I. 
					L' Agnello e lo Spino 
					 
					L'arte più bella, in che il Dator Sovrano 
					Dei beni all' uomo è d'imitar concesso, 
					È di porger benefica la mano 
					All' infelice dalla sorte oppresso; 
					Ma chi mercè del beneficio prende 
					Sua natura a lui cangio, e vile il rende. 
					 
					Mentre in un bosco a pascere occupata 
					Stava senza il pastor lanosa Agnella, 
					Là dai regni dell' Austro inaspettata 
					Giunse fremendo orribile procella; 
					E nell' aere imminente omai raccolte 
					Cadean le nubi in grandine disciolte. 
					 
					La Pecorella timida e smarrita 
					All' infuriar della tempesta rea, 
					Tra l' orror della selva aspra e romita 
					Senza il dove saper, quà e là correa, 
					Confondendo talor con lo spietato 
					Fragor de' tuoni il tremulo belato. 
					 
					Or fuggendo così passò vicino, 
					Dove sorgeva il rabbuffato aspetto 
					Pien di foglie e di punte un vecchio Spino, 
					E util facea riparo al suol soggetto; 
					Chè dal virgulto ed intrecciato e folto 
					L' urto ai globi di grandine era tolto. 
					 
					Ei l'Agnella chiamò: quindi cortese 
					Le offerse asilo sotto i rami suoi. 
					Qui, le disse, salvar te stessa, e illese 
					Le bianche lane conservar tu puoi. 
					Ella accettò l'invito; e tal ventura 
					Dalle furie del Ciel la fe' sicura. 
					 
					E allor che Iride bella in lieta faccia 
					Serenò l' aere, e in calma lo compose, 
					Essa cercar della perduta traccia, 
					E all' ovile natìo tornar dispose: 
					Onde mostrando il cor gentile e grato 
					Dal buon ospite suo prese commiato. 
					 
					Ma quando poi la Pecorella uscìo 
					Fuori del troppo avviluppato ostello, 
					Con le punte lo Spino a lei rapìo 
					Molti bei fiocchi del lanoso vello; 
					Così mercè del beneficio prese, 
					E l' usata pietà men bella rese. 
					 
					II. 
					Il Fumo e la Nuvola 
					 
					Da un gran cammino un giorno il Fumo uscia, 
					E in densi globi accolto 
					S' era inoltrato molto 
					Su per l' eterea via: 
					Quando egli in certa Nuvola s' avvenne 
					Che a suo diporto gia 
					De' venti su le penne. 
					Allor pien d' albagìa 
					A gridar cominciò: su la mia strada, 
					Olà, si faccia largo: allor che passa 
					Un par mio, non si vuole ei dalla bassa 
					Gente tenere a bada. 
					La nuvola, sentendo questo tuono 
					Di grandezza, e d'impero, 
					Disse: chi sei tu dunque? ed egli altero 
					Rispose: mel dimandi? il Fumo io sono. 
					Io del fuoco son figlio; e il fuoco, il sai, 
					È fratello del Sol, per cui dal suolo 
					Tu sì sublime ascendi: 
					Onde da questo solo 
					Quale io mi sia comprendi. 
					Allor la Nuvoletta 
					Al superbo rispose: oh! certamente 
					Per esser voi d' origin sì perfetta 
					Avete aria ben cupa; e, perdonate 
					Se un pochette pungente 
					Vi parrà 'l mio sermone; 
					Voi per fermo sembrate 
					Figlio del fuoco no, ma del carbone. 
					Or ascoltate un poco 
					Queste mie brevi note: 
					Signor figlio del foco 
					Del Sol signor nipote, 
					Io ben farovvi onore 
					Quando simil sarete al genitore. 
					 
					La favola consiglia 
					Che non si vanti de' grand' avi suoi 
					Chi poi non gli somiglia. 
					 
					III. 
					I due Susini 
					 
					Se nella verde etade alcun trascura 
					Di lodato sapere ornar la mente, 
					Quando è giunta per lui l' età matura 
					D' aver perduto un sì gran ben si pente. 
					Cercalo allor, ma trovasi a man vuote: 
					Potea, non volle; or che vorria, non puote. 
					 
					E voi, per cui d' un Mentore la mano 
					Suda a formarvi e l'intelletto e il core, 
					E che rendete infruttuoso e vano, 
					Negligenti e ritrosi, il suo sudore, 
					Facile orecchio almeno ora porgete 
					Alla mia favoletta, e risolvete. 
					 
					Due selvaggi Susini a un tempo nati 
					Nello stesso giardin facean dimora; 
					E sul ruvido tronco eransi alzati 
					Grandetti sì, ma non adulti ancora; 
					Onde il cultor cangiar risolse in parte 
					La lor natura, e ingentilir con l' arte. 
					 
					Perciò, tolti i rampolli e a quello e a questo 
					Arbor, che in pregio di bontà noria, 
					Volle mutar con fortunato innesto 
					In dolce frutto il frutto aspro di pria; 
					E poichè l' opra a incominciar si mise 
					Gl' ispidi rami ad un di lor recise. 
					 
					Quindi adeguato e fesso il tronco, intruse 
					Di bietta in guisa alla ferita in seno 
					I giovani germogli, e poi gli chiuse 
					Intorno intorno, e gli serrò con fieno; 
					Perchè fosser così nascosti al gielo, 
					Ed alle pioggie di nemico Ciclo. 
					 
					E già su l' altro a fare opra simile 
					La sua provida mano erasi volta. 
					Ma che non puote in mente giovanile 
					D' una vana beltà vaghezza stolta! 
					L' altro Susin veduto avea con duolo 
					Cadere i rami del compagno al suolo. 
					 
					E or vedendo che a lui pure s' appressa 
					Il temuto cotanto agricoltore, 
					Che gli prepari la sventura istessa 
					Teme; piange, e gli parla in tal tenore: 
					Ah! perché vuoi così tormi, spieiato, 
					L' unico ben, che renderai beato? 
					 
					Questi rami eh' io porto, e queste foglie 
					Rendono sol la pianta mia gradita. 
					Or se barbara mano a me le toglie, 
					Si tolga ancor quest' infelice vita. 
					Meglio è morir, se conservar non lice 
					L' unico ben, che rendemi felice. 
					 
					Ma se alcuna pietà senti di questa, 
					Che mi lacera il cor, crudele ambascia. 
					Deh! quel tuo ferro minaccioso arresta, 
					E vivo ancor nel tuo giardin mi lascia: 
					Lascia ch' io spieghi ancor la chioma al vento, 
					Unico ben, che rendemi contento. 
					 
					L' accorto agricoltore a questi accenti 
					Espressi dal dolor sorride, e poi 
					A lui risponde: or sì fatti ornamenti 
					Conserva pur, se conservar gli vuoi. 
					Tor la mia crudeltà no non pretende 
					L' unico ben, che rustico ti rende. 
					 
					Resta tranquillo pur; ma se capace 
					Me tu non credi di menzogna o frode, 
					Sappi che l' opra mia, che or non ti piace, 
					T' avria recato e gentilezza e lode: 
					Sappi che un dì, quando vedrai 'l tuo danno, 
					Tardo fia il pentimento, e il disinganno. 
					 
					Sì dice, ed oltre passa. I rami intanto 
					L'innestato Susin spunta e risorge: 
					E in ben poc' anni al tristo amico accanto 
					Braccia vaste, e più vaghe all' aria sporge. 
					Ciascun, che passa, in lui la nuova chioma 
					Ammira e loda, e le straniere poma. 
					 
