Favole Lista

Libro decimoprimo
 

Libro decimo
 

I due Topi, la Volpe e l'Uovo
L'Uomo e la Biscia
La Testuggine e le Anatre
I Pesci e lo Smergo
L'Avaro e il suo Compare
Il Lupo e i Pastori
Il Ragno e la Rondine
La Pernice e i Galli
Il Cane dalle orecchie mozze
Il Pastore e il Re
I Pesci e il Pastore

 
I due Pappagalli, il Re e suo Figli
La Leonessa e l'Orsa
I due Avventurieri e il Talismano
I Conigli
Il Mercante, il Nobile, il Pastore e il Principe

 

Fab.1
I due Topi, la Volpe e l'Uovo
(Sermone alla signora de La Sablière)

A me facil saría tesser di lodi
un serto al vostro nome, Iride bella,
se voi di lodi e di profano incenso
non foste disdegnosa, in ciò lontana
dall'altre belle, cui giammai non sazia
cibo quotidian di freschi onori.

Non vidi io mai le donne al dolce suono
delle lodi cullate addormentarsi,
né le biasmo perciò. Ben le somiglio
invece ai prenci della terra e ai Numi.
Quel nettare, che ognor fu dai poeti
lodato e che la tazza empie di Giove
e del quale s'inebriano i potenti
dèi della terra, è questa a voi non grata
lode, o gentil, e così grata altrui.

Altre gioie compensano la vostra
ambizïon, e son colloqui e dolci
amicizie ed incontri e cento e cento
argomenti graziosi, in cui si piace
il vostro spirto, al profan volgo ignoti.
Scherzi, dottrina, fantasie, nonnulla,
tutto scende opportuno e fa smaltato
come un prato di Flora il parlar vostro,
in ciò simile all'ape industriosa,
che si riposa sui diversi fiori
ed egualmente trae da tutti il miele.

Non vi spiaccia se anch'io, dietro l'esempio,
vado meschiando alle innocenti fiabe
un rigo di sottil filosofia
oggi di moda, molto ardita e piena
di una nuova attrattiva. O forse un suono
ne venne al vostro orecchio?
È la profonda
dottrina che a una macchina riduce
la vita umana e che d'arbitrio sfronda
e di giudizio gli uomini, e non lascia
che un corpo vuoto senza affetto e cuore.
Tal sen vive e con passo egual, ma cieco,
e senza scopo l'oriol cammina,
di ruota in ruota, fin che squilla l'ora
come vuole il congegno. A ciò la Scienza
lo spirito del mondo oggi riduce.
E come l'oriol, dicono i saggi,
l'animal si commuove e va diritto
ove lo spinge l'impression del senso,
non per libero arbitrio, ohibò, ma tratto
dalla necessità dura e impassibile,
che senza voglia pei diversi stati
dell'amor lo trascina e dell'affanno,
della tristezza, del piacer, dei forti
dolori e per le varie altre vicende,
che affetti chiama la volgar sentenza.

Ma voi, gentil, fra l'oriolo e il vostro
cuore assai ben distinguere sapete,
e non vi allaccia dei moderni sofi
la facile dottrina. A noi maestro
è il divino Cartesio, a cui gli antichi
siccome a Nume avrian sacrata un'ara;
Cartesio, che fra gli uomini e i celesti
siede nel mezzo, come stanno in mezzo
tra gli uomini e gli allocchi altri sublimi
e grossi ingegni. A voi così ragiona
quest'alto mio maestro e mio autore:

"Soltanto l'uom fra tutti gli animali,
che dalla mano uscirono di Dio,
pensa e sa di pensar." Abbiano i bruti
immagini e pensier, ma non avranno
l'arte che piega sul pensiero istesso
e sugli oggetti del pensiero il raggio.
Ma Cartesio dirà con viso aperto
che tutto è spento del pensier il lume
negli animali e conveniam con esso,
sebben non manchin numerosi esempi
a provare il contrario. E non vediamo
nei boschi il vecchio cervo, a cui sul capo
cresce per gli anni altissima la selva,
quando ferve la caccia e suona il bosco
d'urla e di corni e va sbandato il gregge,
spingere in bocca agli anelanti cani
un giovine cerbiatto, onde sviata
sia la caccia da sé? Vedi malizia
per salvare la pelle! E i mille giri,
i salti, i sotterfugi, e non son dessi
strattagemmi di guerra e non indegni
d'un grande capitano e di fortuna
più glorïosa? ahimè, viene la morte
ed è lo strazio delle palpitanti
carni agli eroi l'estremo funerale.
Così, se vede i piccoli in periglio,
la pernice e coll'ali tenerelle
impotenti a fuggir, finge pietosa
d'esser ferita e trascinando l'ala
sul suol, attira i cani e i cacciatori,
sviandoli, finché dei figlioletti
sia salva la famiglia. Indi ad un tratto
spiccando il vol, addio... ride e saluta
l'uom che col guardo inutilmente spia.

Nella region del polo gli abitanti
selvatici, ignoranti
vivono ancor coi modi rozzi e semplici
dei tempi primitivi.
Ma gli animali, che dimoran ivi,
son ingegnosi, e sanno
con argini frenar l'acque correnti
e collegar le rive dei torrenti.
Questi edifici, in cui si alterna il legno
a strati di cemento,
ponno all'acqua resistere ed al vento.
Ogni castor col natural ingegno
ivi si presta alla comune impresa,
i vecchi ed i maestri
attenti all'opra e i giovini più destri
all'opra, alla difesa.
In paragon di questo anfibio senno
di Platon la repubblica
famosa è al viver bene un picciol cenno.
Le case alte e palustri
questi animali industri
elevano l'inverno, e ponti fanno
coll'arte lor, che gli uomini non hanno.
Non sanno inver quei rozzi Samoiedi
che traversare a nuoto
dove per l'acqua non si passa a piedi.

