Fab.1
Il Leone
Il sultano Leopardo, in illo tempore,
a furia di confische,
aveva molti cervi e molti buoi
ed infinite pecore
radunati nei boschi e parchi suoi.
Un dì sente che nato era un Leone
nella vicina selva.
Per fare i complimenti d'occasione
un suo visir chiamò
navigato nell'arti diplomatiche,
e a lui vecchio Volpone
così, dicon, parlò:
- Tu temi, amico, il lioncel qui accanto,
ma morto il padre suo, confesso il vero
ch'io non lo temo tanto.
Anzi dirò che il povero orfanello
mi fa quasi pietà,
ché in mezzo ai tanti imbrogli dell'impero,
non che nuocere agli altri avrà di grazia
se a tempo ai fatti suoi provvederà.-
Visir Volpone un po' scosse la testa,
poi disse: - Mio padrone,
confesso il ver, non ho la compassione,
per simili orfanelli, che tu senti:
ma dico che bisogna o comprar questa razza
nemica, o meglio ancor, se credi,
prima che forti metta l'unghie e i denti,
levarsela dai piedi.
E dico ancor che giova il farlo presto,
perché, se il mio pronostico non sbaglia,
questo Leon terribile in battaglia
sarà il più forte eroe de' pari suoi.
L'amicizia tu comprane, se vuoi,
o se non vuoi, provvedi
a toglierlo dai piedi.-
Così il visir, ma fu fiato sprecato.
Il Sultano dormì sul suo pericolo
e dormirono i suoi, bestie e non bestie,
finché il Leon fu grosso diventato.
Un giorno a un tratto romba
nell'aria un suon di tocsin, e rimbomba
un grido di spavento.
Si consulta il visir. - Ecco il momento,-
risponde, - che vi avea pronosticato.
Non c'è rimedio, invano
da cento parti e cento
corrono a voi. Qual più gente possiede
colui è più da' suoi nemici avvolto
che tutti voglion essere pagati
e si pagan di pecore e castrati.
Fate la pace col Leon, che tutti
vince in valor gl'inutili alleati
che vivono di noi.
Coraggio, forza, astuta vigilanza
ecco gli aiuti suoi.
A lui gettate subito un boccone,
e se non basta un quarto di montone,
datene due, date del grasso bue,
scegliendo il più pasciuto dell'armento,
così con uno ne salvate cento.-
Offese il sentimento nazionale
un tal consiglio e intanto
soffriron poco o tanto
tutti gli stati e guadagnò nessuno.
Tutti fûr vinti e comandò quell'uno
ch'essi temean terribile animale.
Se voi lasciate crescere il potente,
fatelo amico - e questa è la morale.
Fab.2
Il Gli Dèi vogliono istruire
un figlio di Giove
Al signor duca del Maine
Di nulla sente amor la fanciullezza,
ma dié sublimi prove
dell'alma sua divina
nell'amor, nel piacer, nella dolcezza,
un figliolin di Giove.
In lui l'amor e insieme la ragione
precorrevano il tempo, il tempo, ahimè!
che ha l'ali preste e porta ogni stagione
fin troppo presto a me.
Flora, la bella dea dagli occhi belli,
e dalle grazie care,
a lui l'arte d'amare
ecco gl'insegna e non tralascia nulla.
Pianti, sospiri e tenerezze e dolce
soavità che il cor agita e molce
tutto insegnò l'amabile fanciulla,
e tutto apprese il giovincel divino,
a cui diede il destino
e mente e cor e nobili costumi,
che i figliuoli non han degli altri numi.
Costui sì bene dell'amor la scienza
trattò, che avresti detto
ch'era in lui questïon d'esperienza,
tanto pareva nell'amor perfetto.
Ma Giove, a cui sta a core
dare al fanciullo un po' d'educazione,
fa raccoglier gli Dèi e: - Amici, è vero,-
dice, - che il mondo intero
ho guidato fin qui solo padrone,
ma per questo figliol, ch'è sangue mio,
io voglio ch'ogni dio,
poiché il bambin è del mio sangue nato,
m'aiuti a farlo dotto e scozzonato.
Per meritar la stima de' suoi pari
bisogna ch'egli impari, o finga, in tutto
d'essere bene instrutto.-
Appena Giove ebbe finito, un grande
schiamazzare per l'etere si spande.