					L' altro Susin, che del compagno vede 
					La non creduta in pria bella ventura, 
					Se ne invaghisce auch'egli, e ansioso chiede 
					La sua vecchia mutar rozza figura. 
					Grida al cultore: appaga il mio desio; 
					Voglio innestarmi e migliorarmi anch' io. 
					 
					Ma tosto a lui l' agricoltor risponde: 
					Non è più tempo: or te innestar non lice. 
					Solo i frutti cangiar, cangiar le fronde 
					Nella prima si puote età felice: 
					Or questa etade è trapassata omai: 
					Tu sempre rozzo, e sempre vii sarai. 
					 
					IV. 
					L' Usignuolo, e la 
					Rondine 
					 
					Ln ameno bosco ombroso, 
					Quando april riveste il suolo, 
					Dimorava un amoroso 
					Soavissimo Usignolo. 
					 
					Qui spiegando i suoi concenti 
					la dolcissima maniera, 
					Ne arricchiva i molli venti 
					Della bella primavera. 
					 
					O sorgesse il Sol dall' onda, 
					O la notte in bruno ammanto, 
					Ogni colle ed ogni sponda 
					Echeggiava al suo bel canto. 
					 
					Nella stessa piaggia aprica 
					Stava arguta Roudinella, 
					Che al narrar di fama antica 
					L' Usignuolo ha per sorella. 
					 
					Essa udendo l' armonia 
					Dal suo rustico ricetto, 
					L' ammirava, e ne sentia 
					Un dolcissimo diletto. 
					 
					Venti volte in Oriente 
					Avea il Sol portato il giorno, 
					Quando udì che men frequente 
					Risonava il canto intorno. 
					 
					Anzi udillo sì dimesso, 
					E ristretto a sì poch' ore, 
					Che parca non dell' istesso 
					Ammirabile cantore, 
					 
					Onde là rivolse il volo. 
					Ove il caro albergo avea 
					Il già tacito Usignuolo, 
					Ed a lui così dicea: 
					 
					O mio caro, e perché mai 
					La tua voce or non s' ascolta? 
					Onde vien che non ci fai 
					Rallegrar come una volta? 
					 
					Io temea non fosse occorso 
					Tristo caso a te di pena, 
					Che turbalo avesse il corso 
					Della tua vita serena. 
					 
					L' Usignuolo a' detti suoi 
					Sì rispose: vieni, e vedi; 
					Vieni, e vedi, e dirai poi 
					Se mi scusi, e se mi credi. 
					 
					Quel che miri, è il nido mio; 
					Son nel nido i figli miei; 
					Or se pascergli degg' io, 
					Come mai cantar potrei? 
					 
					Molto, è vero, ai dì passati 
					Apprezzai de' versi il vanto; 
					Or che i figli a me son nati 
					Penso a lor, non penso al canto. 
					 
					Così disse. Or voi, che avete 
					Già di padre il dolce nome, 
					Deh! pensate che ora siete 
					Sottoposti ad altre some. 
					Date ai figli ogni pensiere, 
					Non al frivolo piacere. 
					 
					V. 
					I Topi in Campanile 
					 
					Di frequentar sovente 
					Un alto campanile 
					Certi Topi eran usi. Ed a che farvi? 
					(Dirà qualche saccente) 
					Solean forse portarvi 
					I mercanti o i fattori il gran gentile? 
					Io di ciò eh' è stampato 
					Degli animali nella storia antica, 
					Non son certo obbligato 
					A darmi la fatica 
					Di render le ragioni; 
					Pur credo in verità 
					Che i Topi se n' andassero colà 
					Perché far vi solean buoni bocconi 
					Forse di passerotti, e di rondoni. 
					Or questi Topi un giorno 
					Videro il campanar, che in giù e in su 
					Certa fune tirava, 
					E per cotal virtù 
					La campana sonava. 
					Piacque lor sì bell' opra, e fatto tosto 
					Consiglio in fra di loro, 
					Fu da molti proposto 
					Di porsi a fare un simile lavoro. 
					Or ben, disse il più grave 
					Topo e più vecchio, facciasi il partito: 
					Ma mancaron le fave 
					Distrutte dal frugivoro appetito. 
					Perciò dalla giuliva 
					Animosa brigata 
					Restò l' affermativa 
					Con accenti ardentissimi acclamata. 
					Anzi un vi fu, che provido promosse 
					L' avviso di salire al più elevato 
					Piano, perché non fosse 
					Un travaglio sì bello disturbato. 
					Eccoli dunque all' opra: ognuno ascende 
					Su la fune, e la prende, 
					E con l' unghie, e co' denti e tutti insieme 
					Già con le posse estreme, 
					Tirano in giù: di tanti uniti eroi 
					Quello sforzo è ben degno; 
					Ma che pro? se d' ingegno 
					Ritroso la campana 
					Di crollare un tantin nè pur dà segno? 
					L' arbor non cade al primo colpo, allora 
					Gridano tutti, e raddoppiando vanno 
					Gli sforzi, e per lung' ora 
					Tirano, e nulla fanno. 
					In questo il campanar dal basso piano 
					Prende la fune in mano, 
					E incomincia a suonar; viva la schiera 
					Grida de' Topi, viva ecco si suona; 
					D' ogni ostacolo abbiam vittoria intiera. 
					Che il magnanimo ardir nostro corona; 
					Certo dalla campana un suon sì chiaro 
					Non trae quando la suona il campanaro. 
					Dal suonar finalmente 
					Il vero suonatore 
					Rimansi, e immantinente 
					Lascian la fune i Topi, e il gran valore 
					Mostrato in ciò che pensano aver fatto, 
					Vanno vantando a tutti gli animali, 
					Fuori però che al gatto. 
					E acciò che questo memorabil fatto, 
					Resti nella memoria, e si propali, 
					Lo scrivon nelle storie, e nei giornali. 
					 
					O mio Lettor, quei Topi sciagurati 
					Son ridicoli, è vero; 
					Ma parlate sincero: 
					Non son di questa fatta 
					Certi uomini insensati 
					Che vanno millantandosi d' un' opra 
					Come da loro fatta, 
					Ma che vien dalla man di quel di sopra? 
					 
					VI. 
					Lo Scoglio, e il 
					Diamante 
					 
					Lo Scoglio, e il fulgido Diamante un dì 
					Sentiti furono parlar così: 
					Scoglio. - Io non son lucido, ma son gigante. 
					Diamante. Ed io son piccolo, ma son brillante. 
					Il mondo è vario, e ognuno puote 
					Dirsi stimabile per la sua dote. 
					 
					VII. 
					L' Asino che porta 
					il concime, quindi i fiori 
					 
					Nell' uman core oh come facil nasce 
					La Vanagloria, e getta alto il germoglio! 
					Un uom, che appena uscito è dalle fasce 
					Quanto ha più di stoltezza ha più d' orgoglio; 
					E udir già tutto il mondo si figura 
					Far plauso ai pregii, onde l' ornò natura. 
					 
					E se alcun lo dispregia, o gli fa cosa, 
					Che saria sua vergogna, e suo rossore, 
					Con la sua stupidezza glorïosa 
					La stima lode, e ne pretende onore. 
					Folle! del mondo nella turba immensa 
					Altri il deride, ed altri a lui non pensa. 
					 
