Favole III.
 

Favole II.
 
La Donzella e la Sensitiva
La Querce e la Pianta di Fragola
L' Augellino e l' Albero di giardino
Il Fiore e il Ruscello
L' Orno e la Vite
Il Coltivatore di fiori
Il Pallone e il Bracciale
Il Gelsomino e la Vipera
Il Topo in dispensa
Il Pastore e la Rupe
Il Fanciullo e il Gatto
Il Can da Pagliaio
Il Razzo e il Salterello
L' Arboscello
L' Orso e la Volpe
Il Pastore e il Girasole
Il Cuculo

 
I due Noci
Il Mulo vincitore ne' giuochi Olimpici
Il Viandante, i Bruci ed il Lupo
Il Gatto e il Pipistrello
Le due Zucche e il Ranocchio
La montagna delle miniere
Il Pesce, la Lontra, la Tortora e il Falcone
La Capana di terra cotta

 

XXVI.
La Donzella e la Sensitiva

Una vaga Donzelletta
Semplicetta,
Che sedea d' un fiume in riva
La sua man su le ritrose
Foglie pose
Della pianta Sensitiva.

Molle fu, fu delicato
L'urto dato,
Come appunto era la mano;
Pur la Pianta si riscosse,
E commosse
Le sue frondi in modo strano;

E le feo così ristrette
Che pur dette
Manifesto e chiaro segno,
Che da quella benché bella
Verginella
Esser tocca aveasi a sdegno.

Ciò vedendo, alto stupore
Entro al core
Quella Vergine raccolse;
E a colei dalle sue dita
Rifuggita
In tal guisa i detti volse:

Perchè mai, rustica pianta,
Mostri tanta
Schifiltà quand' io ti tocco?
Io non credo già che porte
Aspra morte
A una pianta, un lieve tocco.

Così disse: allor la schiva
Sensitiva
Dolcemente a lei rispose:
Bella Ninfa, mi diè tale
Naturale
Chi ordinò tutte le cose;

E allorché toccar mi sento
S' io pavento,
E raccolgo mia verdura,
Non son folle, o capricciosa,
Ma fo cosa
Che da me vuoi la natura.

Bella Ninfa, per tuo bene
Forse viene
Che mi parli, e ciò m' inchiedi.
Se modesta, e saggia sei,
Far tu dei
Quel che fare a me tu vedi.

XXVII.
La Querce e la Pianta di Fragola

Querce vastissima, e più superba
Vedea di Fragola Pianta tra l' erba;
E, in mirar l' umile di lei figura,
Più insuperbivasi di sua natura.
Ripiena l' animo di questa idea,
In tuon magnifico sì le dicea;
Oh quanto piccola veggio che sei
Paragonandoti co' rami miei!
Ve' come spiegansi mie braccia al vento,
Cui ghiande adornano e cento e cento.
E a te sì povero prodotto viene,
Che cinque Fragole sono il tuo bene.
Io ben compiangere soglio il tuo stato,
Se quello io medito, che il ciel m'ha dato.
Allor quell' umile Pianta rispose:
Le vostre viscere son ben pietose.
Voi la miseria mia compiangete;
Io non invidio quel che voi siete,
Bench' io sia piccola e voi sì grande,
Val più una Fragola che mille ghiande:
Chè non dal numero, ma dal sapore
I frutti acquistano pregio e valore.

Scritto ampio, e insipido non lode ottiene:
È più stimabile far poco, e bene.

XXVIII.
L' Augellino e l' Albero di giardino

Un Augellino,
Cui fu lunga stagion gradito albergo
L'ispido tergo
Del gelido appennino,
Lasciata un dì l' antica sua dimora,
Peregrinando
Giunse vicino
Alla città di Flora,
Ove sorgea vaghissimo giardino.
Quivi mirando
Cento frondose piante
Spander con elegante
E vaga simmetria le braccia intorno,
Restò dallo stupor preso cotanto,
Ch' ei s' avvisò sì bel giardino adorno
Essere opra d' incanto.
Pur fatto core alfine
Disse a una Pianta: e come
Sì ben disposte chiome
Ha ciascuna di voi? come non nasce
In ramo, in foglia
Mai capricciosa voglia
D' oltre passare un certo fin prescritto?
Forse tra voi
Se un rampollo più sorge, e più germoglia
Si reputa delitto?
Su l' appennin selvaggio
Certo non è così: là non soggiace
A legge alcuna l' orgoglioso faggio,
E come più gli piace
In questa e in quella parte
Stende le braccia inordinate e sparte.
L' Albero a tali accenti
Cortese replicò: se tu di questi
Che in noi credi portenti
La cagione non sai,
Resta pochi momenti, e la saprai.
Mentre così dicea,
Vicino appunto a loro,
Accinto al suo lavoro
Il diligente Giardinier giungea.
Già con l' adunco ferro
Vanne di pianta in pianta, e se un germeglio
Vede con troppo orgoglio
Su gli altri alzarsi, ei sovra lui l' armata
Imperiosa mano
Abbassa, il tronca, e lo distende al piano.
Indi se un ramo ei mira,
Che dall' ordine usato alquanto piega,
Tosto coi lacci il lega,
Ed al suo sito il tira;
Ove lo lascia avvinto,
Finchè una lunga usanza
La sua natìa
Rigida ritrosìa non abbia vinto.
Quando tai cose vide
L' inesperto Augellino, or perchè siate,
Disse, tanto attillate,
O vaghe piante, intendo.
Ma se in soffrir la pena
Or di ferro, or di laccio
Per voi la sorte d' esser belle è posta,
Questa vostra beltà troppo vi costa.

Giovani, che talor tanto studiate
Di porvi in elegante attillatura,
E facendo perciò forza a natura
Molto soffrite poi, La Favola è per voi.

XXIX.
Il Fiore e il Ruscello

Sul verde margine
D' un Ruscelletto
Vigorosissimo
Cresceva un fior;

Poichè al piè tenero
Non mai difetto
Patia del prossimo
Salubre umor.

Ei ben l' origine
Vedea qual fosse
Di questo celere
Su bel fiorir;

Ma ciò nell' avido
Suo cor gli mosse
Di vie più crescere
Nuovo desir.

Ed agitandolo
Questo desio,
Fra sè medesimo
Dicea così:

Se umido fattosi
Pel fresco rio
Il natìo margine
Sì mi nutrì,

Che fia se immersomi
Nel puro argento
Quel Rivo limpido
Mi bagna il pie?

Certo allor dandomi
Più d' alimento
Un fior grandissimo
Farà di me.

Così lo stolido
Fiore ingannato
Di nuova gloria
Si lusingò:

E distaccatosi
Dal suolo usato,
Nell' onde tremule
S'abbandonò.

Ma in seno al gelido
Soverchio umore
L' immaginatosi
Ben gli fallì:

Che non già diedegli
L' onda vigore,
Ma il rese marcido
In pochi dì.