Ma a rimirar l'industria ed il lavoro
di queste bestie ah! non si può, no, credere
che manchi dello spirito al castoro.
Ma c'è di più, Signora, e ciò ch'io conto
l'udii narrar da un re,
da un re del Nord, figliuol della Vittoria
di cui forse non c'è
baluardo maggior contro il pagano
indomito ottomano:
Sobieschi io dico, onor della Polonia,
e parola di re degna è di storia.

Vivon certi animali, egli mi disse,
da vecchio tempo in sanguinose risse
sempre fra lor, che della guerra il foco
da padre in figlio insiem col sangue ispirano.
Sono bestie volpine
che della guerra il gioco
conoscono sì bene e la faccenda,
che non ne sanno gli uomini altrettanto,
per quanto abbiano il vanto
(e specie al tempo nostro) e l'arti fine
di saper ben uccidersi a vicenda.

Avanguardie, spïoni, sentinelle,
imboscate conoscono ed insidie
e tutte quante della strategia
le più maligne e furbe maccatelle,
arte infernale e ria
che degli eroi fu madre
e fia creduta figlia del demonio.
Di queste bestie a celebrar le squadre
non basterebbe se tornasse Omero
dall'Acheronte nero.

Oh! s'ei tornasse e seco anche tornasse
Cartesio, d'Epicuro alto rivale,
a contemplar queste vicende e i giochi,
che dietro al solo istinto naturale
sa compier l'animale! "A noi dimostra
l'esperienza nostra e la natura
che la memoria al corpo si collega,
e questa in ogni caso il bruto impiega
per norma e per misura."

Iride bella, se a cercar vi piace,
voi troverete che il pensier discopre
spesso come in rinchiuso magazzino
altri pensieri in mente accumulati,
e che un oggetto, ove discenda e tocchi
un'idea, l'altre tutte ecco si svegliano
e balzano da sé senza il bisogno
che le guidi il pensier. Questo è l'Istinto,
ma l'uomo ha pure Volontà che impera.
Io parlo, io rido, io muovo ambo le gambe,
io sento in me lo Spirito che regge
e che del corpo apre i congegni e chiude,
sento un poter dal corpo mio distinto
che se stesso comprende, anzi comprende
più sé che non la macchina mortale
alla quale comando arbitro e duce.
Or se voi mi chiedete, Iride bella,
come sia, non lo so. Vedo l'ordigno
obbedire a una man, ma non ritrovo
la man che muove il sole e l'altre stelle.
Forse uno spirto angelico si sposa
a queste immense moli ed è lo spirto
stesso onde vive e palpita e si muove
il mortale quaggiù, misteriosa
forza mal nota anche a Cartesio (in questo
campo siam tutti ciechi) e solamente
palese all'uomo, se la cerca in Dio.

A me basta, Signora,
saper che questo Spirito
in corpo agli animali non dimora.
È l'uom il singolare
e sacro altare in tutto l'universo.
Sta ben, ma di converso
ha tanta l'animal vitalità
che l'albero non ha.

Andavano due Topi per il pranzo,
quando trovano un ovo sulla via.
Un ovo basta ai topi
che non potrebber divorare un manzo,
e pieni d'appetito e d'allegria
stanno per rosicchiar ciascuno l'ovo
dalla sua parte, quando
arriva un terzo incomodo, la Volpe.
Come salvar e riparar nel covo
quell'ovo benedetto?
Farne un pacchetto, prenderlo, portarlo,
girarlo, trascinarlo?
Sta bene, è presto detto,
ma poi vi aspetto a farlo.

Che fanno i Topi? Mentre ancor la trista
feroce camorrista era lontana,
per guadagnar la tana
l'un d'essi sulla schiena si sdraiò,
e l'ovo strinse in un soave amplesso,
e dopo un po' d'affanno
per la coda il secondo lo tirò.
Or voi ditemi adesso
che queste bestie spirito non hanno.

Ed hanno forse più coscienza e senno
i fanciulli ne' lor anni più belli?
O non vediam che pensano e non sanno
pur di pensar?
Ond'io sarei condotto
a immaginar nei bruti (ove non possa
supporre una ragion) più che un istinto.
Per me, distillerei qualche sottile
sostanza, assai difficile, Signora,
a concepirsi dalla mente umana,
un'essenza di mònadi, un estratto
di luce pura, un non so che più vivo,
più rapido del foco.
Se dal tronco
nasce la fiamma, e non potrìa la fiamma
chiarificata ancor dare un'idea
dell'anima immortal? E non si vede
splender l'or tra le viscere del piombo?
Con questa essenza io renderei la bestia
atta molto a sentir e un poco ancora
a giudicar, ma non di più, né sempre
questo giudizio in lei, come dimostra
la più dotta bertuccia, è a fil di piombo.

All'Uomo, all'Uomo solo io la potente
forza darei che da ragion deriva,
due volte assai preziosa ove la guardi
sotto duplice aspetto.
Èvvi nell'Uomo
un'anima comune a tutti quanti
sian pazzi o savi, sian fanciulli o vecchi,
tutti animali graziosi e benigni
che con tal nome son ospiti in terra.

Ed èvvi una seconda anima santa
nata a crear l'angelica farfalla,
un divino tesor che Dio dispensa
con parsimonia e che ci porta in cielo
tra le sfere rotanti. Entra e si snoda
senz'angustie quest'anima nei corpi,
e per quanto principio abbia nel tempo,
eterna vive, e non mi sembra assurdo.
Fin che questa del ciel candida figlia
danza nel corpo tenerello, è lume
che poco spande di sua luce intorno;
ma quando è la ragion forte al giudizio,
entra questo divin raggio di mente
per l'universo e la materia penetra,
che sempre involgerà l'altra più rude
anima sensual serva a natura.

