XIX.
La Mosca madre e la Mosca figlia
Una mosca semplicetta
Alla madre sua diletta
Varie cose a narrar prese
Da lei viste e non intese.
Io, le disse, a caso un giorno
Entro a splendido soggiorno
Penetrai, dove in gran sala
Addobbata a tutta gala
Grande vidi un personaggio
Cui rendea gran corte omaggio.
Gli occhi in loro attenti e fissi
Tenni alquanto, e tra me dissi:
E fia ver che vanti un solo
Tal d'amici e tanto stuolo?
Ma finiti i baciamani
Ecco uscire i cortigiani.
Esco io pure; e, uscita appena,
Qual mi s' apre nuova scena?
Un vegg' io che si contorce
Nelle spalle, e i labbri torce
Stranamente; un che sbadiglia
E stropicciasi le ciglia;
Un che crolla e braccia e testa;
Un che irato il suol calpesta;
Tutti in somma danno segno
O di noja ovver di sdegno.
Donde questo, o madre mia?
È in lor frode, ovvcr follia?
Mosca Madre:
Quei che hai visti, o figlia cara,
Ambizione, o speme avara,
O bisogno a corte spinge:
Amor, fede, ossequio finge
Ciascun d'essi, e cova in petto
Il livore od il dispetto.
Così pur per boschi e selve
Al lïon veggio le belve
Rispettose far corteggio;
Ma se vecchio o infermo il veggio
Sì che manchigli ogni possa,
0 s' ei cade in una fossa,
Quando san che siano inulti,
Quai gli fanno e quanti insulti!
La grandezza ai dì felici
Schiavi ha sì, ma non amici.
Mosca Figlia:
Vo' narrarti altra vicenda,
Ch' io non so come l'intenda.
Tra gran gente un' altra volta
Mi trovai, che in giro accolta
Si sedeva a lauta mensa,
Ove copia aveavi immensa
D' ogni cibo il più pregiato
A delizia del palato.
Si facean l'un l' altro inviti
A goder quei parassiti;
E insaccando a crepa pelle
Esaltavano alle stelle
Del padrone a tratto a tratto
Il buon gusto, il nobil tratto,
Ed in anni così scarsi
I tesori a tempo sparsi.
E le lodi son sincere,
Chè a mangiar tornano e a bere.
Ma non so per qual bisogno
(Il ver dico e sembra un sogno)
Il padron di là per poco
Ritirassi in altro loco.
Ecco subito un bisbiglio,
Un girar cauto di ciglio;
Comun quindi un riso acerbo;
Chi ridicol, chi superbo
Chiamar osa il ricco assente;
Chi conclude finalmente:
Su, spolpiamolo in buon' ora,
Ch' ei vuol gir presto in malora.
Quali amici, io dissi, ahi quali!
Se son tutti a questi eguali?
Mosca Madre:
Figlia mia, con tal perfidia
La ricchezza ognor s' insidia.
Finti ha plausi e falsa lode,
Sol però finchè si gode.
E del corvo io mi rammento,
Cui la volpe a tradimento
Adulando, fuor del becco
Trasse il cacio e il lasciò in secco.
Sol l' accenno, perchè il sai;
Ch' altre volte io tel narrai.
Mosca Figlia:
Lode al ciel, che così tristi
Non son tutti. Io poscia ho visti
Degli amici più sinceri,
Pochi sì, ma forse veri.
A un uom dotto erano accanto,
E l' udían; cogli occhi intanto;
E co' detti e in tutti gli atti
Gli mostravan stupefatti
Grande stima. E usciti fuora
Io gl'intesi, che tuttora
Oh, dicean, quale dottrina!
Oh che mente inver divina!
Ma non so quel ch' io mi dica;
Quell' uom dotto avea nemica
La fortuna; e di coloro,
Che splendean per gemme ed oro,
Nè men un la Borsa aperse,
'O soccorso almen gli offerse.
Mosca Madre:
Che di' tu d' aita o dono?
Certo amici quei non sono.
Se alcun dotto ammirar sanno,
Fuor ch' encomj, altro non dánno.