Del fior la misera
Dannosa prova
Prudente regola
Per noi sarà:

Che pur tra gli uomini
Quel ben che giova,
Se non si modera
Danno si fa.

XXX.
L' Orno e la Vite

Un bell' Orno salito in signoria,
E nemico perciò della fatica.
Di malissima voglia omai soffria
Il peso aver della consorte antica;
E fu da chi parlar le piante ascolta
Sentito brontolar più d' una volta.

Quanto, dicea talor, mi fa men bello
Con torta Vite il marita1 mio laccio?
Mentre alzar mi potrei libero e snello,
M' incurva i rami il pampinoso impaccio;
E tra l' eguali mie giovani piante
Sembro un vecchio decrepito al sembiante.

Che giova a me che apportalo un giocondo
Aspetto al verde mio l' uve gradite?
Se solo a me di sostenerle il pondo
S' impone, e poi l' onor dassi alla Vite;
Essa l' altera fa su i rami miei,
Ed io curvo, ed umil resto per lei.

No non si soffra più: mi diè natura
Bastante onor di verdeggianti foglie.
Chi buon corredo ha di beltà, non cura
Ornarsi mai di mendicate spoglie.
Su su, divorzio: e in questo dire il vinse
Tanto furor che all' opra rea s' accinse.

Sciolse quei lacci, onde per cento e cento
Nodi ogni tralcio ai rami era legato,
Indi si scosse, e all' urto violento
Si ruppe al piede il tronco abbandonato.
Cadde la Vite allor gemendo al suolo;
L' Orno altero esultò disciolto e solo.

Ma il prudente cultor, che vide infranta
La sua Vite giacer sciolta dall' Orno,
Disse fra sè: quell' Orno è inutil pianta,
Che alle tenere biade invola il giorno.
Pria la Vite con l' uve almen nell' anno
Compensar mi solea dell' ombra il danno.

Or non è più così: dunque si tolga
Costui, che l' aria inutilmente ingombra,
Io perché i frutti al cibo mio raccolga
Uopo non ho di vane frondi, e d' ombra.
Si pose indi a troncarlo, e l' Orno in breve
Vide che chi mal fa, male riceve.

XXXI.
Il Coltivatore di fiori

Semplice Villanello un campo avea
Piccolo sì, ma che però bastante
A saziar la sua fame esser solea,
Or coi frutti del suolo, or delle piante;
Quivi senza provar che cosa è stento
Per molt' anni vivuto era contento.

Or questi un giorno andonne a un suo vicino,
Che coltivava un campo assai maggiore,
E vide ch' egli avea come in giardino
Ogni pianta odorosa, ed ogni fiore,
Lussureggiar vi scorse a' rai del sole
Quà viti e spighe, e là rose e viole.

Tanta copia di fior però non mai
Quel vicino cultor rendea mendico,
Ch' ei d' altri frutti raccoglieva assai
Dal suol, che rimanea del campo aprico.
Ma il Villanello ai fiori attento solo,
Non osservò la vastità del suolo.

Tutto occupato in sì giocondo aspetto
Ora questo, or quel fior volea vedere;
E raccogliea soavemente in petto
Sensi di maraviglia, e di piacere;
Alfin quella beltà così gli piacque,
Che d' averla il desio nel cor gli nacque.

Onde i semi al vicin chiese, ed ottenne
Di quell' erbe odorose, e dei fior vaghi;
E al suo piccol campo indi ne venne
I suoi folli desiri a render paghi,
Seminò i fiori; ed ingombronne almeno
La metà del fruttifero terreno.

Ma quando giunse poi l' aurea dell' anno
Stagion che porta i desiati frutti,
Ben pochi ei n' ebbe; e allor tutto il suo danno
Vide, e in breve trovossi a denti asciutti.
Erano pronti, è vero, alle sue brame
I fior, ma i fìor non tolgono la fame.

Perciò tardi pentito, in questi accenti
Che prorompesse il misero, si dice:
Ah! che imitar le facoltose genti
A chi è di lor più povero non lice.
Folle è colui, che in soddisfar le voglie
Suo ben consuma, ed ai bisogni il toglie.

XXXII.
Il Pallone e il Bracciale

Il Pallone al Braccial dicea con suono
Di voce egra e dolente:
Quanto infelice io sono!
Mi respinge da sè tutta la gente.
S' io volo da una parte, ognun con forte
Braccio armato di te da sè mi scaccia.
Volgo allora la faccia
Dall' altra parte, e trovo simil sorte.
Così men vo percosso
Dall' uno ali' altro lato,
Ed ottener non posso
Pace mai dallo stuol con me sdegnato,
Finchè mancando in me la forza antica
Al finir della guerra
Quella schiera nemica
Solo mi lascia, e vilipeso in terra.
Tu che dell' uomo al braccio allor ti stai,
Dimmi, sapresti mai
Perch' ei contro di me tanto s' adira?
Perchè m' odia cotanto?

Io giammai dal mio canto
Non gli diedi cagion d' odio né d' ira.
A questi afflitti accenti,
Senza gran fatto usar di complimenti,
Il Braccial replicò: se dir degg' io,
Amico, il pensier mio,
Forse ognun ti discaccia,
E con le forti braccia
Ti dà fiero tormento,
Sai perché? perché sei pieno di vento.

Il detto del Bracciale
Per lo Pallon non vale;
Ma se taluno v' è,
Che di vana albagia gonfi il cervello,
Lui respingon da sé
Le bennate persone;
E a lui ben quadra quello
Che fu detto al Pallone.

XXXIII.
Il Gelsomino e la Vipera

Di rami, e foglie carico
Un Gelsomino antico
Ombra facea gratissima
In un terreno aprico.

Era gradito ai giovani
Pastor vicini, ed era
L' amor forse più tenero
Della femminea schiera.

Onde se l' alba rosea
Mancar facea le stelle,
I di lui fiori a cogliere
Correan le pastorelle.

E se cadea dall' etere
Meridiano ardore,
All' ombra sua giacevasi
Lento più d' un pastore.

Talor con onda limpida
Que' paesani amici
A lui bagnar soleano
Le assetate radici.

Talor di forti pertiche
Formavangli sostegno,
Perchè de' fieri turbini
Non temesse lo sdegno.

Or mentre felicissimi
Così menava i giorni,
A lui venne la Vipera
Più rea di quei contorni;

E con modesta e placida
Maniera i detti sciolse,
E questo lusinghevole
Discorso a lui rivolse.

O pianta frondosissima,
In quali ombrosi gruppi
Le braccia tue flessibili
E pieghi, ed avviluppi!

Il folto tuo non vincono
Del sol più vivo i dardi;
Nè penetrar lo possono
Gli altrui più acuti sguardi.

Oh s' io potessi vivere
Tra i rami tuoi celata,
In sì grato ricovero
Quanto sarei beata!

Quei tanti che sovrastano
Perigli ai giorni miei,
Sol tua mercè invisibile
Temer più non dovrei.