Fab.2
L'Uomo e la Biscia

Un Uom vide una Biscia
e disse: - Un beneficio, s'io l'uccido,
farò di certo a tutto l'universo.-
E l'animal perverso
(dico la biscia, e prego non confondere
coll'uom, che è molto facile)
è preso, dentro un sacco rinserrato
e colpevole o meno, io non decido,
a morte condannato.
Per dargli tuttavia qualche ragione
l'Uomo gli sfoderò questo sermone:

- O simbol degli ingrati, è verso i tristi
stoltezza la pietà.
Or muori, e il tuo velen più non contristi
la mesta umanità.-
A questo dir in sua voce dolente
risposegli il serpente:
- Ohimè! se tu condanni quanti sono
al mondo ingrati, a chi darai perdono?
A te, fratel, tu stesso
colle parole tue muovi il processo,
ond'io ritorco in te quegli argomenti
che tu per gli altri inventi.
I giorni miei distruggere tu puoi,
perché così conviene
solo al tuo bene ed ai capricci tuoi.
L'uomo comanda e regge
"e libito fa licito in sua legge."
Ma lascia ch'io dichiari coll'estreme
parole mie, che il serpente non è,
ma ben è l'uomo degli ingrati il re.-
L'altro rimase come l'uom che teme
a questo dire, e quindi a lei rispose:
- Sono ragioni insipide e noiose
che potrei tagliar corto, e tuttavia
rinuncio al mio diritto e vo' che sia
nell'affare alcun giudice invitato.-
E il rettile: - Accettato.-

Una giovenca vien chiamata in mezzo,
ascolta, poi risponde:
- La Biscia n'ha ben donde
se si lamenta, è chiara come il sole.
Quando ho veduto il prezzo
io de' servigi miei, da cui l'uom suole
trarre ogni giorno il vitto?
Sempre per lui, tutto per lui, non mai
per me, pei figli miei qualche profitto.
Col latte e coi vitelli
egli ingrassò, si riempì la mano,
io lo mantenni sano
contro i danni del tempo alle mie pene
ei deve, se poté
vivere sempre allegramente e bene,
ed ora, ed ora, ahimè,
perché son vecchia, senza un fil di fieno
mi lascia in un cantuccio. Oh dato almeno
mi fosse di brucar quattro fogliette
nel prato! no, mi tiene
legata alle catene.
L'avrei creduto verso me più pio,
se stato fosse un anima di serpe.
Ho detto quel che penso e chiaro, addio.-

Poco contento l'Uom della sentenza,
allor disse alla Biscia:
- E credi a questa scema,
a una vecchia bisbetica che trema
nel cervello? Sentiamo un poco il bue.
- Sentiamo pure le ragioni sue,-
a lui rispose l'animal che striscia.

Sen viene il bove lento e dopo un lento
e lungo ruminar apre la bocca,
e dice che da molti anni gli tocca
d'ogni fatica il ruvido tormento,
eterna litania di tutti i mali,
sempre a tirar costretto
ciò che Cerere all'uom, agli animali
offre ne' campi suoi.
Qual era il premio riserbato ai buoi?
Botte a bizzeffe e assai poco rispetto,
finché vecchi e scannati sull'altare
andavan del lor sangue ad implorare,
a titol quasi d'onorificenza,
pei peccati dell'uomo l'indulgenza.

- O noioso, va' via, declamatore!-
ancor grida il padrone,-
e credi forse colle parolone
farti del tuo signor l'accusatore?
Non ti conosco, stupido, ma questo
albero qui presente
dica da tronco onesto
quel che pensa di me sinceramente.-

Ma l'albero chiamato a dire il vero
fu ancora più severo.
Egli era contro il caldo e contro il vento
e contro l'uragano un buon ombrello.
Egli era de' giardini l'ornamento
e nei campi non sol d'ombre cortese,
ma ancor di frutti saporito e bello.
Ebben, per sua mercede un rozzo arnese
ecco l'abbatte al suolo!
Invan all'uomo è l'albero gentile
di fior nel dolce aprile,
invano a lui di pomi empie il cestello.

Invan d'estate le sue foglie ei spiega
e nell'inverno allegra il focherello.
- De' miei difetti mi corregga pure
l'uomo, ma non adoperi la scure,
e non tronchi la vita a cui mi serba
natura, colla sua mano superba.-

Irato l'Uomo ch'altri lo confonda
volle la lite vincere per forza,
e disse: - Sciocco me, che ascolto queste
fanfaluche moleste!.-
Nella vendetta il suo corruccio smorza,
battendo il sacco contro ad una grotta,
infin che il serpe ebbe la testa rotta.

Fab.3
La Testuggine e le Anatre

Una certa Testuggine un po' stolta
nella sua tana stanca ormai di vivere
desiderò d'uscire e andare in volta.

Più bello sempre pare e più giocondo
il paese degli altri, e non c'è storpio
che non ami girare per il mondo.

Il suo pensier a certe Anatre un giorno
ell'aperse, che offrirono il servizio,
secondo i patti, di portarla intorno.

- Ti condurrem - dicevano, - attraverso
all'aria immensa fin fin in America,
regni e gente vedrai, mondo diverso.

E de' costumi tu farai tesoro
come già fece Ulisse, - (io meraviglio
che citassero Ulisse anche costoro).

Accolse la Testuggine bonaria
il progetto, indi trovano una macchina
per trasportar la pellegrina in aria.

E fu tutta la macchina un bastone
ch'ella in bocca si piglia e stringe, e subito
per ogni punta un'Anatra si pone.