Ma vuoi, figlia, il bel piacere
Veri amici di vedere?
Cerca un uom saggio e dabbene.
In trovarlo ah! ci son pene;
Pure alcuno io già ne vidi.
Quegli ha solo amici fidi:
O ch' ei sol la scelta accerta,
O che forse ei sol li merta.
Schiavi ha il grande in suo retaggio;
Molti ha il ricco adulatoti;
Pochi ha il dotto ammiratori;
Veri amici ha solo il saggio.
XX.
L'Asino e il Cavallo
A un destrier vivea vicino
Egro un asino meschino;
Ed, Oh! senti, un dì gli dice,
Quanto io sono, oimè, infelice!
Non ho un giorno in tutto l' anno
Che per me sia senz' affanno.
Ora torbida ho la testa,
Or la tosse mi molesta;
Or mi tremano i ginocchi,
Sì che par che al suol trabocchi;
Il respiro ora mi manca,
Il cor batte, il piè si stancaj,
Un malanno ho sempre addosso:
Dimmi tu, che farci io posso?
Il destrier risponde a lui:
Io t' intesi; i mali tui
Mali son d' ipocondria;
Non vi vuol che l' allegria.
L' allegria è d' ogni male
Il rimedio universale.
Tu di' bene, e il dirlo è bello,
Gli soggiunse il somarello;
Ma per me v' è un' altra pena;
Che ad ognora in su la schiena
Grave soma mi s'impone
Cui non reggo, ed il padrone
Senza aver di me pietate
Mi da calci e bastonate.
Allegría, mio buon amico,
Allegría vi vuol, ti dico.
Sì gli replica il destriero;
Sol per lei si fa leggiero
Il rigor d'avversa sorte,
O sostiensi almen da forte.
Ahi! per me v' è peggio ancora,
L' asinel ripiglia allora;
Che il padron con mano avara
Scarsa paglia a me prepara,
E di fame io vengo meno.
Tu di biada e tu di fieno
Grande hai copia; ed ai funesti
Casi miei tu sol potresti...
Ma il destrier che a ciò fa il sordo,
Alto esclama: Io ti ricordo
Di scacciare l' umor negro:
Fatti cuore e sta su allegro.
Quindi parte, e nell' ambascia
Più che mai l'asino ei lascia.
Allegria: ve' qual ricetta
Dagli amici or sol si dêtta.
Cari amici indifferenti,
Eh! non vani complimenti;
Ma co' fatti l'umor negro
Mi si tolga, e sarò allegro.
L' amicizia i fatti vuole,
Non inutili parole.
XXI.
Il Veltro invecchiato
Fin da sua gioventù
Un veltro cacciatore
Servì ricco signore;
Ma invecchiato, ah non più
Il buon veltro fedele
Può seguirlo alla caccia,
Ed il signor crudele
Di casa lo discaccia.
Deh pietà del mio stato!
Grida lo sventurato:
Misero in che peccai?
Io per te consumai
Tutto il fior di mia vita,
E per te porto ancor piagato il dorso;
Or, se mi neghi aíta,
E dove, lasso! io troverò soccorso?
Intanto in vano ei chiede
Di lambirgli la mano,
E gli si stende al piede,
E pietà implora in vano.
Ei di là dunque uscito in pochi dì,
Più che di fame, di dolor morì.
Un ladroncel che il vide,
Dentro il suo cor ne ride;
E dice: Alfin tu non sarai più desto
La notte ad abbajar; già i miei disegni
Cento volte turbasti: il tempo è questo,
Che a compierli io m' ingegni.
Quindi i compagni aduna;
E al tacito favor dell' aria bruna
In casa entrati del padrone avaro,
Tutta la depredaro.
Questa favola mia
Deh giammai di nessun la storia sia!
XXII.
Il Rivo e il Pastore
Con roco mormorío
Quasi oppresso da' guai
Ognor doleasi un rio.
All'udir tanti lai,
Un pastor del contorno
N' ebbe pietade; e un giorno
Dimandò quale il prema
Sciagura, onde cotanto
Egli s' affanni e gema.