Deh! me ricevi, e libera
Da sì crudel timore:
Pietà che giova ai miseri
È bella in gentil cuore.

Così dicea la Vipera;
E il Gelsomin pietoso
Mosso a' suoi preghi accolsela
Nel grembo suo frondoso.

Non guari andò che a cogliere
I fior della diletta
Pianta ne venne al solito
Amabil forosetta;

E spiando con avide
Luci se alcun si cele
Fior nell' interno, scorsevi
La Vipera crudele.

Stupì; quindi con timido
Piede fuggì di volo,
E il caso corse a spargere
Tra il pastorale stuolo.

Allor di verga armarono
Tutti i pastor la mano,
E accorsero ad uccidere
La Vipera, ma invano.

Ella da che già videsi
Guatare, intimorita,
Prevedendo il pericolo
Altrove era fuggita.

Da indi più non vidersi
Al Gelsomino intorno
Girar come vedevansi
Le pastorelle un giorno.

Nè dai pastor più furono
Le sue fresc' ombre elette
Per ischivar del sirio
Le fervide saette.

Della veduta Vipera
La paventosa idea
A tutti abominevole
Al Gelsomin rendea.

Suole odioso rendersi
Oggetto anco innocente
Se un già corso pericolo
Rammemora alla mente.

Il Gelsomin doleasi
D' esser non più gradito,
E fu, per quanto dicesi,
Sì favellare udito:

Ah! in alloggiar la Vipera,
Or lo conosco, errai.
Società con un empio
Io non farò più mai.

XXXIV.
Il Topo in dispensa

La gola è al uom nemica; e spesso infida
Lusingando il tradisce, ed ei sel vede;
E temendo il periglio, ov' ella il guida
Di resister risolve, e poi le cede.
Ma piange allor che di costei l' amaro
Frutto raccoglie, e più non v' è riparo.

Sì pure avvenne a un Topo giovinetto,
Che del gran mondo non esperto ancora
Un dì tra la penuria, e tra il difetto
Stette digiun dall' una all' altra aurora;
Onde corse alla madre, e prese a dire:
Dunque, o madre, così dovrò morire?

Deh! tu che sai di tutto il vicinato
Ogni magione; ogni segreto loco,
Additami ov' io possa il desiato
Cibo trovar, che mi conforti un poco.
Se no, la vita mia col dente sciogli:
Madre, tu la mi desti, e tu la togli.

La madre era una topa, per maestra
Già da' simili suoi mostrata a dito,
Che mille volte avea veloce e destra
Gatti, veleni, e trappole schernito.
Essa il meschino a consolar si pose,
E con tenero affetto a lui rispose:

Figlio, colà da questo suoi non lunge
Evvi una stanza di gran cibo carca.
Guarda quel picciol foro; ei solo giunge
Fin nell' interno, e sol per lui si varca.
Quand' io più snella in gioventù noria
Calcata mille volte ho quella via.

Or non più nò, che quel!' angusto passo
Difficile al mio corpo adito presta.
Trovar potrai maraviglioso ammasso
Di mille cibi delicati in questa;
Poiché di quel palazzo è la dispensa,
Che del ricco padron serve alla mensa.

Ma pria che là tu volga, o figlio, il piede,
Senti, e memore serba il mio consiglio:
Se il tuo desio nel satollarti eccede,
Si minaccia ai tuoi giorni alto periglio;
Che il tuo corpo satollo in modo alcuno
Kon passerà dove passò digiuno.

E se per sue faccende alcun repente
Colà ne viene, e ha il gatto in compagnia,
Quel nemico crudel di nostra gente
T' abbranca allor su' l' impedita via.
Nè il morir già satollo è miglior sorte;
Che o di fame, o di gola è sempre morte.

Quel che or ti dico, il dissi pure un giorno,
Con sospir mi rimembra, a un tuo germano;
Ma non prestommi fede, e il suo ritorno
Io poi ne attesi lungo tempo invano.
Deh! tu fa' ciò che il labbro mio ti dice;
Frena l' avida gola, e vai felice.

Il picciol Topo, udito ciò, si messe
Pieno d' avidità tosto in viaggio:
Entra nel foro angusto, il qual concesse
Al corpo smunto facile il passaggio;
E già dentro egli giunge, e già si scaglia
Sulla trovata immensa vettovaglia.

Rode per qualche tempo, e poi rammenta
Della sua genitrice il caro detto;
Onde al foro ne va, tenta e ritenta
Se al suo corpo ingrossato ei dia ricetto.
Trova eh' ei pur vi passa, e fra sé dice:
Rodere ancor qualche boccon mi lice.

Torna ali' opra contento, e va con pace
Su varii cibi esercitando il dente;
Poi s' arresta dubbioso, e se capace
Sia il foro prova, e ben capace il sente.
Perciò torna alla mensa, e mentre riede
Un vasto cacio marzolino ei vede.

Ghiotto di sì buon cibo ei vi si getta,
Lasciando all' appetito il freno sciolto;
E mentre il dente all' esercizio affretta,
Poco di roder crede, e rode molto:
Alfin sazio al forame ei corre, e il trova,
(Ahi! scoperta fatal!) stretto alla prova.

Allor tra il pentimento, e la paura
Ritenta; e pur la via trova impedita;
Roder cerca gli ostacoli, e procura
Così rodendo agevolar l' uscita;
Ma la fortuna a' voti suoi nemica
Rende vana e perduta ogni fatica.

Ben vede allor dolente e disperato
Che la sua fuga è un impossibil cosa;
E gli suona nel core il non curato
Avviso della sua madre amorosa;
E già pargli veder ne' suoi timori
Che il nemico l' afferri, e lo divori.

Talor crede mirar la pallid' ombra
Del suo german, che lì rimase ucciso:
Vede la fronte di tenebre ingombra,
E di gelido sangue il fianco intriso;
E gli par che in accenti orridi e mesti
Gli ripeta: ahi germano! ahi che facesti!

Mentre in sì fatta guisa il cor gli rode
L' inutile rimorso, e lo spavento,
Stride schiusa la porta: entra il custode,
E seco il gatto alla sua caccia intento:
Ei riprende la fuga agile e presta,
Ma l' angusto sentier la fuga arresta.

Lo scorge il gatto, e simile a saetta
A lui s' avventa, e con l' artiglio il tiene;
E già le fauci a divorarlo affretta,
Pasto caro e gradito alle sue cene.
Tale è del Topo il fine, e vuole il fato
Che per troppo mangiar resti mangiato.

XXXV.
Il Pastore e la Rupe

A rupe altissima, che l' eco avea
Un Pastor semplice così dicea:
Perchè, se standomi qui a te d' avanti
Io canto, replichi tutti i miei canti;
Ma se per l' etere si desta il tuono,
Allora tacita resti a quel suono?
La rupe rigida così rispose:
Non son dicibili tutte le cose:
So che Salmoneo fé' triste prove,
E che è pericolo far eco a Giove.