A veder la Testuggine che vola
colla sua casa in spalla in mezzo agli angeli,
resta la gente senza la parola.

Poi - Miracolo! - grida, - olà, correte
la regina a veder delle testuggini
che vola è dessa? - Sì, non mi vedete?-

dice la stolta e lascia andare il legno.
Avrebbe fatto meglio i denti a stringere
e a non perder quell'unico sostegno.

Per ambizion volle parlare, e giù
a piè de' riguardanti ancora estatici
rovinò, si spezzò, non fiatò più.

Ciarla, curiosità, vanità pazza,
e stupida albagia, stoltezza, eccetera,
son figlie tutte d'una stessa razza.

Fab.4
I Pesci e lo Smergo

Non v'era stagno in tutto il vicinato
in cui lo Smergo a lungo non avesse
col suo becco pescato.
Pescaie e chiuse a lui facean la spesa
della cucina allegramente bene,
ma quando nelle vene
per vecchiezza gelò nell'animale
il sangue, l'andò male.
Ogni smergo si serve da se stesso
e il nostro, mezzo cieco per l'età,
che non vedea le cose troppo chiare
e reti non aveva per pescare,
si trovò presto in gran difficoltà.

Il bisognin dottore in strategia
insegna all'uccellaccio
una maniera per uscir d'impaccio.
Rivolgendosi a un gambero vicino:
- Amico, - gli parlò, - non ti rincresca
a dire a questi Pesci che il padrone
vuol fare una gran pesca
e che segnato è l'ultimo destino.-

Lesto si muove il gambero
e porta l'ambasciata,
onde turbato il popolo
dei Pesci si raduna e manda a chiedere
a messere lo Smergo ove ha pescato
la terribil notizia.
Chi l'ha portata? quali son le prove?
E se non è fandonia
come salvarsi e dove?

- Bisogna cangiar luogo, ecco il rimedio.
- Sta ben, ma in qual maniera?
- Se credete, vi porto a una scogliera
dove abito di solito,
luogo sicuro che non sa che Dio
che esista al mondo ed io.
Colla sua man vi fece la Natura
un golfo ove non passa un'ombra umana.
Dei pesci la repubblica
in quella spiaggia inospite e lontana
potrà viver sicura.-

Ad uno ad un lo Smergo
i suoi Pesci portò,
e nel rinchiuso albergo,
ove il luogo è disteso e l'acqua limpida,
da buon padre i suoi figli imprigionò.
Ad un ad un li pesca allegramente
e insegna a loro spese
che non bisogna credere
a chi mangia la gente.

Se non era lo Smergo, si assicura
che altri n'avrebber fatta una frittura:
e per i Pesci il caso è indifferente.

Fab.5
L'Avaro e il suo Compare

Per l'ignoranza grassa ch'è compagna
dell'avarizia, un pidocchioso Avaro,
non sapendo ove mettere il denaro
che ogni giorno sul vivere sparagna,
di nasconderlo pensa in un cantone,
dicendone a un compare la ragione:

- La roba tenta, e se io la tengo presso,
questo denar potrebbe finir male.
Goderlo è un rovinare il capitale
ed io divento il ladro di me stesso.
- Il ladro? - gli rispose il suo Compare.-
Godere, amico mio, non è rubare.

Mi fa pietà vederti in quest'affanno,
e se un saggio consiglio ancor l'intendi,
il bene vale in quanto tu lo spendi,
o non è che un inutile malanno.
Vuoi dunque accumular per un'età
che non sei certo ancora se verrà?-

E seguitava a dir quell'uom sincero
che l'oro perde il suo valor, se chiede
tanta fatica e in quei che lo provvede
e in quei che lo conserva nel forziero.
Ma il nostro Avar non cede, e in compagnia
del suo Compare tacito si avvia

ad una vigna un po' di là remota,
dove il fardel depongono prezioso.
Passato un mese il nostro pidocchioso
torna e non trova che la tana vuota,
e, immaginando subito l'artiglio,
cerca il compagno suo del buon consiglio.

E: - Amico, - dice, - andiam, andiamo presto
a quel luogo laggiù. Ci ho molte lire
ancora ch'io vorrei porre a dormire
coll'altre. - Va benone -. E il ladro onesto
a riporre il tesor corre e propone
di prender dopo il tutto e la frazione.

Ma questa volta il gonzo fu più fino,
ché si tenne con sé tutto il denaro
per goderlo e cessò d'essere avaro.
Come restasse il ladro poverino
innanzi al buco è inutil ch'io lo dica.
Rubare ai ladri non si fa fatica.

Fab.6
Il Lupo e i Pastori

Un giorno un Lupo pien d'umanità
(se alcun ve n'ha)
crudele sì, ma per necessità,
fece una riflessione assai severa
sul suo brutto carattere di fiera.

- Ognun, - diss'egli, - ognuno mi vuol male,
e cani e cacciatori e villanzoni
congiuran contro un povero animale
e innalzan orazioni
a Giove che lo cacci dalla terra,
come si sa che ha fatto in Inghilterra.

Mettono il pelo e la mia vita a prezzo,
e non c'è signorotto di campagna
che non bandisca il lupo con disprezzo,
ne bimbo c'è che strilli un poco o piagna
a cui la mamma non ricordi il cupo
nome del lupo.

E tutto ciò per qualche asin tignoso,
per qualche agnello mezzo incancrenito,
per qualche can rabbioso,
che non aguzzan manco l'appetito.
Ebbene d'ora innanzi e carne ed ossa
di vivi fo solenne giuramento
di non mangiare, ma insalate e strame
ed erbe sole, o possa
prima morir di fame.-

Mentre egli giura vede dei pastori
che stan mangiando un povero agnellino
cotto allo spiedo. - Ah! Ah!
Questi bravi signori,
che parlan della mia crudelità,
sanno gustare il ghiotto bocconcino!
Ben s'impinzan la pancia essi ed i cani,
ed io che sono il lupo
starò digiuno e avrò rispetti umani?

