Favole IV.
 

Favole III.
 
Il Salcio e il Torrente
L' Ortica e la Rosa
Il Merlo figlio, e la madre
Pesci e il Ranocchio
Il Grillo, e il Coniglio
Il Corvo e il Cacciatore
La Botta e il Calderina
Il Ragno e la Rondine
Il Leone
La Piattola
Il Gufo e le due Colombe
Il Toro e la Volpe
Il Topo e la Civetta
Le Capre selvagge e il Leone
La Gazzera, la Capra e il Ghiro
Il Topo ragionatore
Il Cervo e il Ragno

 
La Felicità
Il Rospo
Le Pernici e le Gru
Il Leone e la Mosca
L' Asino e il Fiume
La Lingua e gli Orecchi
Il Tarlo e le due Tignuole
Il Lupo

 

LI.
Il Salcio e il Torrente

D' un Torbido Torrente
Nel sinuoso lilo
Un Salcio fu che le radici avea
Tra la ghiaia sassosa, onde nutrito
Con magri succhi in povertà crescea.
Un dì per pioggie estive
Gonfio il Torrente della terra il fiore
Dalle feconde rive
Tutto rapì col ruinoso umore.
Ma per l' impaccio opposto
D' un legno galleggiante che incagliò,
Il corso ei rallentò
Appunto al posto
Ove il Salcio sorgeva; onde al suo piede
Delle terrose prede
Un cumulo eminente abbandonò.
Il Salcio che in un tratto
Un don videsi fatto
Di cotanta ricchezza,
Esultò d' allegrezza,
E profittando dell' amica sorte
A vegetare incominciò più forte.
Dopo colai fortuna
Il mensual suo giro avea la Luna
Fatto due volte appena,
Che di novella piena
Qrebbe il Torrente, e nel vorace corso
Così frequente il morso
Portò del Salcio al piede, che in brev'ora
Gli tolse il dono, e più del dono ancora.

Al Torrente incostante
Fortuna è somigliante,
Che con mutabil voglia
Di beni un dì vi veste, e un dì vi spoglia.

LII.
L' Ortica e la Rosa

A una Rosa verginella
Così disse un dì l' Ortica:
Onde vien che sì nemica
Ogni mano è sempre a me?

Onde vien che mi flagella
Ogni mano, e al suoi mi toglie?
Sì che ornai dov' io germoglie
Sulla terra or or non v' è.

Pungo, è ver, con la mia spina
Chi mi tocca ardito e preme;
Ma se questa è colpa, insieme
Io con molti errando vo.

E tu, Rosa porporina,
Non hai tu le spine ancora?
Tu pungesti pur talora
Chi la mano avvicinò.

Eppur vivi altrui diletta,
Né vi è mai chi ti tormenti;
Te dal morso degli armenti
Anzi guarda ogni pastor.

Anzi a te la forosella
Porge il fimo, e i succhi amici,
E li versa alle radici
Sitibonde il fresco umor.

Or se in questo campo aprico
Com' io son, lu sei pungente,
Se men cruda, e men nocente
La puntura tua non è;

Ben è questa, io sì lo dico,
Inclemente, ingiusta legge,
Che la man, che te protegge,
Sia poi barbara per me.

E la Rosa disse a lei:
Pungo, è ver, sì pungo anch' io;
Ma, perdona, il viver mio
Ha uno stil, che il tuo non ha.

Tu sol pronta a punger sei;
Questa sola è la tua cura:
Io soffrir fo la puntura
Con l' odor, con la beltà.

Della Uosa è vero il detto:
Sempre in odio il vizio fu;
Sol si soffre alcun difetto,
Se ha compagna una virtù.

LIII.
Il Merlo figlio, e la madre

Un giovin Merlo, che era un po' tondo,
Nè ancor sapeva gli usi del mondo,
Vide una piuma, che all' aure in seno
Andava a spasso pel ciel sereno.
Oh! vedi, o madre, quell' augelletto,
Disse, che mostra piccolo aspetto,
E in volar tiene foggia novella,
Dimmi, tra i boschi come s' appella?
Non è un augello, la madre allora
Rispose, è piuma spinta dall' ora.
Ma come! il figlio riprese, il volo
Gli augelli vivi non hanno solo?
Che altri pur voli credo a fatica.
E a lui la madre: se han l' aura amica
(Credi, del mondo questo è il costume)
Volano ancora le morte piume.