XXXVI.
Il Fanciullo e il Gatto

Un Fanciullin prendevasi
Mirabile diletto
Nello scherzar festevole
D' un Gatto giovinetto.

Ei gli porgea la tenera
Amica man sovente,
Cui la giocosa bestia
Mordea soavemente;

E nell' infinto mordere
Far gli solca mille atti
Sconci così, che un abile
Buffon parea tra i gatti.

Ora in aguato stavasi,
Or si movea pian piano,
Or d' un salto avventavasi
Sulla vicina mano.

Poi si fuggia: poi rapido
Tornava al gioco usato
Dal moto lusinghevole
Dei diti richiamato.

Così alquanto durarono
Quelle mentite risse;
Alfin da senno il perfido
L' incauta man trafisse.

Pianse il Fanciul; ma dissegli
Il genitor severo:
Chi suoi da scheizo mordere,
Alfin morde davvero.

La finzïon del vizio
A vizio ver declina:
A can, che lecca cenere
Non gli fidar farina.

XXXVII.
Il Can da Pagliaio

Nella stagioni che il vento e la bufera
Tien ne vanto del fuoco imprigionata
La rusticale schiera
A raccontar dell' Orco e della Fata,
Un certo Can mastino,
Che d' un rustico albergo era guardiano,
Fuggendo il tramontano
Tentò più volte d' accostarsi al foco
Della famiglia, e riscaldarsi un poco.
Ma il duro villanzone,
Ch' era del can padrone,
Con volto truce, e imperioso grido
Gli dicea: va' poltrone,
Vanne al pagliaio: e se, come è suo stile,
Con la festevol coda il can volea
Fare al padron rappresentanza umile,
Come qualmente egli era assiderato,
A lui tosto il villan veder facea
Per sanzion della legge un coreggiato.
Così l' afflitta bestia
Senza fiatare all' ordin fulminante
Tornava a dirittura
Al paglioso covil tutta tremante
Non so se più di freddo, o di paura.
Un di che propriamente
Volava giù dall' appennino algente
La neve in compagnia della versiera,
Il Can disse fra sè: mi viene in mente
Una bella maniera
Di levarmi d' addosso
Questo gran freddo: io posso
Far su due piedi uria baldoria a ciclo,
E dar così lo scaccomatto al gielo.
Basta che fuoco io metta
A questo bel pagliaio; allor cotanto
Calor godrò, che a quello ohe mi pare,
Avrò in tasca il padrone, e il focolare.
Stabilito così, mentre la rozza
Famiglia a cena si sedea cianciando
In allegrezza e in gioco,
Il Can rapì dal fuoco
Un acceso tizzon sì destro e ratto
Che non parve suo fatto.
Quindi sgattaiolando inosservato
Messe fuoco al pagliaio,
Che allo spirar del gelido Rovaio
Andò per ogni lato
In pronte fiamme, e il Cane allor contento
Scaldossi a suo talento,
E soddisfece appieno al suo desire,
Senza darsi pensier dell' avvenire.
Ma finalmente quella gran baldoria
S' estinse, e restò tutta
La paglia in fumo, e cenere distrutta.
Onde non passò molto
Di tempo, che lo stolto
Cane trovossi ad agghiadar di nuovo,
E di più senza paglia, e senza covo.
Or questo Cane un giusto,
E fedele ritratto
Farmi di qualche matto,
Che per cavarsi un gusto
Di voglia capricciosa
Dà la balta a ogni cosa;
E poi fallito, ed a stentar ridotto
Del suo breve goder paga lo scotto.

XXXVIII.
Il Razzo e il Salterello

Ad un Razzo un vanerello
Spiritoso Salterello
Prese un giorno a dir così:
Che fai tu di quella canna,
Che a star seco ti condanna?
Chi fu mai che a te l' unì?

Con tua noia, e con tuo danno
Quel suo vincolo tiranno
Il tuo volo impedirà;
Ed il fuoco, che hai nel seno,
E che avriati al ciel sereno
Sollevato, morirà.

Guarda me: libero e solo,
Canna, o peso che il mio volo
Ritardar possa non ho.
E vedrai quando che sia
Come ben la forza mia
Senza freno impiegherò.

Volerò verso le stelle,
Salirò ... ma in queste belle
Vaste idee del suo pensier,
Un fanciullo il razzo accese,
Che sublime il volo prese
Su nel liquido sentier.

Quella canna a lui fe' gioco,
Poichè all' impeto del foco
Col suo peso norma fu,
Ed allor che spento ei venne
Ella il moto in sè ritenne,
E innalzollo ancor di più.

Non così fu di quel vano
Salterel quando la mano
Del fanciul fuoco gli diè.
Che ora in quella, ed ora in questa
Parte urtando andò la testa,
E saltando si perdè.

Dicon che questa Favola dipinge
Nel Salterello un giovine Poeta,
Che lo studio dell' arte
Disdegna far su le maestre carte;
E del vigor del suo talento altero
Va poetando a caso,
E crede esser in cima del Parnaso.
Ma ciò sia falso, o vero,
Io di farci la glossa non pretendo,
E quale io la comprai tale io la vendo.

XXXIX.
L' Arboscello

Provido agricoltore avea legato
A un grosso palo un tenero Arboscello,
Perchè de' venti ali' impeto spieiato
Saldo restasse in compagnia di quello:
E già l' alunno al fido palo avvinto
Più d' un periglio avea schivato e vinto.

Crebbe ei con gli anni giovanili, ed anco
Con gli anni crebbe il suo natìo vigore,
A tal non già che vigoroso e franco
Non dovesse dei venti aver timore;
E il cultor, che di forze assai fornito
Noi credea, pur tenealo al palo unito.

Ma l' arboscel di suo valore altero
Lo star sotto il tutor credea vergogna,
E come avviene in giovanil pensiero,
Che giogo sprezza e libertade agogna,
Già sospirando ingratamente il punto
D' esser dal suo liberator disgiunto.

Tanto che un dì con questi detti espresse
Al suo cultor la malaccorta voglia:
È tempo omai che il mio servaggio cesse,
E se tua man legommi, or mi discioglia.
Questo mi sia da te dono concesso,
Che la cura di me resti a me stesso.

Forse non son le forze mie bastanti
A far guerra coi venti ancor che sole?
Gracile, è vero, era il mio tronco avanti,
Ma or ben altra ha durezza, ed altra mole.
E quando fia che al nembo orrido e tristo,
Possa resister mai, se or non resisto?

Vedrai, vedrai se ancor che solo e sciolto
Lottar saprò col vento, e la tempesta.
E allor più crescerò, s' io vengo tolto
Quando che sia dalla custodia infesta;
Che vivendo sì afflitto, e in tanta pena,
Sento che il succo mio mi nutre appena.

Allor quel folle ad ammonir si pose
L' agricoltor con provido consiglio.
Con dolci detti quanto sia gli espose,
In fidar sì di sè, grande il periglio;
E allor che tutte le sue forze spande
Quanto di un nembo l' impeto sia grande.

