Favole Lista

Libro sesto
 

Libro quinto
 
Il Boscaiolo e Mercurio
Il Vaso di terra e il Vaso di ferro
Il Pesciolino e il Pescatore
Le Orecchie della Lepre
La Volpe dalla coda mozza
La Vecchia padrona e le due Serve
Il Satiro e il Passeggero
Il Cavallo e il Lupo
Il Contadino e i suoi Figli
La Montagna che partorisce
La Fortuna e il Ragazzo
I Medici
La Gallina dalle uova d'oro
Il Mulo che porta reliquie
Il Cervo e la Vite
Il Serpente e la Lima
La Lepre e la Pernice
L'Aquila e il Gufo
Il Leone che va alla guerra
L'Orso e i due Compari
L'Asino vestito della pelle del Leone

Fab.1
Il Boscaiolo e Mercurio
Al signor C. D. B.

All'opra mia, Signor, norma e misura
diedi il vostro gentil senso del bello,
a cui spiace dell'arte ambiziosa
i fronzoli e gl'inutili ornamenti.
La penso anch'io così. Guasta dell'arte,
per troppa voglia d'abbellir, la schietta
semplicità l'indocile poeta.
Anch'io discrete amo le Grazie. Esopo
apre la via per cui cerco a quel fine
alto seguirlo, ove egli tende, anch'io.
Se mai non tragge il mio lettor alcuna
dottrina o compiacenza, oh almen mi giovi
l'indole allegra, che allo scherzo mira,
e che conduce il vizio alla burletta.
Tal mi son io, se a me non diede il Cielo
omeri e braccia d'Ercole robuste.

Invidia e vanità sono i due gangheri,
su cui si aggira questa vita umana
e dove anch'io la favoletta impernio.
Vizio e virtù, l'un contro l'altra armato,
senno e stoltezza in bilico e contrasto,
ecco il gioco, onde spiegasi siccome
possa la rana invidiar del bove
la grandezza, e gonfiar fino alla morte,
e il lupo urlar contro l'agnello e in guerra
mover la mosca e l'umile formica.

Questa è l'opera mia, che si distende
ampia comedia in cento atti diversi,
e che per fondo ha l'universo intero.
Uomini, Dèi, lo stesso alto Tonante,
e gli animali e il portator di belle
ambasciate alle belle, almo Mercurio,
passano in volta, ognun pronto al mio cenno.
Ma non perciò, Signor, venni quest'oggi
innanzi a voi. Mi chiama altro argomento.

Un Boscaiol un dì smarrì la scure,
da cui traeva il suo boccon di pane,
e non avea da vendere neppure
i cenci suoi per vivere dimane,
onde piangendo supplica gli dèi,
- O mia scure, - gridando, - o dove sei?

O Giove, a me la rendi e mi darai,
signor del Cielo, una seconda vita! -
Nell'Olimpo risuonan questi guai
tal che Mercurio, l'alma intenerita,
- La scure - dice - che piangendo chiedi,
la sai tu riconoscer se la vedi? -

- Altro che! - quel risponde. - È questa forse? -
E gli porge una scure tutta d'oro.
- Non è questa -. Egli un' altra gliene porse
d'argento. - Non valea tanto tesoro -.
Mercurio allor ne trasse una di legno.
- Ah! questa è mia, la riconosco al segno.

Lieto sarei, se tu mi dassi questa -.
- E tu le avrai buon uomo, tutte e tre.
La tua fede è sì grande e tanto onesta,
che pagata vuol essere da me -.
- Quando è così, - risponde il poveretto, -
con tutto il cuore, o mio Signor, l'accetto -.

Quando si seppe il caso, in un momento
ogni altro Boscaiol perdé l'arnese,
quindi risuona il Ciel di un tal lamento
che Giove n'ha le orecchie un poco offese.
Scende Mercurio nuovamente a loro
e mostra a ciaschedun la scure d'oro.

Per non parere gente mammalucca,
dicon tutti: - Sì, sì, quella è la mia -.
Mercurio gliela dà, ma sulla zucca
a castigar la loro ladreria.
O furbi, è sempre buono di saperlo,
che il Padre eterno non è poi sì merlo.