LIV.
Pesci e il Ranocchio

Non sospettar giammai che altri ti toglia
L' onor coi detti, e la tua fama offenda:
E tanto men la temeraria voglia
Di far vendetta sovra lui ti prenda,
Che offendendolo, il pungi, e dir gli fai
Cose, che dette ei non avrebbe mai.

E quei che nutre in cuor sì rei sospetti,
E altrui ne porge manifesto segno,
Mostra che il viver suo tali ha difetti
Che merla biasmo, e di censura è degno.
Credilo; è certo: e se ascoltar ti giova,
Una mia favoletta assai lo prova.

In un laghetto, cui fonte nutria
Da cavernosa pomice cadente,
Sfavasi in mal sicura compagnia
Varia di varii Pesci accolta gente;
Gente crudel, che avea l'infame stile
Di mangiar per diletto il suo simile.

Quivi un Ranocchio un dì per caso scese
E andò vagando in quei tranquilli umori;
Nè so se di veder desìo lo prese
L' umido albergo, oppur gli abitatori;
E poi che errò per suo diporto alquanto,
Saltò alla sponda, e lieto sciolse il canto.

Era nella stagione in cui l' amore
Pur dei freddi Ranocchi il petto accende,
Quando nelle più fresche amabil' ore
Sui laghi un vasto gracidar s'intende:
Onde il nostro ranocchio ebbe ragione
Di non tosto fornir la sua canzone.

I Pesci che l'udian con tanta lena
Spinger la voce a quelle piagge intorno,
Pensaron che sì lunga cantilena
Ei sol facesse in lor dispregio e scorno;
E dicevan: costui coi canti suoi
Sicuramente mormora di noi.

Or ve' come in quest' umida dimora
Venne a esplorar con modi scaltri e destri,
Poi si parti tacitamente: ed ora
(Oh per noi gran vergogna!) or dei terrestri
Animali alla turba ascoltatrice
Dice ... ah chi sa che cosa mai le dice!

E per saper quel eh' ei dicea, gli sciocchi
Cercaron se tra lor fosse pur uno
Che intendesse la lingua dei Ranocchi,
Ma pur fra tanti non trovossi alcuno:
Che gli animai del liquido elemento
Poco han cervello, e meno intendimento.

Or mentre sotto l' onde cristalline
Agitava il furor dei Pesci il petto,
Il Ranocchio al suo canto impose fine,
E fra loro tornò senza sospetto,
Forse di nuovo di veder fu vago
O i vari Pesci, o la beltà del lago.

Ma non sì tosto sotto l' acqua giunto
Fu l' innocente e misero animale,
Che de' Pesci avventossegli in un punto
La turba furibonda e micidiale;
Già tutti intorno con voler concorde
Fanno a chi più lo scortica e lo morde.

Pur l' ira alfin di quello stuolo infesto
Schivò il Ranocchio, e venne in su l' arena
Salvo bensì, ma lacerato e pesto,
A tal che in piè regger poteasi appena.
Forse il tumulto de' nemici sui
Fu a lor d' impaccio e di salvezza a lui.

Quivi sicuro sulle rive erbose
Coricando in riposo il fianco afflitto,
Con alte strida ad esalar si pose
Il dolor ch' ei sentia nel sen trafìtto:
Onde alle voci querule di duolo
Corse d' altri animali un grande stuolo.

E molti a lui dicean: qual duro fato
Ti gettò sì mal concio in questa sponda?
Ed egli rispondeva: in questo stato
M' hanno ridotto i pesci di quell' onda:
Ah chi potria mai dir quanto crudele
Alma in seno a quei barbari si cele!

Sappiate che quand' io scesi a mio danno
Là 've quella genia perfida alloggia,
Questo vidi regnarvi uso tiranno
Di mangiarsi tra loro in strana foggia:
E so che spesso il padre inghiottir suole
Nelle viscere sue la stessa prole.

Là non di sangue mai, non di pudico
Affetto maritai nodo si serra.
Nel consorte la moglie il suo nemico
Trova,e il germano a'suoi german fa guerra.
Certo quando Natura a dar ne venne
Sue leggi, di costor non le sovvenne.

Questo, ed assai più disse; e allor che alquanto
Risanato ei restò di sue ferite,
Peregrino percosse in ogni canto
E le abitate spiagge e le romite,
E con ira instancabile e feroce
Contro i Pesci sclamò finch' ebbe voce.