- A me l'onor, - subito grida Marte,-
d'insegnargli dell'armi il gioco e l'arte,
per cui tanti mortali e invitti eroi
seggono ancor fra noi.
- A lui sarò maestro di chitàra,-
soggiunse il biondo ed erudito Apollo.
Quel dio, che tiene d'un leone al collo
la pelle, aggiunse: - Alla tua prole cara
io forte insegnerò
come domar si può
le sue passioni e vincere
le più feroci ambasce
e l'idra che rinasce
sempre nel cor. Vedrà
che per sentier insolito,
per infinite asprezze
e non fra le carezze
alla virtù si va.-
Sorse Cupido: - Ed io,-
disse d'amore il dio,-
tutto gl'insegnerò, che tutto apprende
ardente cor ch'ha di piacer desio.
Fab.3
Il Castaldo, il Cane e
la Volpe
Si narra che una Volpe delle fini
solesse venir spesso per rubare
dentro il cortile d'una fattoria.
(Lupi e Volpi non son cari vicini
e accanto a casa loro, in fede mia,
andrei malvolentieri a fabbricare.)
Venìa la Volpe, ma con suo dispetto
ai polli non potea fare il colpetto.
Tra il pericolo posta e la gran fame
di dentro si rodeva.
- Il padrone, - diceva, - il vecchio infame
dell'arti che ogni notte invento ed uso,
e delle mie fatiche
seguita sempre a ridermi sul muso.
E mentre io corro e fuggo
e di fame mi struggo,
egli cangia i capponi e le pollastre
in soldi buoni e in piastre.
Mentr'ei ne tiene una fila impiccata,
io vecchia giubilata
salto di gioia e ballo
se acciuffo un vecchio gallo.
Perché dunque chiamasti, o sommo Giove,
la figlia tua di volpe alla missione?
Ah! giuro per Plutone
e per il ciel che ci vedremo altrove.-
Questo premendo in cor odio tremendo,
mentre va di papaveri spargendo
Morfeo l'umida notte,
mentre il padron dormia,
e dormivano in casa i servi, il cane,
polli, galli, capponi in compagnia,
nessun s'accorse - e fu non poco errore -
che aperta era la porta per di fuore.
La Volpe gira tanto, che alla fine
trova la breccia aperta.
Entra e ti fa tal strage di galline,
che tutta a sangue va
la povera città.
Allo spuntar del sol
oscene salme gli accorrenti videro
ed ossa e carni palpitanti al suol.
A tanto orror poco mancò che il Sole
non tuffasse i cavalli in fondo al mare.
Oh avessi le parole
di colui che d'Apol l'ira descrisse,
quando tutto l'esercito trafisse
dei Greci e fe' volare le saette
di fatal morbo infette,
onde uccise le schiere a cento a cento
in una notte il divo arco d'argento!
Tal intorno alla tenda
fe' di pecore e buoi la strage orrenda
il furibondo Aiace,
credendo vendicar sugli animali
l'ingiurie dei rivali
che negate gli avean l'armi di Achille.
Questa Volpe di lui non meno audace
abbatte, uccide, piglia
e i miseri scompiglia.
Quando venne il padron, secondo il solito
prese a gridar coi servi e poi col Cane:
- O bestia maledetta, o bestia stupida,
buona a mangiar del pane,
perché non abbaiar, non dare un segno?
- Se voi, signori miei, - dice la bestia,-
padrone e servitori, a cui conviene,
invece di dormir come di solito
vi foste tolta un poco la molestia
di chiuder l'uscio bene,
avreste fatto meglio. A me che importa
(che senza guadagnar ci perdo il sonno)
se chiusa oppure aperta sia la porta?-
Questo discorso tutto a fil di logica
avrebbe fatto onore
non solo a un can, ma a un dotto professore.
Ma siccome non era infin che un cane,
in mezzo lo pigliarono
e finiva il meschin di mangiar pane.
Io parlo a te, buon padre di famiglia
(onor che non t'invidio),
guarda cogli occhi tuoi
ciò che salvar tu vuoi.
Non credere che mentre dormi in letto
altri chiuda per te l'uscio e l'armadio.
Se proprio la tua casa ti sta a petto,
chiudi gli occhi per l'ultimo e procura
di non fare mai nulla per procura.
Fab.4
Il sogno d'un abitante
del Mogòl
Un tale nel Mogòl, narra la storia,
fe' un sogno e vide in cielo un gran bascià
beato in braccio dell'eterno gaudio.