Ma invan parlò: del suo pensier tenace
Fu l' Arboscello, anzi più in lui si fisse;
Onde il cultor, se libertà ti piace
Abbiti pur la libertà gli disse:
Ecco sciolto ti lascio, ed il tuo scempio
A' tuoi simili un dì serva d' esempio.

Non guari andò che dall' Eolia rupe
Uscì la terra a devastare un nembo.
Già si vedean caliginose e cupe
Nubi appressar co' folgori nel grembo;
Già la procella è sopra, e il tuon divide
Le nubi, e il vento orribilmente stride.

Piega più volte l' Arboscello, e dritto
Ritorna pur, ma il nembo ecco rinforza,
E al nuovo e più terribile conflitto
Che ceda alfin quell'infelice è forza.
Si rompe al piede, e con infranta e pesta
Spoglia di sua follia vittima resta.

Voi, che nel corso della verde etate,
Mal soffrite di avere un saggio duce,
E con fervidi voti ognor chiamate
Il dì, che a voi la libertade adduce,
Guardate il fin dell' Arboscello, e sia
D' esempio a voi la Favoletta mia.

XL.
L' Orso e la Volpe

Dice un' antica istorica scrittura
Che un orso ed una Volpe in compagnia,
Postisi un giorno in via,
Si dier pel mondo a ricercar ventura.
Destra fu lor la sorte, e gli condusse
A una certa campagna,
Che per loro potea dirsi che fusse
Paese di Bengodi, o di Cuccagna;
Poichè per ogni lato
Eran quivi alveari in quantità
Colmi del dolce e grato
Licor, che l' Ape fabbricando va.
A tal vista la coppia viaggiatrice
Si tenne per felice:
E poichè seco lor tra l' equipaggio,
O per me' dir per guida del viaggio.
Erasi accompagnato l' appetito,
Ei si poser repente
Di cibo sì squisito
A torre una satolla avidamente.
L' Orso che non sapea di Galateo,
Nè di bella creanza, o nobil uso,
Tenea rinvolto il muso
Sempre nel cibo, e non veniagli fatto
Di sollevarlo in suso
Per ripigliare il fiato almeno un tratto,
La Volpe no; ma il pasto suo prendeva
Con più di garbo,o gia di quando in quando
Sollevando la testa,
Attenta rimirando
Tutti i campi vicini, e la foresta;
Ma non crediate già
Ch' ella il facesse mai per civiltà;
Bensì pel suo natio scaltrito ingegno
Si poneva a guatar se alcun venia;
Onde quel suo contegno
Era non già virtù, ma furberia.
Sazii restaro alfine: e non dirovvi
Che concordi ambedue preser partito
Di starsi in quel paese,
Da cui far si vedean sì buone spese:
Ciò l' immagina ognun; chè dove il dente
Ha da fare esercizio in abbondanza,
Per così fatta gente,
Anzi per ciascheduno è buona stanza.
Vi dirò ben che dopo alquanti dì
Messer Orso sentì
Certo disgusto al miei non pria provato,
A tal che quando al pasto si ponea
Non più ingordo, affamato,
Ma nuovo ali' erbe un Agnellin parea,
E un giorno finalmente
Così disse alla Volpe: questo miele
Non è più sì perfetto ed eccellente
Come una volta. Oh quegli antichi favi,
Che per sorte trovammo al primo arrivo,
Quei sì ch' eran soavi!
Ma questi san di secco, e di cattivo.
Non ti pare anco a te? La volpe allora
Fisiologa e dottora,
Capir gli fe' con lunga diceria,
Che non dal cangiamento
Del prezioso alimento,
Ma dall' uso continuo il mal venia;
E che le sensazioni a lungo gioco
Benché soavi e grate.
Se non son tramezzate
Da diversa impression, seccano un poco.
In somma gli fe' molti
Discorsi ben pensati e ben tessuti,
Che avrian formato, essendo insieme accolti,
Un trattato sull' anima de' Bruti.
Alfìn concluse che a corregger tale
Svogliatezza fatale
Al povero palato,
Un po' d' assenzio andava masticato.
L' Orso, cui stava a core
Di gustare il sapore
Nella forma più grata, e più perfetta,
S' adattò facilmente alla ricetta.
L' assenzio era vicin: tolselo, e tosto
Con animo disposto
L' ostiche foglie a masticar si pose,
Che certo al primo avviso
Gli parvero noiose,
E più d' un tratto in un arcigno viso
Di biasciasorbacerbe si compose.
Pur vinse alfin la repugnanza, e poi
Quando tornò del miele al pasto usato
Lo ritrovò sì grato,
E d' un sapor si dolce e sì perfetto,
Ch'io ne disgrado il miei d' Ibla, e d' Imetto.
Or per sì fatto caso
Ei restò persuaso.
Che spesso un po' d' amaro
Condisce il dolce, e il fa parer più caro.

Non ci lagnam de' mali
Perchè son usi amareggiar sovente
I nostri dì mortali:
Poichè se finalmente
Ritorna il ben, maggior piacer si sente.

XLI.
Il Pastore e il Girasole

Le sue parole
A un Girasole
Rivolse un giorno un Pastorel così:
Dirmi ti piaccia
Perchè la faccia
Tu sempre giri al portator del dì.

A quel Pastore
Rispose il fiore:
S' io guardo il Sole, il mio dover tal' è;
Chè per lui solo
In questo suolo
Io nacqui, e s' io pur cresco è sua merce.

Egli le spoglie
Di verdi foglie,
Ei pur del fiore il bel color mi dà
In somma ad esso
Dover confesso
La vita, il nutrimento, e la beltà.

Or tu, se vuoi,
Apprender puoi
Il tuo dovere, o Pastorel, da me.
Tu pur sovente
Alza la mente
A chi la vita, ed ogni ben ti diè.

XLII.
Il Cuculo

Se mai talun, cui vanagloria prese,
Succeder osa a chi ebbe assai più merlo.
Nel paragon tutto si fa palese
Il difetto, che pria fu più coperto.
Ognun se ne disgusta; e ingiuria e scorno
A colui fa, cui compativa un giorno.

Questa folle baldanza al tempo antico
A un Cuculo meschin costò ben cara.
Costui, mentre che i fior nel campo aprico
Sul più bello d' April spuntano a gara,
Stava d' un bosco nel solingo orrore
Spesso cantando i suoi versi d' amore.

Suo canto, è vero, agli animali, che appresso
Stavano a lui, non troppo era gradito:
Chè oltre il ripeter sempre il verso istesso,
In due semplici note era fornito;
Pur nessuno di lor prendealo a vile,
Forse per carità del suo simile.

Da lui non lunge in un cespuglio folto
D' alloro e d' amenissima mortella,
Erasi in cova un Usignuol raccolto
Caldo d' amor per la stagion novella,
Che della sua compagna amante fido
Avea con lei già fabbricato il nido.