E il rio versando pianto,
Oimè, disse, tu vedi
Che il tuo malnato armento
Turba co' sozzi piedi
Il mio sì puro argento;
E tu del mio dolore
La cagion tu mi chiedi?
Confortollo il pastore;
E ad altro fonte poi
Guidò gli agnelli suoi.
Ma, come pria solea,
Il rio pur si dolea.
Colà il pastor sen riede,
E di nuovo il richiede,
Qual mai novello danno
Cotal gli rechi affanno.
Io son pur l' infelice!
Lagrimando egli dice:
Io così pure ho l' onde,
Sì fiorite ho le sponde,
Che vinco ogni ruscello;
E pur non evvi agnello
Che in questi estivi ardori
Gusti i miei freschi umori.
Ah così dunque io sono
Lasciato in abbandono!
Che fa il pastor? rimena
Gli agnelli alla sua sponda;
Ma cauto sì gli affrena,
Che alcun non è che tenti
Col piè turbargli l' onda.
E il rio nuovi lamenti
Mette; ed ahi! gli dan pena
Degli agnelli i belati,
E de' cani i latrati.
Ben il pastor s' accorge
Ch' egli a quel piangoloso
Invan soccorso porge.
Lo compiange pietoso;
E la sua folle ambascia
Sfogar piangendo il lascia.
Molti v' ha di natura
Sì misera e scontenta,
Che allevïar si tenta
Invan la lor sciagura.
Tu fa quello che puoi;
E dir lasciali poi.
XXIII.
Il Filosofo e la Mosca
All' uom leggi prescrivea
Un filosofo indiscreto;
E volea che sempre lieto
Nella sorte avversa e rea
Fosse l' uomo, e indifferente
Nella prospera e ridente.
E colui chiamava stolto
Che in suo core sente affanno
Per qualsiasi grave danno
In cui giaccia il corpo avvolto;
Si trattasse di ritorte,
Si trattasse anco di morte.
Ma una mosca in volto il punge,
Mentre ei siede e pensa e scrive;
E punture ognor più vive
Alle prime ardita aggiunge:
E più volte ei con la mano
La scacciò da sè lontano.
Pur colei con ali pronte
Fugge e riede; e fin l' orecchia,
E fin l' occhio a lui punzecchia,
Non che labbri e gote e fronte:
E il filosofo apatista
Già si turba alquanto in vista.
Né però cessando il gioco,
Alfin tanto ei s'irritò,
Che le carte via gettò
Tutto sdegno e tutto fuoco;
E levatosi in su i piè,
D' alto cruccio segno diè.
Dibattendo allor le alette
Quella mosca tristanzuola
Ride, esulta e via sen vola.
Ma gran pezza ivi si stette
Di sè stesso vergognoso
Il filosofo pensoso.
Dunque a me diè tanta noja
Una mosca, ei disse poi,
E vo' ch' altri i ceppi suoi
Lieto soffra e lieto moja?
Pazzo è ben chi non misura
Dalla sua l' altrui natura.
XXIV.
La Colomba e il Capro
Rapito fu da dispietato artiglio
Alla colomba un figlio;
E la povera madre il pegno amato
Chiamando in ogni lato
Senz' aver posa mai
Vola e rivola, e il cielo empie di lai;
E il suo duolo è sì fiero,
E sì dì e notte inconsolabil piagne,
Che pietà n' hanno i boschi e le campagne.
Solo un capron severo,
Che di saggio si usurpa il nome e il vanto,
Ispido il mento, e grave il sopracciglio,
A che, le dice, a che, stolta che sei,
Il lamentar ti giova e il gemer tanto?
Omai t' accheta, e rasserena il ciglio.
Non per querela o pianto
Renderai vita al figlio.
E ver, risponde la dolente, è vero;
Ma ben saper tu dèi
Ch' altro voglion conforto i casi miei.
Cotesto tuo rigore
Irrita, non rattempra il mio dolore.
Non opporsi in un tratto al duol conviene:
Pria lascia un giusto sfogo alla natura;
A poco a poco poi cauto procura
Mitigarne le pene;
E a ciò far ti rammento
Che amor vi vuol, non folta barba al mento.