					Era appunto sì vano, e sì merlotto 
					Nella sua prima etade un Asinello, 
					Cui per suoi fatti un giorno avea condotto 
					Alla città vicina un villanello; 
					Quivi sovra di lui, per l' arenose 
					Terre ingrassar, soma di concio pose. 
					 
					Or mentre il passo ei rivolgea con questo 
					Putrido incarco alla magion nalta, 
					Ciascun che l' incontrava, a sì molesto 
					Fetor chiudeasi il naso, e si fuggia: 
					Intanto ei si credea che per omaggio 
					Ognun largo facesse al suo passaggio. 
					 
					E giunto alfine alla paterna stalla, 
					Ov' era la sua cara genitrice, 
					Lieto viso le mostra, e raglia, e balla, 
					E in linguaggio asinin così le dice: 
					Madre, diletta madre, ah tu non sai 
					Con quanto onor per la città passai! 
					 
					Vidi colà le cittadine genti, 
					Che venir non ardiano a me vicino; 
					Ma colme di rispetto e riverenti 
					Ala facean da lungi al mio cammino. 
					Certo quassù tra noi no non si fa 
					Cotanta riverenza al Potestà. 
					 
					L' asina a questo dir si sente in petto 
					Venir tacito gaudio inusitato; 
					Indi esternando il concepito affetto 
					Applaude, e fa carezze al figlio amato, 
					E con dente amorevole si pone 
					Dolce a fargli solletico al groppone. 
					 
					Nel giorno appresso il villauel dispose 
					Tornare alla cittade a vender fiori: 
					Messe le ceste all' Asino, e vi pose 
					Quei, che han più grati, e più soavi odori: 
					V' era la rosa, la viola, e v' era 
					Tutto ciò che ha di bello primavera. 
					 
					All' apparir dell' Asino fiorito 
					Vennergli intorno cittadini a schiere; 
					Corse di donne un numero infinito; 
					Chi voleva odorare, e chi vedere; 
					La folla in somma intorno a lui sì crebbe, 
					Ch' ei varco alfine a oltrepassar non ebbe. 
					 
					Lo stolido animai crcdeasi intanto 
					D' esser cosa mirabile, e si rara 
					Che le genti corresser da ogni canto 
					Sol per vederlo, e vagheggiarlo a gara: 
					Né potendo più star per l' allegrezza, 
					L' irto crine scuoteva, e la cavezza. 
					 
					E poiché il villanello ebbe spacciata 
					La sua vaga odorosa mercanzia, 
					E per tornarsi alla capanna usata 
					La sua riprese solitària via, 
					L' Asino glorïoso, e pien di vento 
					Correa sì lesto che parea un portento. 
					 
					Anzi dice la storia, eh' egli fatto 
					Impazïente alfin delle dimore 
					Il padron lasciò dietro un lungo tratto, 
					E quasi trasformato in corridore 
					Per via volò, sì che restonne appena 
					L' orma del pie su la calcata arena. 
					 
					Giunto alla madre, oh qual trionfo! oh quanti 
					Plausi, disse, ho riscossi in questo giorno! 
					Credimi, o madre, ad ammirar miei vanti 
					La città corse tutta a me d' intorno: 
					E tra l' immensa turba spettatrice 
					Chi potea più appressarsi era felice. 
					 
					A quest' ultimi accenti era arrivato 
					Il vecchio can del contadin, che pure 
					Erasi forse anch' egli ritrovato 
					Alle belle dell' Asino avventure, 
					E a lui rivolto disse: o barbagianni, 
					Nel tuo creder così quanto t' inganni! 
					 
					Tutti della città gli abitatori 
					Fuggon dal concio, e non a te fan loco: 
					Corron sì tutti alla beltà de' fiori, 
					Ma non pensano a te punto né poco. 
					Sì disse il cane da persona esperta, 
					E l' asino rimase a bocca aperta. 
					 
					VIII. 
					Borea, ed il Sole 
					 
					Un dì Borea ed il Sole 
					Vennero a gran contesa 
					(Come tra i bravi suole) 
					Chi far potria più memoranda impresa: 
					Ed era accesa 
					Tanto la lite, e sì bóllia lo sdegno, 
					Ch' eran sul punto entrambi 
					Di perdere il contegno. 
					Per gran ventura 
					Quivi passò vicino 
					Un pellegrino, 
					Che non avea vettura. 
					Allora il vento 
					Disse: cotanto contrastar che giova? 
					Sopra quel passeggier facciam la prova; 
					E il vincitor sia quello, 
					Che più pronto a colui toglie il mantello 
					Il Sole alla proposta 
					Prova tosto acconsente; 
					Prova, che veramente 
					Per due sì fatti Eroi di fama antica 
					Esser parea di picciola fatica. 
					Così fatti d' accordo, 
					Ecco il fiero Aquilon spiega le piume, 
					Con cui fremendo su le balze alpine 
					Ha per antico barbaro costume 
					Sveller talora alle foreste il crine, 
					E già si avventa, ed a rapir s' accinge 
					Il desïato trionfai mantello; 
					Ma il passeggier si cinge, 
					E si ravvolge in quello. 
					Doppia Borea lo sforzo, incalza, preme, 
					Urta per ogni parte, 
					E congiurate insieme 
					Usa la forza e l' arte: 
					Ma colui quanto più soffiar lo sente, 
					Tanto il mantello tien più fortemente. 
					Più volte alla battaglia 
					Ritorna, e fa portenti 
					Questo Achille de' venti, 
					Ma sempre invano: alfin fremendo d' ira 
					Lascia l' inutil pugna, e si ritira. 
					Allora il Sole 
					Al cimento si pone, a poco a poco. 
					Con dolce foco 
					Il viandante investe, 
					E nelle membra 
					Dai pori della veste 
					Passa, e passar non sembra: 
					E già il calore 
					Internamente accolto 
					Ampio sudore 
					Gli fa cader dal volto; 
					Alfin il pellegríno 
					Il mantello si scioglie, e lo depone, 
					E il Sol vince Aquilone. 
					 
					Dalla Favola apprendi 
					Che, se condurre intendi 
					Gli uomini al tuo piacere, 
					Più delle forze vaglion le maniere. 
					 
					IX. 
					La Neve, e la Montagna 
					 
					Alla Montagna disse la Neve: 
					Beato il monte, che me riceve! 
					Quando il mio bianco noi rende adorno 
					Scorger non l'assi molto ali' intorno: 
					Che quel suo cupo color l' attrista, 
					Nè fa gran colpo sovra la vista. 
					Ma allor che il cingo di bianchi fiocchi 
					Di ben lontano ferisce gli occhi. 
					Or vedi, amica, di quante lodi 
					Qualor son teco per me tu godi. 
					Te or miran forse con maraviglia 
					Occhi lontani da cento miglia: 
					E tra la gente, che te distingue, 
					Suona il tuo nome su mille lingue. 
					Ma questa fama tutta è mio dono. 
					Dimmi, or conosci se util ti sono? 
					E la montagna rispose a lei: 
					Oh! no, util tanto poi non mi sei. 
					Perch' io sia vista di' che t' adopri: 
					Ma, oimè! la fronte tu mi ricopri: 
					E chi le luci Terso me gira 
					Certo te sola, non me rimira. 
					Quanti di quelli che guarderanno, 
					Quella è la neve, ripeteranno, 
					La neve è quella, senza far motto 
					Della montagna, che resta sotto. 
					Or vedi, amica; cotante lodi 
					Per me le vanti, ma tu le godi. 
					 
