 
					De' casi più funesti 
					Rinnovato ognor mira 
					L' oppresso, e ne sospira. 
					 
					Cara innocente etude, 
					Che i teneri ancor serbi 
					Bei sensi di pietade, 
					Odia, fuggi i superbi; 
					E se un miser tu vedi, 
					Chi sia, giammai non chiedi. 
					 
					Ch' ei ti diría gemente: 
					Un uomo anch' io son quale 
					Il ricco ed il possente, 
					Ma non in sorte eguale 
					Tu il compiangi; e, se puoi, 
					Provvedi a' mali suoi. 
					 
					 
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