No, per tutti gli dèi! Sarei corbello
a farmene un riguardo,
ben venga dunque in bocca
agnellin, agnelletto, agnella e agnello
e quanti son di questa gente sciocca:
sian essi crudi o cotti non ci guardo.-

Avea ragione il Lupo. È stravaganza
pretendere che, mentre l'uom ghiottone
e cena e pranza
mangiando gli animali, i poveretti
abbiano a lesinare sul boccone.

Vogliam serbare a loro
soltanto a loro dell'età dell'oro
i cibi duri e schietti?
Non han stoviglie e spiedi ed istrumenti?
Ma il lupo non ha torto ed alla vita
non si rassegna ancor dell'eremita,
se può mostrare i denti.

Fab.7
Il Ragno e la Rondine

- O Giove, che dal tuo cervel traesti
per un nuovo miracol di Lucina
la dea Minerva, mia rivale antica, -
così diceva il Ragno una mattina, -
per una volta, o Giove, ascolta i mesti
miei gridi contro una fatal nemica.

La Rondinella, - aggiunse l'insolente, -
per l'aria svolazzando, agile toglie
quant'io raduno in casa e sulle soglie.
Squarcia le reti che pazientemente
e forti io tesso e che sariano piene,
ma sul più bel la ladroncella viene.

Ella mi ruba le mie mosche, mie
ben posso dirlo, e sperpera il bottino. -
Così le sue cantava litanie
quel Ragno, che fu già gran tappezziere,
e che dai tempi tristi e dal destino
era ridotto a quel brutto mestiere.

La Rondinella al suo mestiere intenta
non bada all'insettaccio e mosche piglia
per sé, per la sua piccola famiglia,
e con gioia crudele ne alimenta
i ghiottoncelli, che con grido incerto
salutano la mamma a becco aperto.

O poveretto Ragno disperato,
inutil tessitor, che far gli resta?
Ridotto tutto gambe e tutto testa
un dì, che alla sua tela era attaccato,
la Rondinella nella rete entrò
e col Ragno la casa via portò.

Il padre Giove volle ed ha disposto
che sian due grandi tavole nel mondo.
Alla prima vi accorre e piglia posto
il forte, l'avveduto, e chi sa fare,
all'altra vanno i deboli a mangiare
quello che gli altri lasciano sul tondo.

Fab.8
La Pernice e i Galli

La Pernice e i Galli In mezzo a una tribù di turbolenti
Galli incivili, rozzi, e violenti,
sempre in lite fra lor, una Pernice
vivea poco felice.

L'essere donna in mezzo a cavalieri
pronti all'amor, un po' di civiltà
le faceva sperar, oltre ai doveri
ed ai riguardi d'ospitalità.

Ma questa razza bellicosa e spesso
in furia, non avea pel gentil sesso
il culto e le maniere,
che si usan colle dame forestiere.

Anzi avvenia che spesso la meschina
uscisse spennacchiata da costor;
ma vedendo che quasi ogni mattina
si spennacchiavan anche fra di lor,

si consolò, dicendo che il peccato
non era più di lor che di natura:
Giove non ha creato
tutta la gente sopra una misura.

Questo loro carattere infelice
più che d'odio era degno di perdon:
v'è natura di gallo e di pernice
ed essi i più colpevoli non son.

Ma più merita pena l'Uom che piglia
una pernice, indi ne rompe l'ali
e la rinchiude in mezzo a una famiglia
di torbidi animali.

Fab.9
Il Cane dalle orecchie mozze

- Che ho fatto, oh ciel, che ho fatto
per meritarmi quest'orrendo oltraggio?
E come avrò il coraggio
di comparir dimani
così conciato in faccia agli altri cani?
Uomo, non re, terror degli animali,
oh se provassi questi orrendi mali! -
Così dicea Muflàr, giovine alano,
mentre il padron colla feroce mano,
senza ascoltar i gridi di protesta,
mozzavagli le orecchie sulla testa.

Muflàr credé di perdere l'onore,
e invece no,
ché il Cane a lungo andar ci guadagnò.
Essendo egli una bestia litichina
e stuzzichina,
avria presto provato che in parecchie
circostanze ad un cane prepotente
è un danno troppo lunghe aver le orecchie,
che troppa larga presa offrono al dente
e alle nemiche offese.
Can che morde ha le orecchie in mal arnese.

Questa è legge di guerra. I punti deboli
arma, difendi, e il mio Muflàr imita
che porta anche un collare.
Così guarnito e non avendo orecchie
noiose da portare,
se viene il lupo e tenta divorarlo,
non sa dove pigliarlo.

Fab.10
Il Pastore e il Re

A due maligni spiriti il mortale
offre l'incenso e mette in lor balìa
la vita e il cor, onde Ragion si parte
da casa nostra. Vuoi saperne il nome?
Ambizïon, Amor, ecco i diavoli
che fan del viver nostro aspro governo.
Quella, potente più d'Amor, distende
ampio il dominio, e dell'Amor fin anco,
come vo' dimostrar, usurpa il trono.