					È questa Favola fatta per quelli, 
					Che mentre cercano suo bene, scaltri 
					Apparir vogliono far bene agli altri, 
					E del servigio si fanno belli. 
					 
					X. 
					Il Granchio, e il 
					suo Figlio 
					 
					D' un bel fiume reale, io non so come, 
					Eransi i pesci alquanto inciviliti; 
					Sapean chiamarsi, non più muti, a nome, 
					E far delle adunanze, e dei conviti; 
					Ed in particolar su l' aria bruna 
					Darsi tempone al lume della luna. 
					 
					Unito a loro un Granchio pur vivea 
					Là dove il fiume ha limaccioso il letto, 
					Che avuto già fin da due lune avea 
					Dalla cara consorte un figlioletto, 
					Cui fu, siccome a cittadin, permesso, 
					Gire al notturno amabile congresso. 
					 
					Onde il buon padre d' erudir procura, 
					Come è dover, la tenera sua prole: 
					Or gli compon galante la figura, 
					Or gli adorna i concetti, e le parole; 
					Ma sopra tutto poi lo vuole intento 
					Ai maestosi passi, e al portamento. 
					 
					Figlio, a lui dice, che tu porti io lodo 
					Sempre il passo in avanti ov' hai la faccia: 
					L' andar traverso è disusato modo, 
					Che sembra omai che ai nostri dì non piaccia. 
					Guarda tuo padre; e in questo dir si vede 
					Muovere il Granchio padre obliquo il piede. 
					 
					Onde il figlio seguendo il patrio esempio 
					Obliqui volge anch' egli i passi suoi: 
					E dice: o padre, il mio dovere adempio 
					Quand'io io quel che fai, non quel che vuoi; 
					Dalle stesse opre lue prendo consiglio; 
					Quel che fa il genitor può fare il tìglio. 
					 
					Voi, che a nome del Ciel sul cereo cuore 
					Di tenero fanciul vegliar dovete, 
					Ammonitelo sì, quando l' errore 
					In lui del vizio incominciar vedete; 
					Ma pensate che poi nulla vi giova, 
					Se il medesimo vizio in voi si trova. 
					 
					XI. 
					Il Canocchiale 
					della Speranza 
					 
					Un giorno la Speranza 
					Per ciaschedun mortale 
					Fece un bel Canocchiale. 
					Io, qualunque tu sii, ti sfido al corso. 
					Il Serpente ridendo 
					(Che le bestie sapean ridere allora) 
					Tosto disse: in parola ecco ti prendo: 
					Accetto: andiam: m' è grave ogni dimora: 
					Suoni la tromba pur. Così dicendo 
					Striscia i 'suolo, e vassi 
					Innanzi lungo tratto 
					Prima che la Testuggine abbia fatto 
					Dietro a lui quattro passi. 
					Quindi rivolto a lei, che si venia 
					Stupefatta ed ansante 
					Per la segnata via, 
					Disse sdegnoso: impara 
					A giudicar, somara, 
					Col tuo corto cervello 
					Qual sia l' abilità di questo e quello. 
					 
					Or qual precetto mai trar si potria 
					Dalla Favola mia? 
					Io noi dirò; che assai palesemente 
					L' ha già detto il Serpente. 
					 
					XII. 
					Il Zeffiro, l' 
					Ape, e la Rosa 
					 
					Un dolce Zeffiro 
					Con l' ali d' oro 
					Scorrea su florido 
					Culto terren: 
					Ove odorifero 
					Spandea tesoro 
					Rosa purpurea 
					Dal molle sen. 
					 
					Egli con avido 
					Fiato e dimesso 
					Del fiore amabile 
					Rapia l' odor: 
					Ed aggirandosi 
					Nel loco istesso 
					Volgeavi l' alito 
					Non sazio ancor. 
					 
					Quando pur giunsevi 
					Ape dorata, 
					Che in seno al tenero 
					Fior si posò: 
					E dal suo calice 
					La delicata 
					Ambrosia a suggere 
					Incominciò. 
					 
					Allor d' invidia 
					Il Zeffiretto 
					L' acuto stimolo 
					Nel cor sentì: 
					Forte sdegnandosi 
					Che un vile insetto 
					Del ben partecipe 
					Fosse così. 
					 
					Onde sul fragile 
					Stelo le penne 
					Battea credendosi 
					L' Ape fugar: 
					Ma l' Ape immobile 
					Sempre si tenne, 
					Nè l' urto placido 
					Parea curar. 
					 
					Alfin con impeto 
					Mosso dall' ira 
					La troppo amabile 
					Rosa agitò: 
					E parve Borea, 
					Che il turbo spira, 
					Poichè le gelinde 
					Nubi adunò. 
					 
					Dall' urto fervido 
					Scacciata allora 
					Vide fuggirsene 
					Quell' Ape, è ver: 
					Ma il fiore infrantone, 
					Distrutta ancora 
					Vide l' origine 
					Del suo piacer. 
					 
					O folle invidia, 
					Talor tu vuoi 
					L' altrui distruggere 
					Felicità: 
					Ma spesso adopriti 
					Ai danni tuoi, 
					E il mal che fabbrichi 
					Tuo mal si fa. 
					 
					XIII. 
					La Testugine, e il 
					Serpente 
					 
					Mentre andava a bell' agio 
					Una certa Testuggine in un orto 
					Preudendosi diporto, 
					Un Serpente trovò, ma non malvagio; 
					Non di quel, che mordendo 
					E spremendo dal dente 
					Un veleno tremendo 
					Uccidono la gente, 
					Ma di quegli, che fanno 
					Più paura che danno. 
					Costei mai non avea visto a' suoi giorni 
					In tutti quei contorni 
					Un simile animal: perciò si mise 
					Con luci attente e fise 
					Ad osservar ben ben la sua figura, 
					E lunghezza, e statura, 
					Gli occhi, la bocca, e della bocca ogni atto, 
					Come un pittor che accingesi a un ritratto. 
					Ei che fermo giacea, Come è d' usanza, 
					Godendosi del sole il taggio ardente 
					Rimase indiferente 
					A questa di colei poca creanza, 
					E lasciò fare. Or mentre ella di lui 
					Esame minutissimo facea, 
					Scoprì ch' ei non avea, 
					Nè pur segno di gambe. Oh! questa cosa 
					Per quella scimunita 
					Fu ben maravigliosa. 
					Come! dicea fra se, me il mondo addita 
					Per la bestia più lenta, e più infingarda! 
					E pur se ben si guarda, 
					Esser dee manifesto 
					Che a paragon di questo 
					Animal, ch' è di ine più lungo molto 
					Sono un destrier, che corre a freno sciolto 
					In fatti io sì ragiono: 
					Le gambe fatte sono 
					Per camminar; le gambe egli non ha, 
					Dunque per fermo camminar non sa. 
					Orsù per suo rossore 
					Conosca il mondo ch' ei m' irride a torto, 
					Se correndo con un di me maggiore 
					Quell' io, quell' io sì lenta il vantd porto. 
					Piena di tal pensiero, 
					In un sembiante altero 
					All' ignoro animale 
					S' indirizzò con tale 
					Breve, ma ben magnifico discorso: 
					Io, qualunque tu sii, ti sfido al corso. 
					Il Serpente ridendo 
					(Che le bestie sapean ridere allora.) 
					Disse: alla tua parola ecco ti prendo: 
					Accetto: andiam: m' è grave ogni dimora: 
					Soni la tromba pur. Cosi dicendo 
					Striscia sul suolo, e vassi 
					Innanzi lungo tratto, 
					Prima che la Testuggine abbia fatto 
					Dietro a lui quattro passi. 
					Quindi rivolto a lei, che si venia 
					Stupefatta ed ansante 
					Per la segnata via, 
					Disse sdegnoso: impara 
					A giudicar, somara, 
					Col tuo corto cervello 
					Qual sia l' abilità di questo e quello. 
					 