Poi si cangiò la scena e un po' più in là
vide in mezzo alle fiamme un vecchio monaco
dannato, che facea proprio pietà.
Gli parvero due casi un poco insoliti
e strani, a men che il giudice Minosse
non avesse stavolta preso un gambero.
Tanta fu la sorpresa, che si scosse:
e pensando sul sogno, ad un astrologo
chiese se aveva un senso e quale fosse.
L'astrologo rispose: - La mia pratica
mi dice che c'è un senso anche qui sotto.
I sogni son del ciel spesso gli oracoli.
In vita questo gran bascià corrotto
cercava spesso la pia solitudine:
e allora questo monaco bigotto
andava a fargli una gran corte, ed eccoti,
amico, la ragione
per cui giace dannato in perdizione.-
Se osassi un motto aggiungere a questa favoletta,
vorrei di solitudine spiegare i dolci incanti.
Essa a' suoi cari amanti
offre una guida amabile, pronta, sincera e schietta
e beni che fioriscono a' piedi lor davanti.
O dolce solitudine, o luoghi ov'io trovai
dolci e segreti amori,
potessi ancor lontano dal mondo e dai rumori
goder l'ombre ed i freschi soggiorni e i chiusi asili
dei boschi, senza guai!
Quando verranno ancora le muse mie gentili
lontano da cittadi, lontano dalle corti,
ad indicarmi in cielo i nomi delle belle
e vagolanti stelle,
da cui sul capo agli uomini si ordiscono le sorti?
Che se nato a risolvere non son gli alti quesiti,
oh almeno qui m'inviti
lo specchio dei torrenti,
e sui fioriti margini
alzi i soavi accenti!
Di fili d'or le Parche non tesseran la trama
della mia vita e all'ombra non dormirò di fino
e ricco baldacchino,
ma non minor è il prezzo di queste alme delizie
per chi tesor non brama.
Beata solitudine, sola beatitudine,
qui voglio alla mia Parca
far sacrifici, e quando comanderà la Sorte
ch'io scenda di Caronte nella sdruscita barca,
me d'ogni affanno sciolto
nudo accorrà, ma libero
il regno della morte.
Fab.5
Il Leone, la
Scimmia e i due Asini
LPoi che l'arti di regno e la morale,
onde meglio dei popoli si regge
la sorte, vuol conoscere il Leone,
fa chiamare al cospetto suo regale
un Bertuccion, maestro in diplomatica,
che tosto prende a dire:
- Innanzi tutto, per regnar, o Sire,
con onestà, conviene
sempre posporre il proprio all'altrui bene
ed ascoltar del popol l'opinione,
frenando il gioco e il foco
di quell'amor di sé, che d'ogni male
è il padre naturale.
Non chiedo io già che vostra Maestà
rinunci al suo valore,
cosa assurda o che almeno non si fa
in pochi giorni e in ore;
ma ben è forza moderar se stessi
e non offrire in sé
nulla d'ingiusto, nulla di ridicolo
e che non sia da re.-
Al re, che dimandò di queste cose
qualche parlante esempio,
il Bertuccion rispose:
- Ridicola si mostra
quella gente che tutti gli altri sprezza
e sé soltanto apprezza.
(E pecca spesso in ciò la razza nostra.)
L'amor di sé, mentre solleva al settimo
ciel la nostra persona,
agli altri non perdona.
Ond'io traggo che al mondo
certi talenti in fondo
all'arte si riducono
di saper darla a bere.
Il tuo sapere
per quest'arte difficile
a poco giova,
ma son gli sciocchi e gli asini
che fan la miglior prova.
Di due Asini scempi e babbuassi
seguendo l'altro giorno dietro i passi,
udii che s'incensavano fra loro.
Diceva l'un: "Signore, non vi pare
ingiusto, sciocco e indegno del decoro
che ad asini si deve,
questo rider di noi, questo sparlare
che fa l'uomo di noi? Non c'è persona
per quanto bestia, stolida, scioccona
a cui l'uomo dell'asino non dia
il nome con pochissimo rispetto.
Quest'animal si stima il più perfetto
di tutto il mondo e con superbia chiama
ragliar il nostro ridere e ragliare
il nostro bel parlare.
Bella superbia! e forse non sorpassa
il ragghiamento il cicalar che fanno
tanti avvocati e rètori?
Non ti curar di lor ma guarda e passa.