Narra una storia del buon tempo antico
e non di questo, in cui viviam, men bello,
che fu già un Re, che visto in mezzo a un prato
allegramente pascolar un gregge
e sano e bello e grazie alle indefesse
cure del suo Pastor molto fiorente:
- Amico, - disse a lui, - per arte e studio
d'esser pastore d'uomini sei degno.
Lascia dunque l'armento e vieni e reggi,
ministro di giustizia, uomini e stati.-

E detto fatto, ecco il Pastor seduto
colla bilancia in man. D'uomini al mondo
non conoscea che un piccolo eremita,
e il suo saper non iva oltre alle pecore,
ai lupi, ai cani; ma il buon senso in lui
era maestro, e col buon senso, amici,
vien tutto il resto. Così fu. D'impaccio
ben si togliea, quand'ecco l'eremita
gli venne innanzi a predicar: - Fratello,
fratel, che veggo io mai? sogno o son desto?
Tu grande, tu ministro? ahi poveretto!
Non fidarti dei re. Varia fortuna
è l'umor dei potenti; ah! troppo cara
si paga poi, ché a voli repentini
sogliono i precipizi esser vicini.-

Sorrise il buon Pastor. E l'eremita,
seguitando la predica, soggiunse:
- Non credere all'inganno che seduce,
ma credi a me, fratello. Adulazione
già ti guasta il cervello, e mi ricordi
colui che visto assiderato in terra
un serpente, credendolo un frustino,
poi che perduto avea da tempo il suo,
lo raccolse e ne rese grazie al cielo.
Ma un passeggier gli disse: "O Dio, gettate
lungi da voi quell'animal perverso:
è un serpente." - "È un frustino." - "Io vi ripeto
ch'egli è un serpente, e che m'importa il fiato
sprecar per voi? volete il bel tesoro
custodir, miserabile?" - "Sicuro,
il mio frustino non valea due soldi
e questo è nuovo. È invidia che in voi canta."
Ma il testardo pagò ben presto il fio,
che il feroce animal, sciolte le membra,
al suo padrone morsicò con tanta
ira la man, ch'ei ne perdette i giorni.
Fratello, guarda che non torni in peggio
la tua semplicità. - Quali malanni
peggiori della morte? - E l'eremita:
- Quali? vedrai, ma sarà tardi. Addio.-

Non molto dopo ecco comincia il principe,
da segreti eccitato odi e da invidie,
del cuore a dubitar non che del merito
di questo in prima celebrato giudice.
Nascon raggiri, cabale si ordiscono,
muovon accuse e già di lui si mormora
che di ricchezze confiscate ha colmo
un suo palagio e che rinchiuso a dieci
chiavi egli tien un gran tesor di gemme
dentro uno scrigno.
Allora il mio Pastore
apre lo scrigno di sua man e, oh vista!
Come scornati innanzi a lui rimasero
maligni e accusatori! Entro la cassa
erano i vecchi cenci del buon uomo,
un cappello, una giubba, un cesto, un curvo
bastone e, credo, un'umile zampogna.

- Dolce tesor, - ei disse, - o cari oggetti,
che non tiraste mai della menzogna
e dell'invidia i fulmini, venite.
Usciam da questo splendido palagio
come si esce da un sogno. A me perdono
date, o mio Sire, se dal cor trabocca
la mia parola, ma, venendo in Corte,
già questo giorno avea previsto e l'ora
in cui sarei caduto, e se la merita
la nostra vanità; ma quanti al mondo
non hanno un picciol grano nel cervello
di stolta vanità? Palagio, addio.

Fab.11
I Pesci e il Pastore

Con voci e con accordi
che avrian commossi i sordi,
Tirsi l'amore della sua diletta
unica Annetta
in riva a un fiumicel, almo soggiorno
d'ogni auretta gentil, cantava un giorno.

Annetta intanto in riva al fiumicello
gettava l'amo ai pesci, ma costoro
sen ivano bel bello
pei fatti loro.
Credette a torto il bravo Pastorello
col suon, che avria commosso anche i leoni,
di muovere i carpioni.

Cantava il Pastorello: - O pesciolini
dell'onda cittadini,
uscite dalla liquida e profonda
grotta ove stan le Naiadi,
a contemplar sull'onda
un viso assai più bello,-
cantava il Pastorello.

- Se voi verrete,
non vi terrà costei dentro una rete,
ma in lieto acquaio assai graziosamente
vi nutrirà costei.
Che se a qualcun la sorte
portasse anche la morte,
o soave morire in man di lei,
o morte ch'io dimando inutilmente!-

Non men che muti sono sordi i Pesci,
che fanno il nesci a questo eccitamento.
Ebbe un bel predicar Tirsi, la predica
se la portava il vento.
Allor tende la rete e in un momento
piena la vede
e pone i Pesci della bella al piede.

O voi, pastori d'uomini
e non di pecorelle,
che vi credete muovere la mente
diversa della gente
colle parole belle,
voi consumate il fiato inutilmente.
Assai meglio farete
a usar la forza e a tendere la rete.

Fab.12
I due Pappagalli, il Re e suo Figlio

Due Pappagalli, padre e figlio, a tavola
ogni giorno sedevano d'un Re,
e figlio e padre, i principi, li amavano
d'un amore che al mondo ugual non c'è.

I due padri legati in amicizia
vecchia si compiacevan di veder
i figli, che malgrado l'età frivola,
vivevan sempre insieme con piacer.

Nutriti insieme, a scuola insieme andavano,
e per l'uccel non era un poco onor
avere per compagno un tanto principe
figliuolo d'un cotanto imperator.

Il ragazzin per natural suo spirito
amava gli uccelletti, ed un gentil
passerino formava la delizia
del suo divertimento giovanil.

Per gelosia tra il Pappagallo e il passero
una seria tenzone un dì scoppiò,
e picchia e becca, il meschinel più debole
ad ingrassar la terra presto andò.

Onde adirato e per vendetta il Principe
il Pappagallo uccise: un gran rumor
si sparse per la reggia, infin che il vecchio
Pappagallo anche lui n'ebbe sentor.

Chi mi sa dir le strida orrende e i gemiti
onde il povero padre invoca il ciel?
Ma invano ei piange; in fondo a Stige il giovine
già navigava al suo destin crudel.