E mentre ivi la tenera sua sposa
Gelosamente a far l' uova attendea,
Sovra un tronco vicin con l' amorosa
Sua voce il bosco rallegrar facea.
Cantava il giorno, e poi che il nero ammanto
Stendea la notte, ei raddoppiava il canto.

Tutti gli abitator della vicina
All' umile cespuglio alta boscaglia
Prendean diletto all' armonia divina,
Cui null'altra armonia ne'boschi agguaglia,
E all' amico Usignuol rendeano omaggio,
Come al più dotto musico selvaggio.

Or mentre un giorno il cantatore augello
Stavasi intento al suo dolce mestiero,
Come volle il destin, s' avvenne in quello,
Cercando preda, un barbaro Sparviero,
E con l' unghie l' avvinse, e lo percosse...
(Ahi sì bel canto il ferreo cuor non mosse!)

Solo il Cucul da certe frondi ascose
Vide del micidial l' atto crudele,
E udì, mentre a sbranarlo egli si pose,
Del moribondo l' ultime querele.
Spiacquegli; e poi pensò che in quel recinto
Avea gran fama l' Usignuol estinto.

Ed avido di gloria, e di sè pieno
Di succedere a lui si pose in cuore:
Onde si mise nel boschetto ameno,
Albergo già del misero cantore;
E quando il ciel poi s' imbrunì, con lena
Incominciò la rozza cantilena.

Gli altri vicini augei, che da quel lato
Udir solean cantar sì dolcemente,
Fra sè dicean: e come mai l' usato
Cantor non più, ma sol costui si sente?
Oh l' antica armonia quanto era bella!
Ben aspra è questa in paragon di quella.

Venne l' aurora, ed al cespuglio tosto
Avido di saper corse lo stuolo,
E mirando il Cuculo in seggio posto,
Chiedea ciascun: che fu dell' Usignuolo?
E il Cucul rispondeva: ei fu da un rio
Sparviero ucciso, e il successor son io.

A questo dire offesi e disdegnosi,
Tutti esclamaro: e tu dunque pretendi
Tu d' agguagliarlo? e a lui succeder osi
Tu che sì rozzo e strano il canto rendi?
Quindi uniti il cacciaro, e da quel lilo
Il Cuculo fuggì tristo e schernito.

XLIII.
I due Noci

Nel campo stesso
Stavan l' un l' altro appresso
Come fratelli
Due grossi Noci in amicizia stretti.
Che avean già grossi e belli
I frutti in lor maturità perfetti.
Con la pertica in mano
Venne il villano,
E a battere un di loro incominciò
Il Noce allor lasciò
Cader giù tutti
Di mano in mano i frutti
Senza farsi pregare, o dir di rio.
Così privo restò
Dei pomi, è ver, ch' egli nutria nel seno,
Ma rotti i rami suoi non vide almeno.
L' altro Noce più altero
Un diverso pensiero
Volgea frattanto, e sì dicea fra sè:
E perchè mai perchè,
A chi mi batte in dono
Conceder tutti i frutti miei degg' io?
Oh! sì dolce non sono
Come il fratello mio.
Mentre ei così dicea
A lui venne il villano, e con la rea
Pertica lo percosse;
Ma il sordo egli facea,
E i frutti ritenea forti alle scosse.
Allora il villanzone
Sì di santa ragione
Bacchiò per ogni lato
Quell' albero ostinato,
Ch' egli dovè non solo
Tutte le poma abbandonare al suolo;
Ma molti ancor perde laceri e grami
De' suoi teneri rami.
Onde con suo dolore
Conobbe l' infelice,
Ch' è consiglio migliore
Con grazia dar ciò che negar non lice.

XLIV.
Il Mulo vincitore ne' giuochi Olimpici

Figlio d' una cavalla e d' un Somaro,
Un Mulo avea di gran cursore il vanto;
Sì che un Greco Poeta illustre e chiaro
Del Sol ponealo ai corridori accanto.
Ei dunque un dì per colmo di sua gloria
Welle corse d' Olimpia ebbe vittoria.

Dubita alcuno, è ver, se mai potesse
Nell' Olimpico agon seguir tal fatto.
Io però che conosco un che lo lesse,
E ch' è gran galantuom, non mi ritratto.
E poi se fin coi versi ha fatto onore
Pindaro a più d' un Mulo vincitore.

Ma certo egli è (qual che si fosse il loco
Ove il fatto seguì) che, per sentenza
Di tutti i savii Giudici del gioco,
Il fortunato Mulo alla presenza
D' una numerosissima assemblea
Solennemente trionfar dovea.

Fissato del trionfo il come e il quando,
Che di sapere a noi non molto preme,
La fama del decreto memorando
Di Grecia andò fino alle piaggie estreme:
Ciascun parlonne, e un tratto andò da parte
Quel che in Asia facea di Fella il Marte.

E tutti i corridor, tutti i giumenti,
Che ne' pascoli Achei facean dimora,
Come del Mulo prossimi parenti,
Il trionfo a veder corsero allora.
Vuotossi Arcadia, e per quel giorno almeno
Andonne a piedi il vecchiarel Sileno.

Fu presentata ai Giudici la schiera
Immensa dei quadrupedi animali;
E un Asino tra lor, che in credito era
Di saper perorar nei tribunali,
Parlò per tutti, e domandò l' assunto
Di far ala in trionfo al lor congiunto.

Fu l' arringa sì bella ed eloquente,
Che la grazia ne ottenne a pien partito;
E il Mulo che da tutta la sua gente
Si vedea sì cercato, e sì gradito,
Ne gongolava; e forse un tal pensiero
Più che il trionfo suo rendealo altero.

Oh, diceva fra sè, che gente buona
Co' vincoli del sangue il ciel m' unio!
Quanta pena si dà di mia persona,
Quanto prende interesse all' onor mio!
Certo per dar più pompa alla mia festa
Nella stalla natìa pur un non resta.

Così diceva; e per piacere a' suoi
Meditava opre già di maggior luce:
In quella guisa che di tanti eroi
Il domator, di Macedonia il Duce,
Mentre vincea su le Persiane arene,
I plausi ambia de' cittadin d' Atene.

Ma, oimè! con quanto facile passaggio
Il più vivo piacer si cangia in duolo!
Mentre che al Mulo ossequioso omaggio
Fa dei parenti il numeroso stuolo,
Nemico il ciel contro di lui congiura,
E gli va preparando aspra ventura.

Stavano intorno a lui certi fanciulli.
Dalla natìa curiositade spinti,
Che ad infantili frivoli trastulli,
Per mancanza di senno, ognora accinti,
Fargli godean con teneri virgulti
Piccioli scherzi, ed innocenti insulti.

Fra gli altri uno vi fu, che troppo accosto
A lui percosse un deretano piede.
Superbo il Mulo infurìossi, e tosto
Un calcio rapidissimo gli diede,
E il colse in fronte, e la percossa ria
Ampia a un fiume di sangue aprì la via.