LV.
Il Grillo, e il Coniglio
Al Signor Marchese
Giuseppe Pucci

Signor so ben che favolose spoglie
Di rivestir la verità non cura
Per presentarsi a te. Da te s' accoglie
Anche semplice e pura:
Anzi quanto più scopre il suo candore
Al tuo spirto sagace
Ella più ti contenta, e più ti piace.
Pur concedi che in questa
Storïella scherzosa io rappresenti
Qual talor l' amicizia offra vantaggio.
Agli scherzi innocenti
L' animo piega alcuna volta il Saggio.

Un certo Grillo musico eccellente,
E virtuoso di Madama Luna,
Che avea per gorgheggiare ali' aria bruna
Provvisione e patente,
Erasi fatto un bel sicuro albergo
D' un monticel sul tergo
Accanto al sotterraneo nascondiglio
Di Messer Gian Coniglio.
Intorno era una selva orrida antica.
Cui la scure nemica
Giammai non fece insulto,
Nè rapì villanello un sol virgulto.
Alle buone persone
D' amicizia è cagione
La vicinanza; e i nostri
Pacifici animali
Eran già divenuti amici tali,
Che chiamar si potean delle foreste
Il Pilade e l' Oreste.
Or mentre al fresco della notte il Grillo
Se ne stava su l' uscio spensierato
Facendo in ogni lato
Risuonar il suo trillo,
Ecco vede da lungi un fuoco ardente,
Che della selva un' angolo divora;
E al favor d' Aquilon che l' avvalora,
Rapidissimamente
Al monticel s' avanza
Dei fidi amici a minacciar la stanza;
Già volteggiar per aria a lui vicina
Annunziando ruina
Sente il fumo e le vampe, e le faville
Cadono a mille a mille
Sul praticel selvaggio,
Che serve di grand' atrio al lor villaggio.
Ei spaventato corre entro il ritiro
Del compar, che aspettando i nuovi albori
Dorme tranquillamente com' un Ghiro,
E sogna fuoco no, ma timo e fiori.
Su, grida il Grillo: destati,
Su, compare, fuggiam, che già la morte
Picchia alle nostre porte;
Se si tarda un momento. . .
Messer Coniglio sonnacchioso e lento
Si riscuote, s' allunga, e poi sbadiglia,
E con la man fregandosi le ciglia,
Che c'è? risponde. = Arde la selva: il foco
Stendesi in ogni loco:
Vedilo. = 0imè! dunque fuggiam. La coppia
Esce senz' altro dire,
E comincia a fuggire.
Ma il Coniglio parente della Lepre
Sapeva all' occasione
Batter bene il taccone,
E facea di bei salti, e assai cammino:
Ed il Grillo meschino
Concludeva assai men con più fatica,
E indietro abbandonato
Preda saria restato
Della fiamma nemica.
Onde disse il Coniglio:
Sentimi; è mio consiglio
Che tu sul mio groppon monti a sedere,
E il cavallo io sarò, tu il cavaliere.
Fece il Grillo così: così gli amici
Prestandosi gli ufici
Di scambievole aita,
Uscir del bosco, e si salvar la vita.

LVI.
Il Corvo e il Cacciatore

Da fame insopportabile
Un certo Corvo afflitto
Mesto sen gia cercandosi
Per la campagna il vitto:

Poi ch' ebbe fatte il misero
Mille ricerche vane,
Ecco la sorte cangiasi,
Ecco ritrova un pane.

Qui se farà la critica
Qualche censore astuto,
Dirò che appunto avealo
Un cacciator perduto.

Passare alla dovizia
Dal massimo bisogno,
Sorte per noi suoi essere
Figlia talor d' un sogno.

Per lui fu vera: e subito
Tanta allegrezza il vinse,
Che dal suo sen con impeto
Voci di gioia spinse.

Mangia; ed ancor non calmasi
Il giubbilante affetto:
Prende un boccon l' esofago,
Poi manda un grido il petto.

A tal clamore insolito
Accorre il Cacciatore:
Vede il Corvo; a lui scarica
La botta, e il Corvo more.

Per far cotanto strepito
Quel Corvo ebbe la morte.
Tu chetamente goditi
Quel che ti da la sorte.