XXV.
Il Topolino pietoso
Del verno ai' giorni algenti
Avean di cibo inopia
I passeri dolenti;
E grande n' avean copia
I topi; ascosi i primi in un pagliajo,
E fean gli altri soggiorno in pien granajo.
Ma fuor di casa usciro
Un placido mattino,
E quindi insiem s' uniro
Un gentil topolino,
E un passerin che per alzarsi a volo
Vigor non sente, e saltella in sul suolo.
Oh che dolce conforto,
Il topolin dicea,
Mi da questo diporto!
Dolce si; rispondea
Il passerin; ma, oimè! che della fame
Ei non acqueta in me l'avide brame.
Che? scarsezza hai di vitto?
Replica quello; — e questo,
Che quanto è in core afflitto,
Tanto negli atti è mesto,
Io, dice, e meco i miei (nè il pianto affrena)
Nella penuria, oh ciel! viviamo appena.
Facile in giovin petto
La pietade discende:
Ed un tenero affetto
Tutto agita e comprende
Il picciol topo: ei pensa; e poscia in fretta
Parte, dicendo: Or or ritorno, aspetta.
Riede a casa veloce;
E giunto a' suoi, lor dice
Con rotta ansante voce:
Oh son pur io felice!
Se da voi s'ode un' umil mia richiesta,
Che strana vi parrà, ma pure è onesta.
L'incontro espone in pria,
Ch' egli ebbe; e quale intese
Esservi carestia
De' passeri al paese.
Con caldi preghi alfin (bella virtude!)
Lor qui l' accesso apriam, così conchiude.
Ma un topo ingordo, e stolto
Amator di sé stesso,
All' orator rivolto
Disse: Che altrui l'accesso
Si dia nel nostro regno, eh! non conviensi.
E se sono in bisogno, il ciel vi pensi.
Soggiunse un topo avaro:
Diamo loro ad usura
O miglio, se l' han caro,
O paníco o mistura;
E rendane! al raccolto il doppio poi.
Così facciam buon giucco ad essi e a noi.
Altri i topi politici
Facean progetti; e a dire
Avean su tutto i critici;
Ma si sente morire
Il topolino, e grida: In abbondanza
Sì grande, altrui negar ciò che n'avanza?
E il dice in un tal atto
Di pietà misto e d' ira,
Che riman sopraffatto
Ognun che l' ode e mira.
Alcun più non s' oppone, e d'improvviso,
Che sieno ammessi i passeri, é deciso.
S'affretta in sul momento
Verso lui, che l' attende,
Il topolin contento.
Quegli il vede, e comprende
Che lieto è in faccia; e questi, Oh buone nuove!
Esclama; e l' un dell' altro incontro move.
Già son presso; e già l'uno
Disvela quali apporti
De' passeri al digiuno
Popol ampli conforti;
E l' altro quasi per la gioja impazza,
E batte l' ali tremole e svolazza.
Ambo alfin la novella
Ai passeri apportaro.
Oh qual festa fu quella!
E quale allor ch'entraro
Nell' ampio e pien granajo! Io qui m'arresto,
Giovani, e lascio a voi pensare il resto.
Solo aggiungo: Ah se in core
Col bell' atto amoroso
Dolce destovvi amore
Il topolin pietoso,
Al bisogno favor non sia chi neghi
O coll'opra potendo, o almen co' preghi.
XXVI.
Il Montone con le corna
D'Insubria su pe' monti
E nell' erboso piano
Portar su le lor fronti
De' corni il vezzo strano,
Come in altre regioni,
Non sogliono i montoni.
Se qui un monton gli avesse,
Quai ne farían romori
Le pecore, e con esse
Gli agnelli ed i pastori!
Or qui appunto il bizzarro
Caso avvenne, ch' io narro.
In su gli ardori estivi,
Quando qua e là divise
Nel bosco e lungo i rivi
Si stan l' agnello assise,
Insieme due di loro
Giacean sotto un alloro;
E discorrendo, l'una
Chiedea: Non hai tu intesa
Oggi novella alcuna?