Fab.2
Il Vaso di terra e il Vaso di ferro

Un Vaso di ferro a un altro di creta
un giorno chiedeva: - Viaggi, vicino?
- No, caro, la fragile natura mel vieta,
restare desidero accanto al camino.

Un picchio, uno spigolo, che a sorte mi tocchi,
può subito mettermi in quindici tocchi,
viaggi chi il corpo si sente più saldo,
qui dentro la cenere deh! lasciami al caldo -.

Il Vaso di ferro per fargli coraggio:
- Non darti pensiero, diletto vicino,
in ogni momento del nostro viaggio
avrai nel mio corpo usbergo e cuscino.

I colpi e gli spigoli conosco da un pezzo,
e vigile sempre a mettermi in mezzo,
né corpo, né punta di cosa un po' dura
non fia che ti rechi dolore o frattura -.

A queste parole il debol si attacca
al forte compagno, e vanno con Dio:
ma zoppica tu che zoppico anch'io,
un fianco si pesta, un altro si ammacca.

Non vanno mezz'ora che contro il più forte
ha rotte le costole il Vaso di terra.

Chi sta co' suoi pari, in pace ed in guerra,
del povero Vaso non corre la sorte.

Fab.3
Il Pesciolino e il Pescatore

Un pesciolin diventa un pesciatello,
e poi, la Dio mercé, se mangia e cresce,
è ver, diventa un pesce;
ma non dimostra aver troppo cervello
chi lascia il pesce piccolo
per pigliarlo di poi più grosso e bello.

Un Carpioncel meschino
nella rete incappò del Pescatore.
- Ogni poco fa numero, - in suo core
disse quell'uomo, e il butta nella cesta
per cominciar la festa.

- Sono così piccino e inconcludente, -
il pesciolin gridò, -
che in me non hai da consolare un dente.
Lasciami andar, quando sarò carpione,
nella tua rete, il giuro, tornerò.

Allora sì che avrò la proporzione
da far un buon contratto:
mentre occorron dugento pari miei
a riempire un piatto,
e tal piatto, che anch'io non mangerei.-

A lui rispose il furbo Pescatore:
- Insipido sì o no, nella padella,
pesce predicatore,
andrai stasera, e quasi mi lusingo
che sarà la tua predica più bella.-

Un ho vale di più di cento avrò,
l'uno almeno è sicuro e l'altro no.

Fab.4
Le Orecchie della Lepre

Un animal cornuto
col corno offese un giorno il Re Leone,
che per levar fin anco l'occasione
sbandì tutte le bestie dal suo regno
ch'han sulla fronte qualche aguzzo segno.

E cervi e becchi e buoi, capre e capretti
a far fagotto furono costretti
ed a cercar paese più sicuro.
Vedendo anche la Lepre degli orecchi
l'ombra allungarsi aguzza sopra il muro,
temé che qualche inquisitor, per poco
pigliandole per corna,
non le facesse un maledetto gioco.
- Addio, Grillo, - esclamò, - cambio dintorni
per cagion, tu lo sai, di questi corni.-

- Corni questi? - rispose il Grillo astuto.
Per quel che vedo anch'io
son orecchie, amor mio, delle più belle
che sian uscite dalla man di Dio.

- Corni od orecchi, se ad alcuno il ruzzo
o l'interesse torna
di dire che son corna,
n'avessi sulla fronte
meno ancora di quelle ch'ha lo struzzo,
saranno corna, corna da bisonte.
Che giova il protestare? ti si piglia
e ti si porta dritta alla Bastiglia.-

Fab.5
La Volpe dalla coda mozza

Una Volpe più furba del diavolo,
che sentiva di volpe lunge un miglio,
famosa mangiatrice
di galline e terror d'ogni coniglio,
un giorno restò presa in una trappola.

Poté fuggir, ma nel fuggir la coda
restò tra i ferri in pegno.
Piena di rabbia quindi e di disdegno,
non volendo esser sola in quella moda,
un dì nell'assemblea
delle Volpi esponeva questa idea:

- Che mai si fa di questa roba inutile
che spazza il sozzo fango della via?
Non sarebbe più bello e assai più comodo
addirittura di tagliarla via?

- Magnifica proposta! -
soggiunse qualcheduna ivi presente, -
voltatevi di là, madama, e subito
avrete la risposta.-

A questo dir scoppiò di risa un tale
fracasso generale,
che seguitò la coda
a rimaner di moda.