LVII.
La Botta e il Calderina

In un campo di Canapa, che avea
Il seme ben granito,
A beccare ogni giorno andar solea
Di varii uccelli un numero infinito.
Nel medesimo sito
Stava una Botta di sottile ingegno,
Che si pose all' impegno
D' indagar la cagion, per cui cotanta
Turma d' uccelli s' adunasse insieme
A divorar quel seme.
E diceva fra sè: con quella pianta
Si forma il filo, e poi col fil le reti,
Che in aguati segreti
Tese dall'uom prendon gli uccelli: or questi
Si danno a tollerar tanta fatica,
Perchè di questa pianta a lor nemica
La semenza non resti.
Questa mia conclusione è veramente
Lampante, ed evidente.
Ma ciò non basta: io voglio
Che noto sia con quale agevol modo
D' una quistione io scioglio
Il più difficil nodo;
E come di leggieri
Io tocco il fondo degli altrui pensieri.
Perciò si volse, e disse a un Calderino,
Ch' erale il più vicino:
Olà; parla sincero: io so il motivo,
Onde voi questo seme divorate.
Eccolo. Voi cercate
Che la canapa manchi, e manchin poi
Quelle reti, che a voi
Recan tante sventure.
Madonna no: non ci pensiam neppure.
Oh! come no? dunque perchè venite
Così a turbe infinite
Con un desio sì ferdido e vorace
Questo seme a mangiar? — Perchè ci piace.

Di qualche fatto spesso
È la vera cagione a noi ben presso;
Ma che? sottil pensiero
Lungi la cerca, e va di là dal vero.

LVIII.
Il Ragno e la Rondine

D' ampio tetto alla vasta cornice
Pose un Ragno una tela assai bella;
Ma una certa crudel Rondinella
Lì volando la tela sfondò.

Doloroso quel Ragno infelice
Racconciò la perduta fatica;
E di nuovo la Rondin nemica
A disfar la sua tela tornò.

E perchè quest' offesa mi fai?
A lei disse l' insetto meschino;
Sono, è vero, al tuo nido vicino,
Questo tetto ho comune con te;

Ma, ti giuro, un pensiero giammai
Contro te non formò la mia mente:
E appo te s'io non sono innocente,
Innocente nessuno non è.

E rispose la Rondine al Ragno:
Dunque tu l' ira mia non intendi?
Sciagurato! le Mosche tu prendi,
E le Mosche son pasto per me.

Su le Mosche ogni piccol guadagno
Che tu faccia, mio danno diviene;
Sul mio male tu fondi il tuo bene,
E s' io t' odio mi chiedi il perchè?

Alla Rondine un torbido ingegno
Spesse volte si trova simile:
Ei s' adira con animo ostile,
E ragion d' adirarsi non ha.

Mio Lettor, voi movete il suo sdegno,
Se aspirate ad un util eh' ei spera:
Se correte l'istessa carriera
A voi tosto nemico si fa.

LIX.
Il Leone

Nella selva Nemea dopo la morte
Del Leon, cui domò l' Erculea clava,
Altro Leon vivea superbo e forte,
Che quel primier per genitor vantava:
Era anch' esso il terror d' Elide intera;
Ma più tra' vivi il domator non era.

Onde senza nutrir temenza alcuna
D' esser giammai del patrio fato crede,
Godessi in quieta e stabile fortuna
Ed ovvie, e scelte, e numerose prede:
Ma in contento sì grande, e sì perfetto
Solo un desìo gli stimolava il petto.

Benchè Aloide, o altro tale io più non tema
(Egli co' suoi pensier dicea talora)
Pure alfin la vecchiezza all' ora estrema
Fia che mi guidi, e converrà ch' io mora.
Cadrà il mio nome in un oblio profondo,
E non saprà ch' io son vissuto il mondo.

Del padre mio la glorïsa fama
Splende al meriggio, e non paventa occaso;
Ma lo spirito mio certo non ama
Farsi immortl con sì funesto caso.
Trar l' mmortalità, dalla sua morte
È una sorte meschina o non è sorte.

Tentisi dunque un' altra via che vaglia
Del mio valore a conservar la gloria:
Non ch' altro in questa celebre boscaglia
Durevol sia del viver mio memoria;
E dalla mia spelonca in questa viva
Pietra l' alto mio nome almen si scriva.