					Or qual precetto mai trar si potria 
					Dalla favola mia? 
					Io nol dirò; che assai palesemente 
					L' ha già detto il Serpente. 
					 
					XIV. 
					L' Uccello nel 
					campo dei lacci 
					 
					Mentre nella stagioni gelida e scura 
					I campi tutti 
					Spogliati avea natura 
					D' erbe, di semi e frutti, 
					Un Augellin, che avea 
					Sì vecchia fame 
					Che quasi ei la vedea, 
					Calò dal bosco in coltivata piaggia, 
					E lì sen già 
					Con somma bramosìa cercando i semi 
					Di qualch' erba selvaggia; 
					Che ne' bisogni estremi 
					Suoi far buon gioco, 
					Anco il cattivo, e il poco. 
					Or quivi un villanelle 
					Avea tesi i lacciuoli, a cui sovente 
					Prendeva or questo or quello 
					Tra la pennuta gente: 
					E per condurre il piede 
					Delle sue prede 
					Là dove avea più d' un inganno ordito, 
					Il panico in buondato 
					Avea versato 
					Intorno intorno al periglioso sito. 
					Or l' Augello affamalo 
					Qua e là girando diligente e pronto 
					In quei grani s' avvenne, e allegro tosto 
					S' era disposto 
					A prenderne il suo conto. 
					Ma poi con certo scrupolo pensando 
					Cotal ventura 
					Esser fuor di natura, 
					Disse fra sè: quando ogni campo ignudo 
					Rende l'inverno crudo, 
					Sparso panico al suolo 
					Non è più di stagione, e così grande 
					Copia senza perché qui non si spande: 
					Or così bella sorte 
					Temo non sia per me germe di morte. 
					E fiso in tale idea 
					Se ne fuggì lontano, 
					E fuggendo dicea: 
					Panico mio, tu mi lusinghi invano. 
					 
					L' uccello avea ragione. 
					Quando vi si propone 
					Troppo grasso partito 
					Non correte all' invito; 
					Chè spesso poi si trova 
					Che lì gatta vi cova. 
					 
					XV. 
					Il Pesce ingordo 
					 
					Stava un Pesce in un chiaro fiumicello 
					Là dove l' onda si ristagna e tace, 
					E si godeva in sì romito ostello 
					Il caro ben di solitaria pace, 
					Che quivi a dissetarsi al fresco umore 
					Raro il gregge venia, raro il pastore. 
					 
					Talora, è ver, con l' amo, e con la rete 
					Tentò predarlo il pescator, ma invano; 
					Ch' egli tra l' onde trasparenti e chete 
					Vedea l' insidie, e si fuggia lontano. 
					Così viveva in fiumicel sì puro 
					O non visto, o se visto almen sicuro. 
					 
					Sol gli dolea di non poter che a stento 
					Saziar del cibo il naturai desio: 
					Chè i poch' insetti, che portava il vento 
					Nell' onda, e i pochi, che nutriva il rio, 
					Eran solo per lui l' esca gradita, 
					Ma parca assai per mantener la vita. 
					 
					Un giorno alfin che della cruda fame 
					Batter sentìa lo stimolo pungente, 
					Disse: oh! meglio saria per le mie brame 
					Che questo fosse un torbido torrente. 
					Bello è un limpido rio: ma l' onda impura 
					Può di cibo recar maggior ventura. 
					 
					Suoi rapir il torrente, allor che sprezza 
					L' argine, che nel corso è legge ali' onda, 
					Frutti che sono inutile ricchezza 
					Alla solinga abbandonata sponda, 
					O trasporta con sè gl' insetti almeno, 
					Che si stan su le rive ali' erbe in seno. 
					 
					Sol di questi una par4e assai contenti 
					Render tutti potrebbe i desir miei, 
					Ed avendo a nutrirmi ampii alimenti 
					Più vasto corpo, e maggior forza avrei: 
					Poichè dunque il mio ben soltanto io vedo 
					Rei tumulto dell' onde, altro non chiedo. 
					 
					Mentre cosi diceva, o fosse il cielo 
					Che il maligno desio punir volesse, 
					O fosse caso, un nubiloso velo 
					Il Sole ascose, e l' orizzonte oppresse. 
					Cadde la pioggia, e gonfio e insuperbito 
					Si mosse il fiume a depredar sul lito. 
					 
					E già il Pesce famelico le prede 
					Fatte dall' onde, a divorare attende; 
					Ma il pescator, che il rio torbido vede, 
					Torna, e le reti insidioso tende: 
					Vien preso il Pesce, e la nemica sorte 
					Nella gioia maggior gli da la morte. 
					 
					Molti vi son, cui grave noia preme 
					D' essere al mondo in basso stato occulti; 
					E con rea d' ingrandirsi audace speme 
					Aman le guerre, e lodano i tumulti. 
					Ma tu da questa favoletta impara 
					Viver picciolo sì, ma in acqua chiara. 
					 
					XVI. 
					La Cera, e il Mattone 
					 
					Disse al Mattone la Cera un dì: 
					Dimmi, chi duro ti fe' così? 
					Se anch' io potessi farmi sì dura 
					Per me sarebbe dolce ventura. 
					Compar Mattone così rispose: 
					Nella fornace l' uomo mi pose; 
					E quivi il fuoco per otto dì 
					Mi cosse, e duro mi fé' così. 
					La folle Cera sentendo questo, 
					In un gran fuoco saltò ben presto: 
					Ma, oimè! diversa sorte l' accolse; 
					In fumo, e fiamma tutta si sciolse; 
					E l'infelice tosto finì 
					La vita, e dura si fé' così. 
					 
					Qualunque cosa, che altrui si faccia, 
					Benchè util traggane, su la sua traccia 
					Tu non dei correre così veloce; 
					Quel che a lui giova, forse a te nuoce. 
					 
					XVII. 
					La Gazzera, e' Avaro 
					 
					L' oro ascoso a che giova? è inutil peso, 
					Che sempre aggrava e che talora offende; 
					E solo allor che saggiamente è speso 
					Negli umani bisogni util si rende. 
					Su questo un caso ho raccontare udito 
					Tra un avaro, e una Gazzera seguito, 
					 
					Un uom riposto il suo tesoro avea 
					In un gran fesso d' un antico muro, 
					Che quivi occulto renderlo credea 
					E dall' altrui rapacità sicuro. 
					Per non scemarlo egli soffria lo stento, 
					E sol di vagheggiarlo era contento. 
					 
					Una Gazzera un dì vide costui, 
					Che stava al fesso a far l' innamorato; 
					E curiosa degli affari altrui, 
					Quand' ei si fu rivolto in altro lato, 
					Va, corre al muro, e da persona accorta, 
					Visto il tesoro, in altro luogo il porta. 
					 
					Non guari andò che ritornò l'Avaro 
					Per vagheggiar le amabili monete, 
					E vide (ahi reo spettacolo ed amaro!) 
					Vuoto il nido affidato alla parete. 
					Pensar si può com' ei restò di fuore, 
					E qual gelida man gli strinse il cuore. 
					 