Fab.6
La Vecchia padrona e le due Serve

La Vecchia padrona e le due Serve Una Vecchia
stizzosa come un cane
al suo servizio mantenea due schiave,
tanto leste al filare e tanto brave,
che avrian rubato anche alle Parche il pane.

La Vecchia avara la giornata intera
le faceva filar, sempre filare,
sempre col fuso in man dall'alba a sera,
anche il tempo cred'io del desinare.

Quando sull'alba in punto il suo galletto
salutava il gran Febo luminoso,
la Vecchia sgambettava fuor del letto
in un giubbone lacero e tignoso.

Accendeva una lampa e senza indugio
si dirizzava verso lo stambugio,
dove in braccio del Sonno abbandonate
dormivan le due donne disgraziate.

L'una si stira e ricomincia i guai,
l'altra, schiudendo un occhio, il consueto
augurio manda a quel gallo indiscreto
che canta sempre e che non crepa mai.

Per mantenere forse la parola,
un bel giorno il galletto si trovò
nel sangue con un ferro nella gola.
Ma l'assassinio il male peggiorò.

Ché per timor che passi troppo l'ora,
come se fosse da un folletto invasa,
la Vecchia molto prima dell'aurora
si sente tramestare per la casa.

Così le donne per amor di pace
dalla padella cadder nella brace.

Fab.7
Il Satiro e il Passeggero

Senza tappeto, tavola e divano,
in fondo a una selvatica
grotta si trasse un Satiro
a desinar colla scodella in mano.

Accanto i figli e la diletta moglie
sul musco anche sedevano
e lieti masticavano.
Semplicità l'appetito non toglie.

Colto dall'acqua come il Ciel la manda,
un Passegger ospizio
cercò nell'antro, e subito
fu invitato a gustar della vivanda.

La cortesia tornò molto gradita
all'uom, che freddo ed umido,
per riscaldarsi l'unghie
col fiato si soffiò sopra le dita.

E quando fu servito il desinare,
ancor sopra ci soffia.
Meravigliato il Satiro
gli dimandò: - Che giova ora il soffiare?

- Soffiando, come ho fatto, scaldo in pria
le dita, e quindi soffio
per raffreddar il liquido.-
Disse il Satiro allor: - Caro, va' via,
a me sembra una cosa assai barocca,
e tolga il Ciel ch'io voglia
dormir con un che soffia
il caldo e il freddo dalla stessa bocca.-

Fab.8
Il Cavallo e il Lupo

Un Lupo nella dolce primavera
quando i prati la mite aura rinnova
ed escon gli animali alla pastura,
un Lupo, dico, andando alla ventura,
in mezzo a un praticello
vide un Cavallo abbandonato e bello.

- Buon pro, - disse fra sé, -
a chi saprà servirselo per cena.
Se invece di caval fosse montone,
sarebbe quel boccone
che più conviene a me,
che piglierei d'un salto e senza pena.

Ma qui, - soggiunge il ghiotto, -
ci vuol malizia -. E a passi misurati
vien innanzi e si spaccia a lui per dotto
discepolo d'Ippocrate,
che sa guarire i mali più invecchiati
col semplice decotto
dell'erbe ch'ei conosce ad una ad una
(sia detto senza alcuna vanteria)
come se fosse nato in spezieria.

- Quando un Cavallo va così slegato,
- gli dice, - in mezzo al prato,
in medicina questo è un gran segnale
ch'egli si sente male.
Se don Poledro vuole ch'io lo visiti,
prometto di guarirlo
gratis, s'intende, e senza obbligazione.

- Se vuoi saper, - risposegli il Cavallo, -
ci ho una pustema grossa sotto un piede.-
E il medico burlone:
- Ahimè, son mali seri
e che richiedon qualche operazione
un po' pericolosa.
Ma non importa, credi all'arte mia,
io so la chirurgia
e servo dei cavalli cavalieri.-

E mentre il furbacchiotto si avvicina
per stringere il malato,
questi che odora il fiato
all'animal sapiente,
gli stiaffa in viso un calcio sì potente,
che il naso manda in broda
e i denti e le mascelle gli dischioda.