Era su la spelonca eccelso e grave
Masso che d' erbe il dorso avea vestito,
E formando all' ingresso un' architrave
Nella fronte apparia liscio e pulito.
Lì si pose a scolpir col duro artiglio:
Del leone Nemeo qui visse il figlio.

Ma che? quel sasso al gielo e all' acqueesposto,
E al morso lento d' una lunga etade,
Ornai mal fermo, ed a cader disposto
Allo sforzo dell' unghia e crolla e cade;
E copre allor che alfin l' opra e vicina,
Lo scrittore e lo scritto ampia ruina.

La fama è un falso ben, per cui sovente
L' uman core s' affanna, e pena molto:
Raro uom l' aquista, o vivo ancor la sente:
E poi nulla rileva a chi è sepolto.
E a molti accade (e me l' aspetto anch'io)
Cercar la fama, e ritrovar l' oblio.

LX.
La Piattola

Nel buio della sera
Dal suo pattume uscì tacitamente
Una Piattola a far la venturiera.
Un fanciullo insolente
Standosi a scavallare appresso cena
La vide; e le attaccò sopra la schiena
Un moccolino ardente,
Per procacciarsi il barbaro diletto,
Di mirar quell' insetto,
Che spaventato e trepido correa,
Ed intanto parea
Fuori d' ogni costume
Che avesse i piedi, e camminasse il lume.
La bestia illuminata Fuggia da disperata
Cercando invan lo scampo in più di un fesso:
Alfin per quello stesso
Pertugio, che nell' uscio un varco apria
E che dato le avea pur dianzi ingresso,
Ella trovò di scapolar la via.
Ed avendo il cerino ancor sul tergo
Tornò all' usato albergo
Con la gioia sul ciglio,
Qual cbi scampò dal più fatai periglio.
Allo spettacol nuovo,
Spettacol da contarsi infra i portenti,
Tutte usciron dal covo
E le piattole amiche, e le parenti.
E quell' avere addosso una fiammella
Che pareva una stella,
La giudicavan cosa
Tanto maravigliosa,
Tanto sublime e bella,
Che correva il bisbiglio universale
Che la Piattola ornai non più mortale
Formalo avria col suo corporeo velo
Nuovo asterismo in cielo
Accanto alia felice
Chioma, che un giorno fu di Berenice.
Già l' affollata gente
Con quel desio fervente,
Che una gran cosa muove,
La richiedea del dove,
E del come, e del quando,
E del perchè di questo
Accidente famoso e memorando.
E in molte era già desto
D' invidia il verme, e si rodean nel core
Perchè tanto splendore
Aveva la compagna; e già più d' una
Dicea co' suoi pensieri:
Oh che bella fortuna!
Anch io la prenderei pur volentieri.
Così fra tanta folla, e in tanta luce
La Piattola gonfiavasi di gloria,
Come un superbo e valoroso duce
Dopo che ba guadagnato una vittoria.
Frattanto il moccolin ridotto al verde
Le facea sul groppone
Certo calore (anzi per meglio dire)
Certa vampa sentire,
Ch' avria tolto la calma anco a Catone.
Ma tale era il contento
Onde pascea se stessa in quel momento,
Che il vicin fuoco, o non sentiva appieno,
O s' infingea di non sentirlo almeno.
Ma quet contegno sostenuto a forza
Poco durò; che tutta
La cera omai distrutta
Si ..tò su la squammosa scorza,
E prese maggior fiamma: or vi so dire
Che la Piattola mia rimase brutta,
E si dette a fuggire.
Ma che prò? se alla fine abbrustolita,
Mentre più risplendea perdè la vita.
Restò tutta smarrita
La nera delle Piattole tregenda
A caso tale, e al noto ripostiglio
Tutte tornando davansi a vicenda
Questo saggio consiglio:
Che certe cose belle
Sovente non son utili alla pelle.