Andiam d'accordo, amico. Oh! s'io vi ascolto
della vostra armonia divento pazzo,
e Filomela al paragon (che tanto
famosa va nel canto)
è una mezza corista da strapazzo.
Ma voi, ma voi per questi orecchi fini
vincete Niccolini."
A questi elogi l'asino fratello:
"Signor", risponde, "voi non siete meno
di me valente e bello."
E questi due, grattandosi a vicenda,
più valenti credendosi e più scaltri,
passeggiando su e giù per la città,
disprezzavano il merito degli altri.
Conosco molti ancora e non fra gli asini,
ma fra le più distinte intelligenze,
che non contenti d'essere Eccellenze
vorrebber diventare Maestà.
E ne direi di più, Sire Leone,
ma spero nella vostra discrezione.
Questi sono gli esempi più ridicoli
che voi mi avete chiesto.
In quanto a quel che degl'ingiusti tocca
si andrebbe per le lunghe ed acqua in bocca.-
Il nostro Bertuccione molto istrutto
capì tosto che questo
era a toccar un tasto delicato.
Il prence era un leone
ed ei non era sciocco dopo tutto.
Fab.6
Il Lupo e la Volpe
Pel vecchio Esopo, sola
la Volpe è mariola
e d'ogni furberia grande maestra.
Per conto mio non vale
men ogni altro animale
(compreso il Lupo) in furberia, per poco
che sia la vita in gioco.
Ma questa volta ancor tra l'uno e l'altra
la Volpe fu più scaltra.
Una Volpe una sera vide in fondo
d'un pozzo il bianco cerchio della luna,
e la pigliò per un formaggio tondo.
Eran sospese al pozzo per fortuna
due secchie, che scendevano a vicenda,
e la Volpe, sedendo in fondo ad una,
vi si lasciò calar; ma la faccenda
divenne brutta, quando giunta in fondo,
dell'illusione le cascò la benda.
Perché come salir nel chiaro mondo,
se non venìa qualche altro che credesse
per appetito quel formaggio tondo,
e che nell'altra secchia discendesse?
Due giorni stette dentro al buco nero
senza che un nero cane la vedesse.
Il tempo, che fa sempre il suo mestiero,
andava intanto trasformando il volto
di quell'astro d'argento lusinghiero.
Pensate or voi se l'animal sepolto
dovea soffrir di fame e di dispetto
in bocca a un pozzo e in una secchia colto.
Quando venne a passar, forse costretto
dalla gran fame, il Lupo, e si fermò
a contemplar quel luccicante oggetto,
la Volpe: - O camerata, - a lui gridò,-
vedi tu questa cosa un po' lucente?
È un formaggio che Fauno fabbricò:
un formaggio divino ed eccellente
fatto col latte d'Io, vacca famosa:
e Giove, quando fosse un po' soffrente,
se mangiasse un pochin di questa cosa,
sarebbe in un momento risanato,
tanto è squisita e tanto è appetitosa.
Io stessa n'ho uno spicchio rosicchiato,
lo vedi, ma ne resta, se lo prendi,
ancora un bel boccone prelibato.
Ho lasciata una secchia: orvia, discendi.-
E il Lupo, che credette al Suo buon cuore,
discese e col suo peso, tu comprendi,
che la Volpe dal pozzo trasse fuore.
Non ridiam, ché sovente a noi succede
di mangiar del formaggio anche peggiore.
Che facilmente l'uom di buona fede
da ciò che lo lusinga o lo spaventa
si lascia affascinar e spesso crede
nel dïavolo stesso che lo tenta.
Fab.7
Il Contadino del Danubio
Un buon consiglio ch'ha la barba grigia
è di non giudicar sull'apparenza.
Del pipistrello già contai la favola
per meglio dimostrar questa sentenza;
ma posso anche citare Esopo e Socrate,
gente conosciutissima, mi pare,
e insieme raccontare
ciò che da Marco Aurelio si descrive
d'un rustico villan che del Danubio
viveva sulle rive.
Ispida e folta la gran barba scende,
e il pel, che tutto prende il collo e il torso,
lo rassomiglia a un orso mal leccato.
Sotto un ciglio più nero del carbone
losco lo sguardo; il naso sgangherato,
le labbra enfiate e addosso un zimarrone
di pel di capra e giunchi alla cintura.
Ecco dell'uom la nobile figura.