					Pur del primo stupor rimesso un poco, 
					Tosto si pose ad aguzzar l' ingegno; 
					Ed alfin s' avvisò che da quel loco 
					Tolto avesse la bestia il caro pegno. 
					Corse, cercò, trovollo in un istante... 
					Chi l' amato tesor cela all' amante? 
					 
					Onde si pose disdegnosamente 
					A rampognar la Gazzera rapace: 
					Dimmi, le disse, bestia impertinente, 
					L' oro sei tu di consumar capace? 
					Forse mangiar lo vuoi? forse i denari 
					Rendon satollo un animai tuo pari? 
					 
					Signor, per me l' oro non è, lo vedo; 
					(Disse la bestia tutta in penitenza) 
					Se colpevole io son, perdon vi chiedo: 
					Ma quanto all' uso poi, la differenza 
					Stato già non saria grande tra noi; 
					Ne avrei fatt' io quel che ne fate voi. 
					 
					XVIII. 
					La Cicala, e il Grillo 
					 
					In un de' più cocenti 
					Giorni di colma estate una Cicala 
					Cantato avea per venti; 
					Sicchè degli altri insetti il vicinate 
					A una tal cantilena, 
					Che certo non parea d' una sirena, 
					Erasi alfin noiato. 
					Si fe' notte; ella tacque: allora un Grillo, 
					Che avea ritiro di quel palo al piede, 
					Ch' era dell' insaziabil cantatrice 
					Musico palco e glorïosa sede, 
					Uscì su l' erba al fresco 
					Delle notturne aurette, 
					E con tremula voce a dir si pose 
					Le solite amorose 
					Sue belle canzonette. 
					L' udì dall' alto la Cicala, e in tuono 
					Di disdegnosa maestà, tu dunque. 
					Vile animai, gli disse, ardito sei 
					Rompere i sonni miei? 
					Se fosse almen tua voce 
					Armoniosa, e varïato il canto, 
					Potrei soffrirti alquanto; 
					Ma così replicando ognor gli stessi 
					Striduli acuti accenti 
					Noioso, anzi insoffribili diventi. 
					Il Grillo alzò la testa, 
					E a lei disse: sorella, 
					Io non so se cantando 
					Voi vi facciate un' armonia più bella; 
					Ma so bensì che quanto è lungo il giorno 
					Voi cantate, ed io taccio, e non mi lagno. 
					Perciò s' io pure or canto 
					Datevi pace, e s'io 
					Soffro il vostro cantar, soffrite il mio. 
					 
					V è chi noiar la gente 
					Pretende impunemente: 
					Ma se dagli altri poi noia riceve, 
					Sopportar non la vuole ancor che lieve. 
					 
					XIX. 
					Il Pellegrino, e il 
					Platano 
					 
					Stanco per lunga via sotto il più vivo 
					Raggio del Sole estivo 
					Un Pellegrin mendico 
					Cercò riposo 
					Al fresco amico 
					D' un bel Platano ombroso. 
					Già disteso su l' erba 
					L' ardor togliea dell' affannoso petto, 
					Quando con grave aspetto 
					Guardando la superba 
					Chioma dell' infecondo 
					Ospite suo, che sotto l' ombra il tolse, 
					A lui rivolse 
					Questa rampogna acerba: 
					O svergognata pianta, 
					In quale esteso giro 
					Spandi i tuoi rami, e quanta 
					Aria intorno ne ingombri! e pur non miro 
					Tra questo di tue frondi immenso stuolo 
					Un frutto, un frutto solo. 
					Va', che infingardo e vile 
					Per me ti chiamo, e sei 
					Oggetto di disprezzo agli occhi miei. 
					Il Platano, che intese 
					Del pellegrin severo 
					Lo sdegnoso parlare, a dir si prese: 
					Sono infecondo, è vero; 
					Sia questa pur tra le mie colpe: intanto 
					Poichè schivando alquanto 
					L' estivo sole all' ombra mia ti stai, 
					Almen per te son vantaggioso assai. 
					 
					Rinfacciare il peccato 
					Altrui mai non conviene; 
					Ma rinfacciarlo a chi ti fa del bene 
					E da solenne ingrato. 
					 
					XX. 
					La Lepre, e il Melo 
					 
					Voi, che donate altrui, prendete cura 
					Che il don pena non costì a chi 'l riceve; 
					Che il benefizio in oltraggiosa e dura 
					Maniera fatto, a chi vien fatto è greve. 
					Non lega i cuori, ingrati anzi gli rende 
					La man che dona, e nel donare offende. 
					 
					Mentre la notte taciturna e bruna 
					Steso avea su la terra il nero velo, 
					E pochi raggi di falcala luna 
					Rompeano in parte il cupo orror del cielo, 
					Una Lepre affamata uscì del folto 
					Bosco, e ne venne in un terren più colto. 
					 
					Quivi cercando o frutti o dolci erbette, 
					Per dar sollievo alla molesta fame, 
					Sotto un gran Melo giunse, e lì ristette 
					Quasi in loco opportuno alle sue brame; 
					Poichè credea che qualche pomo in terra 
					Trovato avria di quei che il vento atterra. 
					 
					Cercò ma invano: o i pomi avea raccolti 
					Diligente il cultore innanzi sera, 
					O uniti essendo ei fortemente ai folti 
					Rami, caduto alcun di lor non era. 
					Ond' ella gia piena di doglia in suso 
					Verso gli onusti rami alzando il muso. 
					 
					E dicea sospirando: oh potess' io 
					Di tanti frulli un solo averne almeno! 
					Ma il destino crudel per danno mio 
					Nè pur lascia caderne un sul terreno. 
					Dunque perdi' io morir debba di stento 
					Fin cessa i rami d' agitare il vento. 
					 
					Dall' alto udì la sua querula voce 
					Il Melo, e del suo duol pletade il vinse; 
					E poi che hi tanti frutti a lui non nuoce 
					Perderne un solo, a terra uno ne spinse, 
					E il diresse sì ben, che della mesta 
					Lepre il pomo cadente urtò la testa. 
					 
					Al colpo inaspettato, essa che ignora 
					Donde venga e da chi, timida fugge; 
					E la paura prevalendo allora 
					Di fame estingue il senso che la strugge. 
					Ricovra al bosco, e la selvaggia e rozza 
					Erba, sospinta dal bisogno, ingozza. 
					 
					L' altra notte ne venne, e a poco a poco 
					La tema si calmò del caso antico; 
					Ond' ella uscendo nel selvaggio loco 
					Sotto il Melo tornò nel campo aprico; 
					Nè trovando del suol sul verde smalto 
					Pomi, volgea l' avide luci all' alto. 
					 
					Allora il Melo a lei disse: e che mai, 
					Folle, da me pretendi? io nella scorsa 
					Notte un pomo per te cader lasciai, 
					E tu altrove fuggisti a tutta corsa. 
					Tu dunque, allor per quanto vuoi ti dono, 
					Disprezzi ingrata il donatore, e il dono? 
					 
					La Lepre, udendo ciò disse: or comprendo, 
					Signor, dell' altra notte il caso strano. 
					Mi percosse quel pomo; io non sapendo 
					Che fosse ciò, me ne fuggii lontano. 
					Or perchè grata appieno esser vi possa, 
					Fate che il vostro don non dia percossa. 
					 