Cui l' altra un po' sospesa,
Cosa io vidi, le dice
Che disvelar non lice.
A te però che sei
A parte, o dolce amica,
Di tutti i pensier miei,
È dover ch' io la dica.
Ma nel tuo cor sepolta
Rimanga: e sì l'ascolta.
Al monton che si noma
L'Albin, quel dall'intatta
Lunga lanosa chioma,
Che spesso è in quella fratta,
Spunta, oh con qual suo scorno!
Tra i velli ascoso un corno.
E l'altra: Oh lo conosco!
Sovente il vidi altero
Girsene al prato e al bosco
Del gregge condottiero.
Mi sa mal; poverino!
Colle corna l'Albino?
Ciò detto, ella ne ride
Con la compagna, e poi
Da quella si divide,
E affretta i passi suoi
Ad una sua sorella,
Cui dice: Odi novella.
Porta l'Albino in fronte
Due corni, e per l' ambascia;
Scherni temendo ed onte,
Più veder non si lascia.
Lo dico a te; ma cose
Son da tenersi ascose.
So il mio dovere anch'io;
Risponde; ma un affare
Mi chiama altrove: addio.
Parte, e senza fiatare
Corre sul colle aprico
Da un agnello suo amico.
Grida ben lungi ancora:
Oh senti cosa strana
Che mi narrò pur ora
L' amata mia germana:
Ma solo a te, mio fido
Amico, io la confido.
L'Albin, l'Albin, che tanto
Andar superbo era uso
Adesso (odi bel vanto!)
Sta in un antro rinchiuso,
Perchè di quattro corna
Porta la fronte adorna.
Sì dice con ischerno:
L' altro applaude. Eh oh come
Tristo si fa governo,
Buon Albin, del tuo nome,
Mentre van rintracciando
Il perchè, il come e il quando!
Sol resta alfiri l' agnello;
Ed a narrar va il fatto
Tosto ad un altro, e quello
A un terzo; e in breve tratto
Ognun ne parla, e coppia
Di corna ognun v' accoppia.
La selva così crebbe
Di quei corni ramosi,
Che mai l' egual non v' ebbe
In capo a cervi annosi.
Pure in fronte all'Albino
Sbuca un sol cornicino.
Se un sassolin nell' onda
Tu getti, un cerchio miri.
Cui tosto altro seconda,
E un terzo e un quarto in giri
Più vasti; e pien n' è alfine
Dell'onda ogni confine.
E se ad un manifesti
Gli altrui difetti occulti
Che tu tacer dovresti,
Prima cagion d' insulti
Ognor più infami e rei,
Quel sassolin tu sei.
XXVII.
Il Po e la Sponda
Del Po la rapid' onda
Quasi così per gioco
Giva d' arena un poco
Furando ad una sponda:
La quale al fiume, ah frena,
Dicea, l'onda rapace.
E il fiume: Eh datti pace.
Che male è un po' d'arena?
Segue u rodere intanto
L' onda sott' esso il lilo,
E buca in più d' un sito,
E vi s'interna alquanto.
Pietoso fiume, grida
La sponda allor di nuovo,
Non vedi il mal ch' io provo?
Deh! l' onda frena infida.
Ma il fiume: E qual t' assale
Vano timor? t'accheta,
Nè turbarmi indiscreta.
Poca arena è un gran male?
Si gonfia intanto, e freme,
E mugghia ognor crescente
La torbida corrente,
E ogni riva ne geme.
Ondeggia il flutto incerto
Minacciando rovine:
Urta la sponda alfine,
Ov' è già il calle aperto.
Senza trovar pietade
Ella in van chiede aíta.
Il flutto ahi! più s' irrita.
Ella non regge, e cade.
E via, sordo ai lamenti,
Porta sul dorso ondoso
Il Po, ladro famoso,
Campi, case ed armenti.
Le man dal poco afirena:
Vien dal poco l' assai
Però non dir giammai:
Che male è un po' d' arena?
O mio fanciul, m'intendi?