Questo superbo arnese
mandaron deputato
alcune cittadelle del paese
che l'Istro bagna, per alzar la voce
contro l'ingorda, atroce
avarizia fiscale dei Romani,
che in ogni parte ormai mettean le mani.
Viene e comincia l'orso
a fare il suo discorso:
- Romani e voi, padri coscritti, udite.
Invoco ai detti miei
propizi prima gl'immortali dèi,
perché non esca dal mio cor un segno
che sia di me, che sia di voi men degno.
Se non parlano i Numi in fondo al core,
ingiustizia vi parla, odio, furore.
E noi sappiamo, ahi miseri! che senza
le sante leggi ogni virtù non vale,
ché sui delitti nostri è la potenza
degl'inimici fabbricata e scende,
istrumento del ciel, Roma fatale,
che coll'avida man tutto ci prende.
Ma vi pigli, o Romani, alto sgomento
che non venga per Roma anche il momento
in cui rovesci il ciel sul vincitore
di tanti vinti il pianto ed il dolore!
Non temete che il ciel ritorca queste,
che voi stringete, per punir funeste
armi sui petti vostri,
e per la man di schiavi vi dimostri
la sua vendetta e l'ira?
Perché siam fatti servi?
Qual forza o qual destino
vi fa tanto protervi?
Perché sull'universo solo a voi
dato è un poter che non è dato a noi?
I nostri campi in pace
noi sempre coltivammo e l'arte e i cari
affetti pria che un popolo rapace
ci togliesse ai tranquilli focolari.
Se i popoli germani,
come da voi s'insegna,
a depredar stendessero le mani,
avrian sul mondo stesa la potenza
della tedesca insegna,
e l'armi anch'essi, come voi, ma senza
ferocia e avidità.
Dei proconsoli vostri al cielo grida
ormai la crudeltà,
che i sacri altari e gl'Immortali sfida.
Mercé vostra, gli dèi non altro mirano
che stragi ed ignominie
e feroci rapine e sprezzo e scempio
di lor, dei templi loro.
Nulla basta a placar questa dell'oro
romana fame, non la terra e l'aspro
degli uomini lavoro.
Oh cessi alfin questo flagel! togliete
questi avidi ladroni,
che già troppo sfruttar dei nostri buoni
popoli i campi, o noi lasciam le mura
delle città, lasciamo
i campi tutti e sui monti fuggiamo
e nelle dense selve
tra men feroci belve,
stanchi di procrear figli, che Roma
uccide, vende, doma.
Presto di vita privi
anche i nostri vedrem figli mal vivi,
ché spinge noi la vostra mano impronta
a far seguire anche il delitto all'onta.
Richiamate i carnefici, o Romani,
che sol dei vizi e di mollezza il culto
diffondono tra i popoli germani,
o voi vedrete scotere la soma
questa gente mal doma e dar spettacolo
sol di rapine onde famosa è Roma.
Invan giustizia con argento ed oro
e con preziose porpore
invocammo più volte da costoro.
Che in mille avvolgimenti
delle leggi si perde anche il decoro.
Che se la voce mia chiara ed aperta
a molti fia savor di forte agrume,
a me togliete il lume
del giorno e fine alla pietosa sorte
ponete colla morte.-
Ciò detto, egli si prostra
in terra e stanno attoniti i Romani,
pensando il cor magnanimo ed il fiero
parlar dell'uom selvatico e sincero,
che tanta forza ed eloquenza mostra.
Sola vendetta e di Romani degna
fu di patrizio a lui data l'insegna,
poi, scelti nuovi magistrati, esempio
agli oratori nostri, dal senato
fu il bel discorso scritto e celebrato.
Ma questa natural arte nel colto
popol di Roma non rimase molto.
Fab.8
Il Vecchio e i tre
Giovinetti
- Piantar, ad ottant'anni
piantar, non è da matto?
Pazienza se una fabbrica,
buon vecchio, avessi fatto.
Ma qual vantaggio o frutto
speri ritrar da questo
lavor senza costrutto?-
Così dicean tre giovani
a un vecchierello onesto.
- Campassi anche la vita
dei vecchi patriarchi,
d'un avvenir t'incarchi
lontano e che giammai
pur troppo non vedrai.
Sgombra dal cor gl'inutili
pensieri, - aggiunser poi,-
questo conviene a noi.