					XXI. 
					Il Giglio, e la Rosa 
					 
					In bel giardino 
					Era vicino 
					Un Giglio a vaga Rosa; 
					E nel mirarla, 
					Nel vagheggiarla 
					Sentì fiamma amorosa. 
					 
					Il Giglio è casto, 
					Io nol contrasto, 
					Ma il mirare è periglio: 
					E poi chi ignora 
					Che amor talora 
					Di vicinanza è figlio? 
					 
					Ora il suo foco 
					A poco a poco 
					Per lei crebbe cotanto, 
					Che ognor dicea 
					Ch' ei la volea 
					Per sua compagna accanto. 
					 
					Ma gli altri fiori 
					Abitatori 
					Del culto giardinetto 
					Diceano al Giglio: 
					Il tuo consiglio 
					Avrà cattivo effetto. 
					 
					Non vedi stolto 
					Che stuolo folto 
					Ha di spine costei? 
					Tu non sei tale, 
					Ma sol di frale 
					Spoglia vestito sei. 
					 
					Or se a quei rami 
					Ispidi brami 
					Che sia il tuo stel congiunto, 
					Dalla spinosa 
					Tua cara sposa 
					Sarai più volte punto. 
					 
					Sì fattamente 
					L' arnica gente 
					L' amatore ammoniva; 
					Ed ei con riso 
					Il saggio avviso 
					Sprezzava, o non udiva. 
					 
					Poichè le acute 
					Spine vedute 
					Eran dal folle appena; 
					O almen credea 
					Ch' ei ne dovea 
					Sentir picciola pena. 
					 
					O amor tiranno, 
					Con quanto inganno 
					Pingi l'amato oggetto! 
					Tu a' sensi nostri, 
					Il bello mostri, 
					Ma veli ogni difetto. 
					 
					Il cieco amante 
					Fu sì costante 
					Nel primo suo desìo, 
					Che alfine a quella 
					Rosa sì bella 
					Il giardinier l' unìo. 
					 
					Un tale stato 
					Quanto beato 
					Pareva al nuovo sposo! 
					Sempre era fiso 
					Sei di lei viso 
					Vermiglio, ed amoroso. 
					 
					Ma allor che il fiore 
					Menava l' ore 
					Piene di bel contento. 
					Dai vicin colli 
					Le piume molli 
					Mosse leggiero un vento. 
					 
					Questo agitando 
					Di quando in quando 
					I rami delle piante, 
					Facea che forte 
					Dalla consorte 
					Punto fosse l' amante. 
					 
					Pur non moleste 
					Molto fur queste 
					Per lui prime punture: 
					Forse che meno 
					Sentille pieno 
					Dell' amorose cure. 
					 
					D' amore intanto 
					Cedendo alquanto 
					L' impetuoso foco, 
					Sentì non solo 
					Più crudo il duolo, 
					Ma se ne dolse un poco. 
					 
					Poi sì sovente 
					Quella pungente 
					Rosa ad urtarlo venne, 
					Che nel suo core 
					L' antico amore 
					Odio crudel divenne. 
					 
					Or mentre ingrato 
					Chiamava il fato, 
					E stolta la sua brama, 
					Che il Zeffiretto 
					Con questo detto 
					Sì l' ammonisse è fama. 
					 
					Ah! la beltade 
					Guida non rade 
					Volte a cattivo fine: 
					Scegli la sposa 
					Meno vezzosa, 
					Ma che non abbia spine. 
					 
					XXII. 
					Gli Uccelli al Paretaio 
					 
					Era nella stagione, in cui trasporta 
					Il sole oltre la libra il suo soggiorno: 
					Onde scorrendo il ciel per via più corta, 
					Cresce per noi la notte, e scema il giorno; 
					E fuggendo gli augei l' artico gielo 
					Cercan sorte miglior sotto altro cielo. 
					 
					Una turma di questi al Paretaio 
					D' accorto uccellatore un dì ne venne, 
					E udendo il canto armonïoso e gaio 
					D' altri augelli simili il vol ritenne; 
					Quindi, cedendo al lusinghier diletto, 
					Posò sul colto, ed umile boschetto. 
					 
					Non fermo ancor sul tenero virgulto 
					Era del più restio l'incauto piede, 
					Che sollevarsi dall' aguato occulto 
					La rete velocissima si vede. 
					Già copre già più ratta del baleno 
					Il bosco, e accoglie i prigionieri in seno. 
					 
					Al caso inaspettato alto terrore 
					Il sangue agghiaccia al malaccorto stuolo. 
					Tenta ciascun la fuga, e in vario errore 
					Volge chi quà, chi là l' incerto volo: 
					Urtan molti la rete, ed ella in vista 
					Par che ceda pietosa, e poi resista. 
					 
					L' uccellator da sotterraneo speco 
					Con ansioso desio corre alla preda, 
					Fido compagno al crudo ufficio ha seco 
					Che ad un lato a scacciargli augei provveda; 
					Ei con la rele fa seno incurvato, 
					L' augel vi vola, e restavi appannato. 
					 
					Evvene un sol tra la pennuta schiera, 
					Che vedendo si presso il suo periglio, 
					In più tranquilla ed utile maniera 
					Serba in mezzo al timor pronto il consiglio. 
					Son morto, è ver, dice fra sè, lo vedo; 
					Ma camperò se allo spavento io cedo? 
					 
					Quindi raccolto ove il boschetto implica 
					Più i ramoscelli, e spesse ha più le fronde, 
					Immoto allo scacciar di man nemica, 
					Timido si, ma tacito s' asconde: 
					Quivi, mentre seguìa la sanguinosa 
					Strage de' suoi, sempre costante posa. 
					 
					E già son presi i suoi compagni, ed hanno 
					Tutti ceduto al lor destin crudele: 
					E i predatori ancor scacciando vanno 
					Per tentar se nel bosco altri si cele. 
					Ei però resistendo alla paura, 
					Immobil resta, e lo scacciar non cura. 
					 
					E poichè nullo strepito si desta 
					Tra le frondi più interne, e più segrete, 
					Essi credendo che altri omai non resta, 
					Dall' oppresso boschetto alzan la rete; 
					Lasciano intanto libero sentiero, 
					Onde fugga la morte, al prigioniero. 
					 
					Li' augello infatti sollevata appena 
					Mira la rete, che prigione il tenne, 
					Che balza dalle foglio, e alla serena 
					Regïone del ciel drizza le penne. 
					Così mentre parca da morte oppresso, 
					Non cedendo al timor salva sè stesso. 
					 
					Fuggite ogni periglio: è questa cura 
					Al viver nostro la più fida scorta: 
					Pur se improvviso in qualche rea ventura 
					Il nemico destili mai vi trasporta, 
					L' alma serbate allor tranquilla e forte; 
					Che il soverchio terror guida alla morte. 
					 