In casa od alla scuola
Poco or da te s' invola,
E quasi a gioco il prendi.
Ma degli affetti rei
Già cresce il Qutto infesto:
E tu (deh quanto presto!)
Un gran ladro già sei.
XXVIII.
Il Verme, la
Mosca e il Fancíullo
Stava filosofando un verme vile
Tra il fango e il lezzo involto;
E, qual più d' un bestemmia a lui simíle,
Tutto è materia, alfin gridò lo stolto;
Ed una mosca impura,
Colà tratta a gustar quella sozzura,
Applaudendo esclamò con labbro immondo:
Altro non ha fuor che materia il mondo.
Ma un fanciul che gl' intese, Oh! disse, io voglio
Di lor prendermi gioco;
Punire io vo' quel temerario orgoglio.
E così stato un poco
Pensoso, eccol che i passi
Move in punta di piè, ritiene il fiato,
E lieve e inosservato
Sopra di lor già fassi.
Ambo egli assale insieme:
Preda fa della mosca; e tra le dita
Stretta l' ha sì, che vi perdea la vita;
Col piede a un tempo stesso il verme ei preme.
La mosca allor, Nel colpo, oimè! non vano
E chi, dice, al fanciul drizzò la mano?
Ripiglia il verme: E chi gli resse il piede
Che mi calpesta e fiede?
Di morte poi nell' ultimo periglio
Soggiungono ambidui,
Donde il senno ch' ei mostra? e donde il moto?
Donde l' arte e il consiglio?
Ah non so che d' ignoto,
Uno spirto che il regge, ah certo è in lui.
E confessar morendo
Ciò che negar vivendo.
Che spirto ha l'uom, che il regga in suo trastullo.
A convincerne basta anche un fanciullo.
È pur, finchè la sorte
V' arride, o vili immondi vermi, e pure
Voi di negarlo osate, o mosche impure?
E sol chiarirvi, ahi sol potrà la morte?
XXIX.
Il Corpo e i suol Sensi
Doleasi il corpo umano,
Perchè natura in lui
Con troppo avara mano
Sparsi abbia i doni sui.
Tra gli altri esser dovrei,
Diceva, il più pcrfetto;
E me ne' sensi miei
Vince un bruto, un insetto?
L' orecchio non fu sordo
A' suoi lamenti; e dice:
De' sensi tuoi l' accordo
Non forse è il più felice?
Unisci insiem noi tutti;
E dinne se con tale
Arte non siam costrutti
Che vinci ogni animale.
Chi l' armonico intende;
Chi di noi meglio scopre
Il bello, il grande, o imprende
Più grandi e più bell' opre?
Passa in quel punto, tratto
Da due destrieri, un cocchio,
E disdegnosi in atto
Disser la mano e l' occhio:
Ecco i destrier che sono
Di te più snelli al corso;
Noi te li diamo in dono,
Noi lor ponemmo il morso.
Più grato olà ti mostra.
Che più da noi richiedi?
Nel cocchio, opera nostra
De' bruti il re tu siedi.
XXX.
Il Senno e la Moda
Tutto in aria severa
Disse il Senno alla Moda:
So che t' ama e ti loda
Un'infinita schiera
Di folli tuoi seguaci;
A me però non piaci.
Tutta spirante vezzi
Gli rispose madama:
Se ognun mi loda e m' ama,
Perchè tu sol mi sprezzi?
Ah voglie hai troppo austere;
Nè curo a te piacere.
Ma te non mette in pene,
Sere il Senno ripiglia,
Un riccio, una smaniglia?
Deh dimmi almen qual bene,
Se pure tu vi pensi,
Gli affanni tuoi compensi.
Cui l' altra: E non si prova
Dal mio genio incostante
Che nell'uom folleggiante
La libertà si trova,
Se in cento fogge e cento
Mi cangia a suo talento?
Il Senno dalle risa
Non potè contenersi.
Oh! la è bella a sapersi,
Disse; e provata è in guisa
Degna di questa etade
Dell' uom la libertade.
Provaron già le scuole
Con più e più d' un tomo
La libertà dell' uomo:
Altro la Moda or vuole.