LXI.
Il Gufo e le due Colombe

Un certo squallido, tristo, accigliato
Gufo, carnefice del vicinato
Mirò due tenere Colombe amiche,
Che sollazzandosi come le antiche
Dell' aureo secolo lodate genti,
Del dì traevano l' ore innocenti,
Ad esse accostasi, e dice: o belle
Amorosissime mie Colombelle,
Oh quale accendemi dolce desio
In amicizia di unirmi anch' io!
Almen celandomi là nel mio nido
Potrò in consorzio d' amico fido
Passar con ilari discorsi alterni
Della Canicola i giorni eterni.
La coppia amabile gli disse allora:
Andiam; mostrateci vostra dimora.
Vanno; e di scheletri veggiono oppresso
Della funerea grotta. l' ingresso;
Veggiono i laceri sanguigni avanzi
D'augei, che furongli pasto pur dianzi.
Oh cielo! esclamano, la vostra vita
Qual fa di miseri schiera infinita!
Forse che oprimono i vostri artigli
La madre, e mancano di fame i figli?
Vedova Tortora piange il consorte
Cui forse o barbaro, voi deste morte?
Nè, mai quest' orrida funesta scena
Vi scuote l'anima? mai vi dà pena?
E fia che nascano in cuor sì fiero
I sensi teneri d' amico vero?
No: l' amicizia sol ben s' adatta
In alma a crescere che sia ben fatta.
Addio: celatevi: credete a noi:
Passion sì tenera non è per voi.
Ciò detto, volsero altrove il volo,
E il Gufo barbaro fu sempre solo.

LXII.
Il Toro e la Volpe

Voi, che a qualunque insulto
Di persona molesta
Vi scaldate la testa,
E fate più fracasso, e più tumulto
D' Aquilon quando sbuffa una tempesta,
E poi con tanta pena
Vi liberate appena
Dal piccol mal, che l' ire vostre accende,
Ascoltate una Volpe che pretende,
Senza ch' io pur ci metta una parola,
Di darvi esempio, e di tenervi a scuola.

Un giovili Toro ardito
Ed anco un po' superbo
D' aver gran corna e nerbo,
Un giorno fu assalito
Da certa Mosca, o alato animalelto,
Il quale Assillo è detto,
Che senza aver creanza,
O il minimo rispetto
Verso una sì gran bestia d' importanza
Se gli appiccò sul dosso
Pungendogli la carne a più non posso.
Il toro infuriato
Fremea, muggiva e si sferzava il fianco,
E rivolgea l' iralo
Corno, quasi sfidasse a mortai guerra
Qual bestia più feroce è sulla terra.
Ma che per questo? a faccia
Di cotanta minaccia
Immobile e tranquillo
Se ne stava l' Assillo.
Il toro, che si sente
Dall' insetto insolente
Punger tuttor di sue minacce ad onta,
In sì grand' ira monta,
Che infuocato, smaniante, e furibondo
Avria dato la balta a tutto il mondo.
E non sapendo allor fare altre prove
Va, fugge e non sa dove,
Varca piani e colline, e in sua malora
Fa sei miglia di corsa in men d' un' ora.
Ma pure alfin quando gli parve e piacque
D' un fiume presso ali' acque
L' insetto lo lasciò;
Onde il Toro anelante e rifinito
Sopra l' erboso lito
Le membra abbandonò.
Su quell' istessu sponda
Stavasi accosto all' onda
Una Volpe vecchissima, e decana
Di tutte l' altre Volpi del paese,
Che veggendolo in foggia così strana
Trafelato, il richiese
Onde ciò fosse. Con lena affanata,
E in tronchi accenti il Toro a lei rispose:
Una Mosca malnata
Mi fece queste .... e non potè dir cose,
Perchè madonna Volpe all' improvviso
Con un scroscio di riso
Interruppe il discorso affaticato;
Quindi gli disse: dunque in tale stato
Ridur ti lasci tu? tu animalone?
E poi da chi! da un misero Moscone,
Che non ha tanta vaglia
Da muover dal suo posto un fil di paglia?
Orsù per carità
Insegnarti vogl' io come si fa
A cacciar con pochissima fatica
La gente a noi nemica.
Guarda tra il pelo mio
Che esercito di Pulci si nasconde:
Esse qui stanno a bermi il sangue; ed io
Or or, vedrai, le mando a ber nell'onde.
Ciò detto, il muso tutto
Ficcò di fieno in un fagotto asciutto,
E dalla bassa proda
Lentamente la coda
Calò nell' acqua, e poi
Vi pose i piedi suoi,
Indi la groppa, e a poco a poco il ventre,
E le spalle, e la gola
Sì che dell' onde uscia la testa sola.
Come fa il Sole appunto,
Quando all' occaso è giunto,
Che lento lento tuffasi nel mare,
E sol fuor d'acqua un piccol lembo appare.
Le pulci nel diluvio universale
Trovandosi assai male,
Per fuggir d' affogare il caso brutto
Guadagnavan salendo il luogo asciutto.
La volpe, che sentiva il bulicame
Salito tra il pelame
Del monte più sublime della testa,
Quanto più mai potea
Nel fiume s' immergea;
E ogni Pulce dolente
Non potendo scampar diversamente,
S' affaticava a ricovrarsi almeno
Nella torre del fieno.
Quando madonna Volpe
Di ridurle al fagotto ebbe finito
Gettò 'l fieno nell' acqua, e venne al lito;
E al Toro sbalordito
Disse, volgendo tanto di groppone
Addio, non ti scordar della lezione.