Mosse il caso a tumulto, e alcuno accorse
A porgere al fanciul pietosa aita;
Ma l' aita pietosa invan si porse,
Che il meschino in brev' ora uscì di vita.
Or volle il reo destin ch' ei fosse figlio
Del Giudice più degno del consiglio.

Pianse il padre allorchè del figlio caro
La tragica sventura a lui fu detta;
E mescendo lo sdegno al duolo amaro,
Giurò di far dell' uccisor vendetta.
Onde adunò il consiglio, e inchiesta mosse,
Che l' omicida strangolato fosse.

Fur le opinion diverse, e in varia guisa
Si disputò dai giudici sapienti:
E accolti i voti alfin della divisa
Schiera, vìnse il parer dei più clementi;
E fu deciso (e il Mulo ebbe gran sorte)
Che tosto il reo si bastonasse a morte.

Già pronto era il flagello: e acciò che l'atto
Fosse d' esempio al popol calcitrante,
Per ogni dove si bandì che ratto
Così fatta genìa venisse avante:
Ma e gli Asini, e i Cavalli, il caso inteso,
Avean dato di volta, e l' ambio preso.

Sicchè il povero Mulo al reo bastone
Il dorso espose abbandonato e solo,
E al mal che laceravagli il groppone
Dell' ingrato abbandon s' aggiunse il duolo:
Fu rimandato alfine, ed il meschino
Pur non ebbe un compagno al suo cam mino.

Il mondo usa così: se mai la sorte
Glorioso vi rende in fra le genti,
Ben tosto intorno a voi per farvi corte
Corron gli amici, corrono i parenti:
Ma se v' opprimon poi gli astri nemici,
I parenti sen van, sen van gli amici.

XLV.
Il Viandante, i Bruci ed il Lupo

Solo sull' Alpi rigide
Per aspra orrida via
Nel cor di notte torbida
Un Pellegrin sen gia.

Le nubi non lasciavano
Raggio di stella alcuna,
E in altro ciel volgeasi,
Congiunta al Sol, la Luna.

Così mentre inoltravasi
Con dubbio passo e lento,
Gl' inganni delle rapide
Balze a evitare intento,

Videsi avanti splendere
In certo abietto loco
Quasi distinto in pallide
Piccole fiamme un foco.

Tremò: ristette: e un orrido
Stuolo veder gli parve
Di spaventosi spiriti,
E di tartaree larve.

E indietro già volgeali
La tema palpitante
Con moto involontario
Le fuggitive piante.

Pur si ritenne: il trepido
Sen di coraggio cinse,
E il passo dubbio e tremulo
Verso quel foco spinse.

E ad ogni piè che muovere
Potea senza sventura,
Da sè scuoteva i deboli
Avanzi di paura.

Al tiri giunse all' origine
Dei temuti portenti:
E vide, oh! non già spiriti,
Non anime dolenti;

Ma vide certi piccoli
Bruci tra molli erbette
Lenti posare, e splendere
Come le Lucciolette.

Rise, e stupì: ma furono
Il riso e lo stupore
Non già del caso ignobile,
Bensì del suo timore.

E poi che alquanto i miseri
Insetti ebbe percossi
Col reo bastone, al termine
Del suo cammin drizzossi.

Non anco egli inoltratosi
Era ben molto avanti,
Che pur vide risplendere
Due lumi scintillanti.

Oh! disse: ecco la solita
Storia dei nostri lìruci;
Ma più non mi fan pallido
Queste notturne luci.

Franco ei sen va, nè tremangli
Come dianzi i ginocchi.
Oh Dio! quelle due fiaccole
Sono d' un Lupo gli occhi.

D' un Lupo, che avventandosi
Dalla boscaglia fuora,
Mentre sicuro ei credesi,
L' uccide e lo divora.

O sia vero il pericolo,
O sia pur vano, spesso
Avvien ch' egli presentasi
Sotto l' aspetto istesso.

Onde nel dubbiosissimo
Nostro mortai viaggio,
Chi non è troppo timido,
Nè troppo ardito, è saggio.

XLVI.
Il Gatto e il Pipistrello

Un Gatto professore in ghiottornia,
Che a rubar cominciò fin dalla cuna,
E che a rapire un boccon buono avria
Fatto un salto mortal fin sulla Luna;
Saltò d' un Usignol sulla prigione,
E del raro cantor fece un boccone.

Al comune padron fu nota appena
Del domestico Musico la sorte,
Che sdegnato giurò di dare in pena
Del misfatto crudel terribil morte:
Onde ciascun della famiglia intento
Era in cercar l' autor del tradimento.

Frattanto il reo l' universal minaccia
Da un canto udiva, e gli tremava il core;
Pur disinvolto con sicura faccia
Stava dissimulando il suo timore.
Un reo talor dallo spavento è colto;
E se il labbro negò, confessa il volto.

Ei non così; ma con tranquilla cera
La tempesta del cuor sì bene ascose,
Che pur un sol della sdegnata schiera
In lui non mai tal reità suppose;
E concorrer parea già con la calma,
Che nel volto apparia, quella dell' alma.

Ma nel colmo però del suo timore
Dicon ch' ei fe'tacitamente un voto.
E fu che se quel suo commesso errore
Fosse restato al suo padrone ignoto,
Non avrebbe mai più preso, o mangiato
Uccelli, o carne d' animale alato.

Vano il voto non fu; brev' ora estinse
L'ire, e rimase il traditore intatto:
Ond' ei sicuro ad osservar s' accinse
L' astinenza penosa al cuor d' un Gatto.
Or mentre all' osservanza ei si dispone,
Eccolo in una fiera tentazione.

Venne sotto l' artiglio un Pipistrello
De' più bei che la notte unqua vedesse.
Ma perchè ha l' ali e passa per uccello,
Ei rammenta al pensier le sue promesse.
Mosso dall' appetito al cibo aspira;
Lo scrupolo l' avverte, e lo ritira.

Pur l' animai passò; passò con lui
L' occasion precipitosa e lieve;
Ed il Gallo mantenne i voti sui,
Forse perchè la tentazion fu breve;
Ma il folle Pipistrel, dando di volta,
Tornò sotto l' artiglio un altra volta.

Messer lo Gatto allor gli salta addosso,
E gli scrupoli serba a miglior uopo.
Io, decide fra sè, mangiar lo posso
Come uccello non già, ma come topo.
Così con dottorai temperamento
Soddisfè l' appetito, e il giuramento.

Nel mondo oh come spesso, e facilmente
Si delude il dover; chè in più d'un caso
L' utile parla, e l' utile sovente
I più schivi allettando ha persuaso:
E v' è più d' un, che in suo vantaggio hasatto
Abili decisioni al par del Gatto.