					XXIII. 
					Il Lupo e la Volpe 
					 
					Nel più tacito e cupo 
					Orror d' oscura notte 
					Una volpe, ed un lupo 
					Sbucaron fuor delle natie lor grotte; 
					E prendendo il cammino 
					Verso lo stesso rustico abituro 
					S' incontraron per via molto vicino 
					Al destinato loco, 
					Ove credean trovar pasto sicuro. 
					Pria sbirciaronsi un poco, 
					Poi disse il Lupo: e dove vai, comare? 
					Io, la Volpe rispose, 
					In un pollaio a questo bosco appresso, 
					Signor, vado a rubare. 
					Son le solite cose, 
					Il Lupo replicò; pur ti confesso 
					Che sì fatto pensier non disapprovo, 
					Anzi ancor io nel caso tuo mi trovo, 
					E men vado all' ovile a far lo stesso. 
					Vuo' tu che in quel che restaci di via 
					Ci facciam compagnia? 
					Oh! volentieri, tosto 
					Disse l' astuta Volpe: onor mi fate 
					Quando sì vi degnate 
					Prendermi per compagna: il destro posto 
					Prendete, e andiam di coppia. Il Lupo avea 
					D' una folle albagia colma la testa; 
					Perciò subito questa 
					Precedenza si prese, e ne godea: 
					E alla Volpe dicea: 
					Io veggo ben che il tuo dover comprendi, 
					Quando a tua voglia un tale onor mi rendi. 
					Così compagni andaro 
					Per qualche tempo a paro, 
					Uno con maestà 
					L' altra con umiltà. 
					Se voi saper voleste 
					Quali tenner per via ragionamenti 
					Queste persone oneste, 
					Non saprei dir, che noi dice la storia, 
					E nè pure i commenti, 
					Ma, pensate! io mi credo a loro gloria 
					Ch' egli stati saranno 
					Tutti discorsi belli, 
					E ragionato avranno 
					Di galline, e d'agnelli. 
					Giunsero alfine ova una densa fratta 
					Il sentiero chiudila; sol da una parte, 
					Fatto forse con arte 
					Stretto valico aprìa 
					Al passeggiar la via, 
					La Volpe allor tiratasi in disparte 
					Chinò la fronte di rispetto in segno, 
					E con ciglio dimesso 
					Al lupo, come ad animai più degno, 
					Cede cortesemente il primo ingresso, 
					Il Lupo a tale onore, 
					Fece tanto di core; 
					E glorioso intanto 
					Gonfiando il muso alquanto, 
					E sè pavoneggiando in modo bello 
					Kel valico inoltrossi. Or qui celato 
					Aveva un villanello 
					D' una ferrea tagliuola il tristo aguato. 
					Onde tra l' ombra il Lupo v' inciampò 
					Col piè superbo, e preso vi restò. 
					Allora, oh! tosto smesse 
					Ogni caricatura, 
					E una vecchia paura 
					Entrogli addosso, e all' albagia successe, 
					E, chiamando la Volpe, a lei dicea: 
					O volpe mia fedele, 
					Vieni, porgimi aita, 
					Se da questo crudele 
					Periglio scampo, io ti dovrò la vita. 
					Ma la Volpe rispose: 
					Signor queste son cose, 
					Che si debbono a voi per preferenza, 
					Statevi, se vi siete; 
					E se mei permettete, 
					Men vado, addio, vi faccio reverenza. 
					 
					Io non dirò che sempre quei, che stanno 
					In pretension d' onori e di rispetti, 
					Abbian del Lupo il danno; 
					Dirò bensì che mai 
					Nessun di loro aspetti 
					Di guadagnarvi assai. 
					 
					XXIV. 
					L' Uomo cieco 
					e privo dell odorato 
					che giudica della Rosa 
					 
					Un Uom vi fu, che dal suo dì natale 
					Privo restò della virtù visiva: 
					Ed oltre a ciò per cumulo al suo male, 
					Degli effluvii d' odor nulla sentiva. 
					Pur contento vivea: chè ignoto bene 
					Nulla dà di piacer, nulla di pene. 
					 
					Or questi un dì cianciando in compagnia 
					D' amici suoi di questa; o quella cosa, 
					Udì che il pregio ognun di leggiadria, 
					Ragionando de' fior, dava alla Rosa. 
					Oh quale odor, tutti diceano, accoglie 
					Nel molle sen delle purpuree foglie! 
					 
					Ei non sapea che dir: ma poi che volse 
					La socievol brigata altrove il piede, 
					Più volte in mente allor volse e rivolse 
					I detti lor, cui non sapea dar fede. 
					Dunque, dicea fra se, beltà divina 
					Sortì la Rosa, ed è de' fior regina? 
					 
					E crederlo dovrò? forse sovente 
					Non è il giudizio uman d' inganno figlio? 
					Forse talor non odesi la gente 
					O biasmare, o lodar senza consiglio? 
					Ah! chi di giunger brama al vero appresso 
					No non creda ad altrui, creda a sé stesso. 
					 
					Così dicendo, un fanciullino appella, 
					E vuol che tosto entro il giardin lo scorga, 
					Guidami là, gli dice, u' la più bella 
					Rosa di questo suolo all' aria sorga. 
					Ubbidisce il fanciullo: e dell'inetto 
					Giudice il fior già trovasi al cospetto. 
					 
					Stende la mano, e vuoi la sorte appunto 
					Ch' ei tocchi, e prema una pungente spina; 
					Onde da quella acerbamente punto 
					Esclama: è questa la beltà divina? 
					Sapea ben io, che quel che gli altri vanno 
					Della Rosa dicendo è tutto inganno. 
					 
					Voi che talora a qualche scienza, od arte 
					Giudice sguardo sollevar volete, 
					Mentre le sue bellezze a parte a parte 
					Capaci ancor d' esaminar non siete, 
					S' ella piena di tenebre si mostra, 
					Non è colpa di lei, la colpa è vostra. 
					 
					XXV. 
					Il Pappagallo 
					 
					Sentito ho raccontar che nel Perù 
					Un Pappagal vi fu, 
					Che, stando presso uà nobile signore 
					In dolce schiavitù, 
					Passabilmente apprese 
					La lingua del paese. 
					Or questi un dì trovò scaltro la via 
					D' uscir di prigionia; 
					E' dando fósto un canto in pagamento, 
					Al suo bosco natio tornò contento. 
					Quivi pensando che imparate avea 
					Tante belle e sublimi 
					Cose, fra sè dicea: certo io potrei 
					Tra Pappagalli miei 
					Esser uno de' primi, 
					E guadagnar l' onore 
					D' eccellete dottore: 
					Basta ch' io parli, e lor faccia vedere 
					Tutta l' estensïon del mio sapere. 
					Risoluto così, dei Papagalli 
					S' inoltrò fra le schiere, 
					E incominciò sull' imparate cose 
					A recitar pompose 
					Bellissime stampite, 
					Ma non punto capite 
					Quella turba selvaggia, ed inesperta 
					Ai non intesi accenti 
					Piena di meraviglia a bocca aperta 
					Stava, non altrimenti 
					Che un rozzo contadino 
					Stassi ad udir ìchi parla di latino. 
					Ma poi vi fu chi B lui disse: fratello, 
					Il tuo discorso è bello, 
					Ma noi non l' intendiam punto nè poco; 
					E per dirtela schietta, 
					Egli comincia a divenirci un gioco, 
					Che punto non diletta. 
					Se grato esser ci vuoi 
					Favella come noi. 
					Il dottor Pappagallo a questo avviso 
					Arcigno fece il viso, 
					E le ciglia aggrottò; ma non per questo 
					Del complimento onesto 
					Punto si persuase, 
					E di ciaramellar non si rimase; 
					Onde tutte le turbe alfin noiate 
					Lo fecere tacer con le fischiate. 
					 
					Or riflettendo al caso 
					Di questo Pappagallo stravagante. 
					Io mi son persuaso 
					Esser nel mondo verità costante, 
					Che e' non si dee giammai per vanità 
					Parlare altrui di ciò ch' egli non sa. 
					 
					 
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