- A voi tanto conviene
come conviene a me,-
rispose il vecchio, - e regola
sicura ancor non c'è.
Di noi chi vedrà l'ultimo
la volta ampia del cielo?
Le vecchie Parche ridono
di me come di quanti
son giovani e prestanti.
La vita è un vaso fragile,
che dura fin che dura,
ed alla vostra età
chi, amici, vi assicura
dell'ora che verrà?
Il fabbricar richiede
tempo e poi dura poco.
Io pianto, e a lieto gioco
di questo tiglio al piede
verranno i figli un dì
de' figli miei. Provvede
il saggio nell'altrui
il suo piacer così.
Quello che provo è un vero
piacer che da quest'albero
io già raccolgo, e spero
di cogliere dimani
ancor colle mie mani.
Nessuna meraviglia
se poi vedessi ancora
tornar sul vostro tumulo
più d'una bella aurora.-
Il vecchierel sapiente
ahimè! non s'ingannò.
Dei tre valenti giovani,
tornando dall'America,
il primo si annegò.
L'altro, non meno ardente
d'onor, per la sua patria
pugnando, entro la mischia
d'un colpo al suol restò.
Salito in cima a un albero,
incespicando il terzo,
il capo fracassò.
Li pianse il vecchio e scrivere
fece per pia memoria
sul desolato tumulo
questa morale istoria.
Fab.9
I Topi e il Gufo
Non bisogna creder mai
di contar cose sublimi
alla gente.
Come vuoi che ognuno estimi
egualmente
tutto ciò che tu dirai?
Una prova assai sincera
noi l'abbiamo in questa istoria,
che sembrar può inverosimile
ed è vera.
Abbattevano un pin, vecchio palazzo,
asil oscuro e tristo
a quell'uccel che d'Atropo
è messaggier sinistro.
E dal suo vecchio tronco rosicchiato
dal tempo, insiem a molti altri inquilini,
grassi, rotondi uscirono,
ma coi piè mozzi, alcuni topolini.
Il maledetto Gufo avea col becco
mutilate le bestie e le nutria
di gran, di pan, di briciole,
in casa con squisita cortesia.
La brutta bestia in altre circostanze
avea veduto i topi prigionieri,
se appena lo potevano,
dalla prigion scappare volentieri.
Onde trovò il rimedio,
man man che ne pigliava sulla via,
di romperne le gambe e poi con comodo
mangiarli e così via.
Non si voleva prendere l'affanno
di mangiarli in un giorno, ed anzi il caso,
oltr'essere impossibile,
poteva alla salute esser di danno.
Dié segno dunque d'una previdenza,
che non si dà l'eguale, sto per dire,
neppure in mezzo agli uomini.
Pei topi fu una mezza provvidenza:
ché li serviva a tavola
con tanta carità, che a un cartesiano,
per cui tutto non è che un meccanismo,
dovea parer quel Gufo un poco strano.
Se non era ragion che consigliavalo
ad ingrassar quei topi nella stia
e a romperne le gambe,
non so più la ragion che cosa sia.
Ei pensava così: - Poiché mangiarli
non posso in una volta ed essi scappano,
pel pranzo di dimani
bisogna ben ch'io pensi a conservarli.
Però togliendo ai topolini i piedi,
o saggio Gufo, al caso tuo provvedi.-
Dite voi se Aristotele ed i sui
ragionavano meglio di costui.
Epilogo
Alla riva così d'un'onda pura
la Musa nel linguaggio degli dèi
tradusse ciò, che gli animali miei
innanzi al cielo esprimono
colla rozza favella di natura.
Interprete di popoli diversi
io li feci parlar, come si vedono
sulla scena gli attori, entro i miei versi.
Non c'è cosa nel mondo e in ogni sfera
che non ragioni nella sua maniera.
E se vi par che parlino le cose
più ch'io non sappia interpretar col canto,
almen dato mi sia
questo modesto vanto
d'aver sgombrata la novella via.
All'opra altri potran con abil mano
e delle Muse col favor gentile,
con nuovi modi, ch'ho tentato invano,
aggiungere splendor ed alto stile.
Ma ben altri argomenti intanto a voi
costringono la mente:
che mentre questa mia Musa innocente
traversa l'acque in piccioletta barca,
Luigi il gran Monarca
pon fine all'ardue imprese
che già stancaro i più famosi eroi.
Se queste canterà Musa più forte,
il Tempo e insieme vincerà la Morte.
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