Il Lupo nel partir disse in suo core:
- Fornaio, fa' il fornaio,
ognun il suo mestier faccia pel quale
dal Cielo è destinato.-
Un Lupo nato ad esser macellaio
sarà sempre un gran povero speziale.

Fab.9
Il Contadino e i suoi Figli

Lavorate,faticate,
un tesoro
immancabile è il lavoro.

Un ricco Contadino, ridotto al lumicino,
chiamò d'intorno i Figli e a lor così parlò:

- Il vostro poderetto
mai non vendete, o figli, perché di certo io so
che v'è sotto nascosto un gran tesor... Zappatelo,
scavatelo, frugatelo,
e troverete ciò che vi prometto.-

Quando fu morto il padre, per gola del tesoro
corrono i figli e zappano,
scavan di qua di là la terra in ogni lato.
E avvenne proprio quello che disse il padre loro;
ché, il campo lavorato e dissodato,
trasser sì gran raccolto in fin dell'anno,
che quasi dove metterlo non sanno.

Ben fu il padre saggio astrologo
nel mostrare che il lavoro
da sé solo è un gran tesoro.

Fab.10
La Montagna che partorisce

Una Montagna presso a partorire
di tali strida l'aria riempiva
che la gente, che udiva da lontano,
diceva: - Il fantolino
una città sarà come Milano.-
E nacque in quella vece un topolino.

Pensando a questa favola
così falsa di fuori e vera in fondo,
mi raffiguro certi poetonzoli
che prometton cantare il finimondo
e Giove e il tuono e i fulmini e i Titani.
E d'una cosa sì straordinaria
non ti resta allo stringer delle mani
che cosa? - un poco d'aria.

Fab.11
La Fortuna e il Ragazzo

Tornando dalla scuola un ragazzino,
si pose a sonnecchiar soavemente
sopra l'orlo d'un pozzo assai profondo.
Ogni cosa ai ragazzi è un buon cuscino.
Se un vecchio fosse stato sì imprudente,
o un padre di famiglia,
scommetto che sarìa cascato in fondo.
Fortuna volle che la dea Fortuna
passasse a lui vicino,
e assai cortesemente lo svegliò.
- Mio caro, - disse, - ascolta,
non esser sì imprudente un'altra volta,
perché sempre vicina non sarò.
Se tu cadi la colpa mia non è,
ma la gente la piglia poi con me.-

Avea ragion da vendere
la buona dea volubile,
che al mondo d'ogni male
è fatta responsabile.
Sempre gli sciocchi pensano
di scaricar la colpa dei malanni,
tirando la Fortuna per i panni.
Sia l'uomo dritto o storto,
sempre Fortuna ha il torto.

Fab.12
I Medici

Dottor Nero e dottor Rosa
d'un malato accanto al letto
fra di loro disputavano:
- Malattia pericolosa, -
l'un dicea. - Faccenda seria!
Il malato
per mio conto è già spacciato.

- Al contrario, dottor Nero, -
dicea l'altro, - ed io prometto
di tirarlo fuor del letto-

Tra due Medici in contrasto
ne' giudizi e nella cura,
il malato, poveretto,
pagò il debito a Natura.

- Non l'ho detto, non l'ho detto? -
esclamava dottor Nero, -
il malato a' miei pronostici
ha creduto più che a voi.

- Grazie tante, - trionfante
disse l'altro, - ma il malato,
se creduto avesse a noi,
non sarebbe mai crepato.

Fab.13
La Gallina dalle uova d'oro

Della seguente favola il costrutto
è fatto per coloro
che, per troppo voler, perdono tutto.

Aveva un certo tale una Gallina,
che faceva ogni giorno un ovo d'oro.
Credendo che la bestia peregrina
chiudesse in grembo qualche gran tesoro,
l'uccise, e aperto il fianco,
la sua Gallina simile trovò
a tutte l'altre che fan l'ovo bianco,
così il suo danno ei stesso procacciò.

Convien questa lezione
a molta gente senza discrezione.
Non son gli esempi rari
di quei che, per la gola dei denari,
della fortuna al gioco
perdono il molto e il poco.

Fab.14
Il Mulo che porta reliquie

Nel portar certe reliquie
un muletto lusingavasi
che per lui gl'incensi fossero
e le lunghe litanie,
onde spesso riverente
per le piazze, per le vie,
salutavalo la gente.