Un gioco, un motto, un cenno
Bastare a tutto or denno.
Pur se non ci ha contesa,
Se il vero è sì evidente,
Che ognuno il vede e sente,
Provarlo è un fargli offesa;
E allor parmi che stia
Bene una bizzarría.
XXXI.
Il Lupo e il Cane
Rimase il can dopo conflitto atroce
Preda del lupo, e con dolente voce
Ahi! gli disse, qual empio
Furore è il tuo? Dunque lordarti il dente
Vuoi di sangue innocente?
E far di me potrai senza rimorso
Barbaro ingiusto scempio?
Deh l' unghia frena e il morso:
Lascia di masnadiero il vizio infame;
Sii pietoso, dabben; virtude apprendi;
Ed altro cerca a saziar la fame.
Virtù, vizio, rimorsi... Olà, che intesi?
Quai per me sono ignote voci? e donde,
Il lupo al can risponde.
Lehai tu imparate? — E il can: Dall'uom le appresi.
Io con lui vivo, il sai,
E da lui cento volte io le ascoltai.
E ben, riprese il lupo, ha l'uom dei lumi
Oh' io non ho, tu non hai:
Con essi ei regga pur vita e costumi.
Conosco io sol ciò che mi nuoce o giova;
Ed eccone la prova.
Per naturale istinto
Io sono a te nemico, a me tu il sei.
Io t' assalii, t' ho vinto;
Ed or pasto a' miei donti esser tu dèi.
Sol tra noi regna (e il mise intanto a morte)
La ragion del più forte.
Son voci ai bruti ignote
Virtù, vizio, rimorsi.
Ragione all' uom gli scopre; e pur l' uom puote
Ribellante a' suoi lumi
E de' lupi e degli orsi
Imitare i costumi?
Deh, giovani innocenti, al suo bel raggio
Deh voi non fate mai sì grave oltraggio.
XXXII.
La Farfalla e la
Nottola
Stanca una farfalletta
L' ali raccoglie, e posa
D'una vermiglia rosa
Su la tremola vetta;
E allor la notte in cielo
Stendeva il bruno velo.
Ella pur anco desta
Gli occhi solleva, e i tanti
Astri fissi ed erranti
A contemplar s'arresta,
E l' alta osserva immensa
Azzurra vòlta; e pensa.
Dell' età nostra è vanto,
Ch' oggi filosofesse
Sien le farfalle anch' esse.
Dunque ella pensa, e intanto
Dice: Ah mondi son quelle
Che a me sembrano stelle.
Ma, come qui tra noi,
E mari e valli e monti,
Ed erbe e fiori e fonti
Colà vi sarau poi?
O tanti e sì gran mondi
Fien deserti e infecondi?
No certo: ed animali
Vi sono; e bianche e gialle
Vario pinte farfalle
A noi in tutto uguali.
Ah che mirarle io bramo!
Quasi direi ch' io l'amo.
Così per mondi ignoti,
Ch' e' par ch'essa li veggia,
Col suo pensier passeggia;
E i perigli mal noti
Le sono, ond' essa è cinta,
Onde vedrassi estinta.
Già di lei viene a caccia,
Già l' assale una sozza
Nottola, e se l' ingozza,
Mentre di mondi in traccia
Va del ciel su la vòlta,
Nè a sè pensa la stolta.
O farfalletta mia,
E che mai ne consigli?
Che a' suoi proprj perigli,
Che a sè si pensi in pria;
E che allor poi si puote
Cercar di cose ignote.
XXXIII.
I Genitori e la Figlia
Con figlia giovinetta
Tenera madre uscía
Di casa; e cauta in pria
La guarda. Ah senti, aspetta,
Le dice; e meglio, o cara,
Ad esser bella impara.
Il volto eh! non sì basso:
Un po' più in fuori il petto:
Il fianco un po' più stretto:
Movi più svelta il passo.
Uh! che foggia è cotesta!
Alla, dich' io, la testa.