XLVII.
Le due Zucche e il Ranocchio

Ricco di pioggia un' orgoglioso fiume
Ruppe le anguste sponde,
E secondo il suo barbaro costume,
Sommerse un campo, e il depredò con l' onde.
Tra le prede ch' ei fece, eran due belle
Zucche tra lor sorelle,
Che non potendo far forse altramente,
Docili secondavan la corrente.
Una di lor su l' acque
Galleggiava assai più; l' altra più grave
Or si perdea tra i flutti
Della torbida piena,
Ora a fior d' acqua si mostrava appena.
La prima che vedea sè più sublime
Della sorella sua tener viaggio,
E aver seggio de' flutti in su le cime,
Salì in orgoglio, e con aspro linguaggio
A lei disse; infingarda,
Nel profondo che fai? guarda me, guarda
Quanto di te più sorgo:
Tu sì bassa ti stai ch' io non ti scorgo.
Ma ti compiango: forse è sì meschino
Il tuo stato, e si vil, che far non puoi
Quello che facciam noi,
Onde così tu segui il tuo destino.
Udì la vantatrice
Zucca un Ranocchio astuto,
Che per quanto si dice,
Assai Gente e costumi aveva veduto:
Un altro Ulisse in somma: anzi evvi alcuno
Che vuol ch' ei degli studi avesse fatto
Il corso, e non affatto
Fosse dell' Idrostatica digiuno.
Costui tosto si volse
Alla superba, e questi detti sciolse:
O Zucca Zucca vera,
Non far tanto l' altera
Su i pregii che non hai,
Nè dispregiar cotanto
La tua sorella che ti nuota accanto;
Sai tu perchè tu stai
A galla più di lei?
Perchè più vuota sei.

Del Ranocchio l' avviso
Non è degno di riso
Ma è detto memorando,
Che a rispettar c' insegna
Chi nel mondo ha di noi sorte men degna.
Poichè non rare volte avvien che quando
Sovra gli altri si sale,
Chi riman sotto a noi, di noi più vale,

XLVIII.
La montagna delle miniere

Mal fanno quegli avari
Che accumulan denari,
E fa peggio di loro
Chi mostra il suo tesoro:

Una certa Montagna
Situata in Cuccagna
Area l' alpestre seno
Tutto quanto ripieno
Di quel biondo metallo,
Che fa far più d' un fallo;
Pur sempre ella era stata
Montagna non curata,
Perché nessun vedere
Potea le sue miniere.
Un dì le venne in testa
Di render manifesta,
Forse per vanità,
Sua ricca qualità;
E dai vasti tesori
Del suo sen gettò fuori
Zolla d' oro impregnata,
Che giù giù rotolata
Andò così lontano
A fermarsi nel piano.
Il popol corse in folla
Intorno all' aurea zolla;
Poscia mosso da speme
Di trovar l' auree vene,
La Montagna scavò
Travagliò, depredò,
E da quel tristo dì.
Pace per lei finì.

XLIX.
Il Pesce, la Lontra, la Tortora e il Falcone

Là dove un fiume le volubil' onde
Ritenuto dall' arte in colta aduna,
Indi rinchiuso in più ristrette sponde
Sen va per gora taciturna e bruna,
E alfin cadendo il grave sasso volve,
Che di Cerere il don riduce in polve,

L' albergo un pesce avea; nè più felici
Sceglier lidi ei poteasi a far sua stanza;
Che eran di quel soggiorno abitatoci
La bellezza, la pace, e l' abbondanza;
Nè forse eravi al mondo un' altra sponda
O più bella, o più queta, o più feconda.

Lungo le rive in doppio ordine accolti
Sorgean gli umidi Ontani a cento e cento,
Che sporgendo sul fiume i rami forti,
Ombra faceano al sottoposto argento:
Quivi prendean nei dì caldi e noiosi
Di quell' acque le Dee dolci riposi.

Avvenne un dì che del vicin paese
Il più destro Falcone, e il più crudele,
Un' infelice Tortorella prese,
E la tolse all' amor del suo fedele.
Poscia a farne suo pasto andar gli piacque
Sovra un Ontan, che si sporgea sull' acque.

Ancor sotto l' artiglio insanguinato
Gemea la preda ornai vicina a morte,
E da lungi dolente e disperato
La richiamava il vedovo consorte.
L' Ontano stesso alla sanguigna scena
Parea prestare i rami suoi con pena.

Ma il Pesce che vedea dall' onda questa
Del carnefice reo l' atto tiranno,
Germogliar non sentì nella secreta
Parte del core alcun pietoso affanno;
Sol di mirar da presso il caso fero
Curioso desio nacque al pensiero.

Onde venne a fior d' acqua assai vicino
Al verde lido ove l' Ontan sorgea,
L' Ontan sul quale al suo crudel destino
La sventurata vittima cedea;
Qui freddo e duro spettator ne resta
Della tragedia barbara e funesta.

Ed ora osserva il truce volto: e gli atti
Di colui che divora avidamente:
Ora contempla i laceri e disfatti
Membri di quella Tortora innocente:
Ora nuota in mezzo alle sanguigne piume
Cadute in grembo al solitario fiume.

Mentre così con indurato core
Saziando sta la curiosa voglia,
Giunge una Lontra, e nel tranquillo umore
Visto il Pesce guizzar, di lui s'invoglia.
Ponsi in aguato, e quando egli alla sponda
Avvicinato è più, balza nell' onda;

E con l' avido dente il prende, e tosto
Lo trafigge, lo lacera, e divora,
Mentre il Falcon sul tronco sovrapposto
Alla sanguigna mensa attende ancora.
Così pianger dovette i mali sui
Chi pria non pianse alle miserie altrui.

Non così faccia L' uom: mai non si trovi
Ove scempio si fa del suo simile;
O se fuggir non lice, almeii ei provi
Quella pietà che alberga in cor gentile:
Chè dolersi al dolor, piangere al pianto
È d' un anima bella il primo vanto.

Nè perchè d' altra fede, o d' altro lito
Sia chi è ridotto agli ultimi tormenti,
Convien che il cuor di crudeltà vestito
Qual dura selce ai mali suoi diventi.
Non son meno fratelli e il buono e il rio;
Ed il padre comun di tutti è Dio.

L.
La Capana di terra cotta

In un certo villaggio
Un artefice saggio
Di terra catta una Campana fe';
Poscia un color le diè
Tanto al color del bronzo somigliante,
Che ingannato sariasi un Negromante.
A veder la Campana,
Qual' opera sovrana,
Corse la turba villereccia; e mentre
Stava a mirar con inarcato ciglio,
Udivasi un bisbiglio
In questa parte e in quella,
Che replicava: oh quanto, oh quanto è bella!
In questi universali
Applausi delle genti
Un vento (è dunque invidia anco nei venti?)
Nel pendente battaglio urtò con l' ali.
Il battaglio agitato
Battè, suonò dall' uno e 1' altro lato:
E allor dal rauco suono ed infelice
Conobbe il popol gonzo
Che la bella Campana ingannatrice
Era di terra cotta, e non di bronzo.

Talun con l' apparenza
Impone alle persone,
E creder fassi uom d' alta conseguenza;
Ma se mai parla, si conosce allotta
Che quel che bronzo pare è terra cotta.