Ma trovò chi finalmente
gli levò dal cor l'inganno:
- Non per te gl'incensi e i cantici,
bestia sciocca,
dal buon popolo si fanno,
ma per ciò che in spalla porti.
Rendi dunque alle reliquie
quest'onor che non ti tocca.-

Alla croce, al grado, al titolo,
illustrissimi cretini,
non a voi sono gli inchini.

Fab.15
Il Cervo e la Vite

All'ombra d'una vite alta e frondosa,
come crescon sovente
nei caldi climi, un Cervo, spinto in caccia,
timido si accovaccia.
E nella selva delle foglie spesse
poté salvar la pelle sua preziosa.

I cacciatori chiaman dalla traccia
i mesti cani, ma la bestia ingrata
non si mette a brucar la sua benevola
benefattrice come un'insalata?

E mal per lui! ché allo stormir ritornano
i cani, e addosso, piglia,
del suo sangue la vite ei fe' vermiglia.
Invan piange la bestia,
invan pietà dai cacciatori supplica;
della sua carne ebbe ciascun un tondo
ed i cani ne furon consolati.
Esempio a quanti ingrati son nel mondo.

Fab.16
Il Serpente e la Lima

Vicino a un oriolaio
abitava, raccontano, un serpente
(incomodo vicino certamente),
che in bottega un bel dì dalla finestra
per desinare entrò.
Ma non trovando nulla,
né cacio né minestra,
a rodere una lima cominciò.

- Che cosa credi, o bestia, ora di fare? -
disse la Lima a lui tranquillamente,
- una lima di ferro rosicchiare?
O piccolo animal senza cervello,
prima che tu di me mangi un granello,
dovrai sul ferro consumare il dente.
Il tempo sol potrammi consumare.-

Questa è scritta per voi, spiriti gretti,
che, buoni a nulla, a mordere vi date
l'opere belle e gli uomini più eletti.
Mordete, poco è il danno
che i vostri denti fanno.
La virtù per l'invidia rosicchiante
è ferro duro, è bronzo, è diamante.

Fab.17
La Lepre e la Pernice

Delle disgrazie altrui fa' di non rider mai,
perché chi t'assicura
che sempre fortunato nel mondo esser potrai?

Ciò ben dimostra in varie
sue favolette Esopo,
e questa ancor ch'io recito
mira diritta a non diverso scopo.

Vivea la Lepre nello stesso campo
colla Pernice i giorni suoi beati,
quando un branco di cani scatenati
costrinser quella a chiedere uno scampo
nella sua tana oscura.
I Cani (ed alla testa era Grifone)
restaron colla voglia del boccone.
Ma il Lappa, un della scorta, un forte e baldo
cane levrier, filosofando a naso,
gli parve della preda
sentir l'alito caldo,
e fuori me la caccia dalla tana.
Molosso, andando a caso,
la trova, e dando a credere,
da cane che non ama dir bugia,
che gita sia lontana,
il tempo non le lascia
di dir Gesummaria.

- Che val, bestia minchiona,
d'aver la gamba buona? -
le dice la Pernice,
scherzandola quand'ecco
i cani addosso accorrono
e la celia le mozzano nel becco.
Sull'ali confidava la meschina,
ma non avea ben fatto i conti suoi
col falco dalla zampa malandrina.

Fab.18
L'Aquila e il Gufo

L'Aquila e il Gufo un dì, fatta la pace
e scambiato l'amplesso,
l'una giurò, parola di regina,
e giurò l'altro in fe' di barbagianni,
che non avriano a' danni e alla rovina
de' figli loro congiurato mai.

- Conosci i figli miei? - chiese l'uccello
caro a Minerva. - Io no.

- Or temo, se distinguerli non sai,
che tu ne faccia un dì tristo macello.
Voi grandi, per quel poco che ne so,
come gli dèi lassù,
non state a calcolare il meno e il più,
ma fate dei mortali
quel conto che si fa degli stivali.
Oh sì, povero a me
se me li mangi! - Amico, orbe', se vuoi
che non tocchi una penna a' figli tuoi,
me li presenti o fammene il ritratto.