Le pupille serene
Girin, nè troppo tardo
Nè mobil troppo il guardo:
Sul labbro anco sta bene
A tempo un bel sogghigno,
Schietto, ve', non maligno.
Troppo amante la madre
Sì le dicea. Ma saggio
Con ben altro linguaggio
Così le disse il padre:
Ah senti; e in vece, o cara,
Ad esser saggia impara.
Sii modesta ed umile,
Di cor pura e di mente,
Ingenua ed innocente,
Nè però men gentile.
Figlia, se saggia sei,
E che bramar più dèi?
Buon padre, i detti tuoi
Caduti in suolo avaro
Oimè! che a vôto andaro!
Ma ne' ricordi suoi,
Per suo malor, felice
Ahi! fu la genitrice.
Vie più ch' essa non volle,
La figlia vanerella
Apprese ad esser bella;
E in van di pianto molle
(Che più non val consiglio)
Ebbe la madre il ciglio.
Di saper, di virtudi
L'alma s' adorni e fregi.
Questi son veri pregi;
Qui a por s' hanno gli studi.
Sciocco, di vizj onusto
Che vale un bellimbusto?
O fanciulle ingannate,
O giovanetti illusi,
Tutt' altri, oimè! son gli usi
Che a seguir voi vi fate;
Ma, se saggi sarete,
Che più bramar potrete?
XXXIV.
Il Ragno e il Grillo
Un ragno in modo strano
Librava a un filo appeso
Del proprio corpo il peso;
E, per serbarsi sano,
Di cibarsi avea cura
Sempre in ugual misura.
Ed è in ciò tanto esatto,
Che con occhio tranquillo
Non può mirare un grillo
Che mangia ad ogni tratto;
E il riprende e lo sgrida,
E il chiama un suicida.
Scrupolosaggin tanta
Il grillo udir non vuole;
Anzi pur, come suole,
E mangia e salta e canta
Con mai non interrotte
Vicende e giorno e notte.
Il ragno a lui dicea:
Durarla tu non puoi.
E tu? impazzir tu vuoi;
Il grillo rispondea.
Troppo sci spensierato.
Troppo sei dilicato.
La state ad ambo amica
Senza sentirne offesa
Passaro in tal contesa.
Ma la stagion nemica,
L'autunno, ecco, in mal punto
Con piogge e venti è giunto.
Sen risente, e vien manco
Librato il ragno in alto.
Balza l'ultimo salto
Spossato il grillo e stanco.
Così con ugual sorte
Ambo colpì la morte.
Per altrui documento,
E non per vano orgoglio
A questi insetti io voglio
Ergere un monumento;
E incidervi ecco quale
Io vo' detto morale:
Un ragno e un grillo in questa
Giacciono tomba oscura.
L' un s' ebbe troppa cura:
Fu l' altro sempre in festa:
Ma nell' opposto eccesso
Li colse un fato istesso.
Passeggier, che ciò leggi,
Per te il di mezzo eleggi.
XXXV.
L'Aquila e l'Asino
L'aquila che sicura
Le nubi fender suole,
Gli occhi fissar nel sole,
L' aura spirar più pura,
Non rade volte al suolo
Anco ritorce il volo.
Ma un dì che per ristoro
Al dolce nido scende,
Un asin la riprende;
E con raglio sonoro
Le dice: Oh come puoi
Rieder quaggiù tra noi?
Da te che al più bel lume
Sei delle sfere avvezza
Questo suol non si sprezza?
Eh! presta a me le piume;
Chè alla terra voglio io
Dare un eterno addio.
Io le vicende alterno,
L' aquila gli rispose;
E che? su le animose
Penne ad un volo eterno
Vuoi tu ch' i' regger possa
Augel di carne e d' ossa?
Ben tanto in alto io m'ergo,
Che i nembi addietro io. lasso;
Ma quindi al suol m' abbasso
Per vitto e per albergo;
E lunga età mi lice
Così viver felice.
Dell' alma ergete i vanni,
Giovani; del sapere
Alle sublimi sfere:
Ma tra gl'illustri affanni
Al sonno, al cibo, al gioco
Trovate il tempo e il loco.
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