Ma tanto infonde nel paterno spirito
odio e furor, che il vecchio, colto il dì,
salta agli occhi e pich pach accieca il Principe
col becco e sopra un albero fuggì.

Per suo rifugio scelse un pino altissimo,
dove accanto agli dèi l'aspro sapor
gustò della vendetta, ove del principe
padre non può raggiungerlo il furor.

Per attirarlo, con mansuetudine.
- Amico, vieni, - gli favella il Re,-
dimentichiam, che ormai non vale il piangere
ed io non sono in collera con te.

Per quanto fitta in cor senta l'ingiuria,
è il figlio mio che il tuo forse assalì,
ahimè! forse è il destin inesorabile
che il fatto nel suo libro stabilì.

Era scritto che l'un la vita perdere
dovesse e l'altro il pio raggio del sol.
Torna, amico, ritorna entro la gabbia,
l'un l'altro confortiamoci nel duol.-

E il vecchio Pappagallo a lui: - Mio principe,-
rispose, - dopo quel che capitò,
a queste belle ciarle potria credere
un pazzo forse, un pappagallo no.

O sia destin, o sia, come dimostrano,
provvidenza, che tiene il mondo in man,
è scritto ch'io finisca i giorni miseri
su questo pino o forse più lontan

in qualche selva ignota e solitaria
ove non vegga quell'oggetto più,
che a te d'odio sarà stimol continuo,
e a me cagion di tanto duol già fu.

Io so che la vendetta è nel carattere
lassù dei numi ed è quaggiù dei re,
che vivono da numi, e s'anche credere
volessi e riposar sulla tua fe',

non che tornar, starò meno in pericolo
lontan dagli occhi tuoi, dalla tua man.
Come contro all'amore, è un gran rimedio
anche per l'odio starsene lontan.

Fab.13
La Leonessa e l'Orsa

Un cacciator avea tolto alla mamma
Leonessa il suo piccolo leone,
e la povera bestia iva mugghiando,
empiendo l'aria e il bosco
di compassione.
Non la pace notturna e l'aer fosco,
non i notturni incanti
potean frenare gli ululati e i pianti.

N'aveva il sonno rotto ogni animale,
finché l'Orsa gridò: - Buona comare,
scusate, o che vi pare
che anch'essi non avessero parenti
quei poveri innocenti,
che son passati sotto i vostri denti?

- Li avevano. - Sta bene, è naturale,
ma non hanno strillato pei lor morti
come voi fate a romperci la testa.
Tacete e che il diavolo vi porti.
- Me sciagurata! io no, non tacerò,
perduto il leoncello, un'assai mesta
vecchiezza trascinare ora dovrò.
- Chi vi condanna? - Il mio crudel destino.-
Sempre il destino accusa
chi vuole a' mali suoi dare una scusa.

O miseri mortali,
che avete un mar di lagrime
per tutti i vostri mali,
guardate indietro, ad Ècuba pensate,
e il cielo ringraziate.

Fab.14
I due Avventurieri e il Talismano

Alcide, il forte eroe, Alcide che rivali
non ebbe mai fra gli uomini e men fra gli animali,
mostrò co' suoi sudori
che dell'onor la strada non è sparsa di fiori.

E lo provò quell'arabo, che con un Talismano
iva a cercar fortuna in un paese strano,
un dì che in compagnia
d'un camerata giunse a capo d'una via.

Sopra un pilastro scritto diceva ivi un cartello:
"Signor avventuriere, se passi oltre il ruscello,
potrai tosto vedere
ciò che non vide mai nessun avventuriere.

Un elefante in sasso scolpito giace al suolo,
piglialo in braccio e portalo con un impeto solo
in vetta di quel monte,
che par sfidare il cielo colla superba fronte."

De' due Avventurieri colui ch'era più saggio
di scendere nell'acqua non si sentì coraggio,
gli parve stravagante
questo passare e prendere in collo un elefante.

L'acqua era fonda e rapida. - E quando anche arrivassi
a stringer l'elefante, - dicea, - per pochi passi,
portarlo poi d'un fiato
in cima di quel monte mi par fiato sprecato.

Se grosso è l'elefante e non di carta o quale
si mette sui bastoni, non c'è nessun mortale
capace di far tanto,
e poi della fatica quale il costrutto e il vanto?

Scommetto che qui sotto c'è di parola un gioco,
o qualche tristo intrigo e me ne fido poco.
Se curïoso sei,
ti lascio l'elefante e vo pei fatti miei. -

Questi partì. Con animo più forte e men prudente
l'altro nell'acqua slanciasi e passa oltre il torrente,
combatte, vince, va
là dove l'elefante, com'era scritto, sta.

Sel piglia sulle braccia, al monte ecco si avvia,
cammina ove una valle dal culmine si aprìa;
un grido alto gettò
la bestia, e una città di subito spuntò.

Ed ecco armato accorrere il popolo. Risuona
la valle. Egli non fugge: s'avanza, non perdona,
e a vendere si appresta
a chi la vuol comprare assai cara la testa.

Pensate ora se attonito restasse, quando intese
che scelto era dal popolo monarca del paese.
Per quanto sia mestiere
da cane, pur si arrese il forte alle preghiere.

Non finse egli siccome si narra di fra Sisto
che, nominato papa: - Ahi, - disse, - affare tristo
essere papa e re!-
ma lieto il serto cinse che il popolo gli diè.

Una fortuna cieca cieco ardimento vuole,
ed è più saggio spesso non far troppe parole,
non indugiar, ma in faccia
guardare ed affrontare il mal che ci minaccia.