- Davver? subito fatto.
Sono uccellini belli e graziosini,
che non hanno gli eguali infra gli uccelli.
Se tu li vedi, esclami: "Ecco son quelli."
In mente ben rimarca
questi segnali e fa' che per tuo mezzo
non entri in casa mia la trista Parca.-

Non molto tempo andò
che il barbagianni babbo diventò,
e un dì ch'egli era fuori per la spesa
l'Aquila venne, e visto in un oscuro
crepaccio d'una grotta, ovver d'un muro
(preciso ancor nol so),
certi uccellacci di sembianza offesa,
goffi, rognosi e cupi e rauchi al canto,
- Questi non son del nostro amico i figli,-
esclama, - e bene io posso
mangiarmeli -. Sì disse, e la grifagna,
che non è ne' suoi pasti pitagorica,
se li rosicchia tutti fino all'osso.

Quando il Gufo tornò dalla campagna,
e non trovò di tutti
i figli suoi che l'unghie e i becchi asciutti,
le grida disperate al cielo alzò,
e contro l'assassin lo sdegno e i fulmini
dei numi supplicò.

Ma fuvvi chi gli disse: - O barbagianni,
te stesso accusa autor de' tuoi malanni,
o il senso natural, che sempre vuole
chi ne somiglia render belli e amabili.
Meglio per te, se per amor de' tuoi,
non avessi gonfiate le parole.

Fab.19
Il Leone che va alla guerra

Volendo Re Leon scendere in guerra,
dirama un bando a tutti gli animali,
che vengan da ogni parte della terra
ciascun nelle sue fogge naturali.

L'elefante, oltre al combattere,
a portar l'artiglieria
e i foraggi è valentissimo.
Gran maestra in strategia
è la volpe, e sa la scimia
il nemico gabellar,
salta l'orso ed è terribile
le fortezze ad assaltar.

Volevano i ministri mandar via
gli asini sciocchi e i timidi lepratti,
ma non volle il Leone a tutti i patti.

- L'asino, - disse, - a fare da trombetta
ha una voce più forte della mia,
e la lepre sarà nostra staffetta-

Il Leon capì, da saggio,
che si può cavar vantaggio
da qualunque attività.
Nulla è inutile a chi sa.

Fab.20
L'Orso e i due Compari

Ad un vicin mercato due Compari,
a corto di denari,
vendettero d'un grande Orso la pelle,
d'un Orso, ben inteso,
che non aveano ucciso ancor né preso.

A sentirli, degli orsi era il campione,
e la pelle soltanto una fortuna
da foderar non una,
ma due zimarre contro il più ribelle
freddo della stagione.

Prometton che in due dì saranno pronti
la pelle a consegnar, non altrimenti
che la pelle trattassero d'un fico.
E senza fare i conti
coll'Orso, vanno in traccia dell'amico.

Vanno, ed ecco che subito si affaccia
la belva che galoppa e mostra i denti.
Contratto addio! non è quello il momento
di far affari colla bestïaccia,
ma di scappar... e scappan come il vento.

L'uno svelto s'arrampica su un albero,
l'altro si butta in terra colla faccia,
e fa il morto, non fiata, avendo udito
che l'orso con chi puzza di cadavere
di rado si è mostrato inferocito.

- Puzza da morto, andiamo,-
disse l'Orso e nel bosco si rintana.
Un degli amici scende allor dal ramo
e coll'altro di cuore si congratula
che ancor la sia passata così piana.

- E non t'ha della pelle anche discorso
quando il muso all'orecchio avvicinò?
- No, no, ma disse, se non ho frainteso,
che non bisogna vendere dell'orso
la pelle mai prima d'averlo preso.

Fab.21
L'Asino vestito della pelle del Leone

Un Asino, sebben asino tondo,
vestito della pelle del Leone,
il terror divenuto era del mondo.

Ma gli sbucò un orecchio e bastò questo
per svergognar quell'animal poltrone;
mastro bastone poi faceva il resto.

Vedendo che Martino,
il mugnaio, menava al suo molino
i leoni, stupì naturalmente
per via tutta la gente.

C'è in Francia e c'è in Italia dei messeri,
che tornan questo apologo di moda.
Lusso e sfoggio e di servi una gran coda
tengon luogo dei meriti sinceri.