LXIII.
Il Topo e la Civetta

In rovinoso muro,
Che del giovin Pelèo fu tomba un giorno,
Un Topo si credea stare al sicuro,
Come in sacro soggiorno;
E chi, dicea, non rispettar dovrà
Di quest' albergo mio la maestà?

Ma intanto una Civetta
Eccogli addosso; ed ei, così da te
D' Alessandro la tomba si rispetta?
E l' altra: oh! mal non c' è;
Quando son giunti al fin de' giorni suoi,
Non son altro che polve anco gli eroi.

LXIV.
Le Capre selvagge e il Leone

Nell' affricane spiagge
Certe Capre selvagge
Traean vita dolente
Perchè un Leon sovente
Dall' appetito spinto
Venia nel lor recinto,
E attendendole al varco
Partìa di preda carco.
Un dì fecer consiglio
Come a sì reo periglio
Por si potea riparo,
E una fra lor di raro
Intelletto propose,
Tra l' altre belle cose,
Che senz' altro intervallo
Si ritrovasse un Gallo,
Ed a pubbliche spese
Si tenesse in paese,
Perchè dicea d' avere
Udito sostenere
Da molti un detto antico,
Che se il Leon nemico
Canto di Gallo sente
Fugge rapidamente,
E' colmo di paura
Più di cacciar non cura.
Così fu fatto: e già
Piena d' avidità
L' orribil fiera viene,
E il Gallo canta. Or bene
Teme, fugge il Leone?
Oimè! no: ma si pone
Più feroce di pria
A far macelleria;
E la strage è più trista
Quanto è meno prevista.
O Capre sconsigliate,
Ah! più non affidate
Si facili la vita
A una storia mentita.
La natura vi diede
Pronto e veloce il piede:
Affidatevi a quello,
Ed avrete cervello.

LXV.
La Gazzera, la Capra e il Ghiro

Stava d' un Pioppo in vetta
Una Gazzera assai cicalatrice,
Di cui la storia dice
Che avea 'l cervello sopra la berretta.
Una bella capretta
Di quell' albero stesso al piè giacea,
La quale presumea
Conoscer bene il mondo,
Ed esser d' ogni cosa intelligente,
Ma a pesarla po' in fondo
La sua scienza svania sì fattamente,
Ch' io volentier direi
Che un' Oca avea giudizio più di lei.
Or tra queste due belle scimunite
Nacque una vaga lite.
La Gazzera dicea che a verde pieno
Del Pioppo colorite eran le fronde:
L' altra volea che fosser bianche, o almeno
Fosser tra bianche e bionde.
Dall' una e l' altra parte
Si disputò con arte
Su questo importantissimo soggetto;
E sovente il calor, che si commove
Nel disputar, fece abbellir le prove
Con qualche amaro, e ingiurioso dello.
Ma dopo aver divisa, e suddivisa
La question sì ch' io sfido un baccelliere,
Era per rimanere
La gran lite indecisa.
Quando da un foro angusto,
Ch' era al mezzo dell'albero, improvvisa
Cacciò fuori la testa infino al busto
Un Ghiro, che crcpava dalle risa,
E disse: o zucche vuote,
Che mai giovar vi puote
Il prolungar con tanta ferocia
Sì pazza diceria,
Dalla quale non cavasi costrutto?
È un garrir senza frutto
Il fare una disputa
Sopra cosa a metà sol conosciuta.
Eh guardate per tutto
Le foglie, e allor vi si farà palese,
Senza far tante spese
Di ciancie, e por tanti argomenti in opra,
Che ognuna è bianca sotto e verde sopra.