Fab.15
I Conigli
Sermone al signor Duca de La Rochefoucauld

In molti casi, quando l'Uomo io veggio
comportarsi da bestia ed anche peggio,
io dico dentro me:
- Dei sudditi non è migliore il re.

Forse ha voluto infondere Natura
in ogni creatura
un elemento rozzo, in cui lo spirito
rinchiuso in material e dura scorza,
attinge la sua forza -.

Nel momento propizio, ossia nell'ora
che il sol coi raggi d'oro fa ritorno
nell'umido soggiorno,
ovvero allor che svegliasi l'aurora
e sbadiglia la notte in braccio al giorno,
d'un bel boschetto sull'estremo lembo
e d'una pianta in vetta
novello Giove, delle foglie in grembo,
lancio a qualche Coniglio una saetta.

Allo scoppiar del fulmine
i Conigli adunati alla pastura
alzan gli orecchi e l'occhio vivo girano
per tutta la pianura,
poi lascian l'erba e fuggono dal fresco
timo odoroso che profuma il desco.

Tutta la banda fugge e per paura
nella città sotterra
ricovera e si serra:
se non che poco dura
il timor della morte ed il sospetto,
e vedi poi da cento luoghi in giro
ad un ad un tornare anche al banchetto
allegri come prima e ancora a tiro.

Così nelle disgrazie
anche gli uomini fanno.
Appena il porto toccano
ed escono d'affanno
ancora si abbandonano
al vento, all'uragano,
veri conigli, ed a fortuna in mano.

Vediamo, amico, un altro assai più semplice
incontro, intendo i Cani,
che sono per gli umani un buon esempio.

Se un Can per una strada
nuova si perde, vedi la masnada
degli altri cani tutti del dintorno
urlar, gridar e morderlo
e accompagnarlo fuori del paese
con questa bella musica cortese.
Nei cani è gola, è invidia;
ma veggo che anche agli uomini sovente
un buon affare, un'ambizion di gloria,
siccome ai cani fa aguzzare il dente.
E non fan magistrati e cortigiani
e deputati e gente pronta a tutto
cose tali che indegne son dei cani?

E tutti, se vogliam esser sinceri,
al nostro concorrente
non caveremmo gli occhi volentieri?
Lo stesso puoi ripetere
d'ogni donna galante e dei poeti.
Malanno a chi vien ultimo!
Anche se il ventre è pieno e soddisfatto,
si vuol essere in pochi intorno al piatto.

Amico mio, di cento e di duecento
esempi ancor potrei
confortar questo bel ragionamento,
ma l'opere più corte
son le più belle, e coi modelli miei
gran maestri dell'arte io cerco andare,
che in ogni scritto vogliono
che resti qualche cosa da pensare.

Tronco adunque il discorso, in cui se alcuna
verità collocai, la deggio a Voi,
del quale è la grandezza al mondo nota
e al qual la più modesta
lode fa di pudor tinger la gota.
Voi non volete che il bel nome in questa
leggenda io scriva o che l'invochi almeno
contro i danni del tempo ed il veleno
degl'invidiosi critici:
ma il nome vostro va immortale e grande
non sol di Francia fra i più chiari eroi,
ma bello anche si spande
per tutto l'universo.
Or sappia il mondo che mi vien da Voi
il tema a cui s'ispira oggi il mio verso.

Fab.16
Il Mercante, il Nobile, il Pastore e il Principe

Un Mercatante, un Nobile signore,
un Principe, un Pastore,
esploratori di novelli mondi,
sospinti dal furor dell'Oceàno,
raminghi, ignudi, come Belisario
eran ridotti a stendere la mano.

Assai lungo saria
il dir come ciascun nella miseria
precipitasse per diversa via.
Quella sventura che li fa fratelli
li condusse a tener tra lor consiglio
d'una fontana sull'erboso ciglio.

Il Principe narrò la lunga istoria
dei grandi decaduti.
- Che importa la memoria, -
disse il Pastor, - di quelli
che son già morti e chiusi negli avelli?
Per noi si tratta di mangiar, signore,
e il piangere, per quel che ho sempre udito,
non toglie l'appetito.
Andiamo, lavoriamo. Chi lavora
sta sano e va lontano. -

Non vi stupisca, se costui rincora
i suoi compagni. Forse che alle sole
teste dei re dal cielo si conceda
di ragionar men male? no, un villano
infin non è una pecora,
ovvero è molto men che non si creda.

Il suo consiglio parve veramente
a tutti gli altri naufraghi eccellente.
Il Mercante valente in aritmetica
soggiunse allor: - Di conti a un tanto al mese
darò lezioni e caverò le spese.
- Ed io nella politica, - esclamò
il Principe, - la gente instruirò.
- Ed io, - concluse il Nobile, -
lezioni d'alta araldica darò. -

Pensate voi che voglia hanno in America,
là verso Patagonia,
di queste vanitose rarità!
Onde il Pastore a dire ancor riprese:
- Sta ben, ma trenta giorni ha ciascun mese
e spesso n'ha trentuno;
intanto chi un boccone mi darà
per rompere il digiuno?

Voi mi offrite una splendida speranza
molto lontana e brontola frattanto
il ventre che non pranza.
Chi mi procura intanto per dimane
anzi per oggi il pane?
Questo importa anzitutto e in questo affare
la vostra scienza è debole, mi pare. -

Per supplir colla mano a quel che manca,
dentro al bosco il Pastore un giorno intero
e un altro non si stanca
di raccogliere legna, e in pagamento
ne trasse il necessario
per sostentar la vita del momento.
Senza di lui, nemmeno i suoi compagni
avrian potuto vendere
ai popoli lontani il lor talento.

Per vivere quaggiù non val la pena
d'essere dotti, ma per te procura
allegra volontà di man, di schiena,
il primo aiuto che ti dà natura.