La favola e' insegna
Che invano alcun s' ingegna
Farsi una piena idea di qualche oggetto,
Se osservar non lo sa per ogni aspetto.

LXVI.
Il Topo ragionatore

Soleva un giovin Topo, allor che l' ombra
Orrida è più nel colmo della notte,
Una cucina visitar, che ingombra
Era sempre di carni e crude e cotte:
Quivi la più soave, e più gradita
Esca prendea per sostentar la vita.

Mentre vivea così, quella stagione
Venne che al pazzo baccanal succede,
E in cui per sapientissima ragione
Il carneo vitto usar non si concede;
Ma solo i cibi a una ben parca mensa
O il mare, o il fiume, o l' orticel dispensa.

In questi magri dì fece più volte
Alla cucina il venturier ritorno,
Ma in luogo delle tante ivi raccolte
Care vivande ch' ei trovava un giorno,
Sol quel pesce trovò, ch' è alla ganascia
Duro, e che il sale imputridir non lascia.

Pur ne mangiò, che suole esser la fame
De' cibi anco più rozzi il condimento:
Ma gli nacquero in cuor curiose brame
Di saper chi facea quel cangiamento;
Onde su questo a immaginar si pose
Mille argomenti e mille belle cose.

Era il giovine Topo un di quei tali,
Che si stiman filosofi profondi,
Che d' intelletto scricciolo su l' ali
Volan di là dall orbite dei mondi,
Che sopra tutto ragionando vanno,
E decidon di tutto, e nulla sanno.

Perciò mentr' egli andava conchiudendo
Con sillogismi in barbara e in baroco,
Ad un tratto gridò: già intendo, intendo;
Ecco l' arcan si svela a poco a poco,
E intuito dalla gioia sopraffatto
Di quà di là correva come un matto.

Quando sopra il comignolo d' un tetto
Un vecchio Topo ei ritrovò sedente,
Che nel suo grave ed accigliato aspetto
Mostrava scritto il titol di sapiente.
Avea la barba veneranda e bianca,
Ed era addottorato in Salamanca.

A lui si volse e disse: hai tu notizia,
Fratello, d' una nuova strepitosa?
Sappi che andata in fumo è la dovizia,
E la cucina è tutt' un' altra cosa.
Quella che una magona erane in pria
Ora è l' albergo della carestia.

Io però meditando ho la cagione
Trovata dell' insolito difetto;
E fondato in saldissima ragione
Concludo, affermo, e il capo mio scommetto
Che il padrone è fallito, o almeno in queste
Contrade gli animali hanno la peste.

Sorrise, e a lui rispose il vecchio Topo:
O scioccherello, ragionar presumi,
Ma più che ragionare a te fa d' uopo
Saper gli usi de' popoli e i costumi;
In ciò che il mondo agli occhi altrui propone
Esperienza vai più che ragione.

Ma voi giovani topi saputelli,
Che far tre lune avete visto appena
Già vi credete d' esser gran cervelli,
E di filosofia l' alma aver piena:
E al vostro filosofico pensiero
Sottoponete il gemino emisfero.

E non sai tu che senza esperïenza
Il ragionar sui trampoli si posa?
E non sai tu che nella effervescenza
Dell' età giovanile e vigorosa
Se il sangue bolle, ed il cervello sguazza
Quanto più si ragiona, più s' impazza?

Ciò per tuo bene il dico: or sappi adesso
Che in cucina la carne non si trova
Perche mangiarla non è più permesso,
E il saperne il motivo a te non giova;
Sol ti dirò che stabile decreto
A quarantasei dì porta il divieto.

Giudica or tu se tal cagione ignota
Indagar puossi a forza d' argomenti.
Vuo' tu cavar dalla tua testa vuota
Quel che provien dall' uso delle genti?
Orsù vattene in pace, e d' ora in poi
Fidati men de' sillogismi tuoi.

Sì disse il vecchio topo; e l' altro allora
Lieto restò d' aver tutto saputo:
E poichè l' appetito insiem con l' ora
Della notte più tarda era venuto,
Già move il passo, e per la nota via
Alla cucina solita s' invia.

Ma nel cammin volgendo entro la mente
Quel ch' egli avea dal vecchio Topo udito,
Così dicea fra sè: dunque alla gente
Il cibarsi di carne è proibito.
Dunque ancor io che son di carne e d'osso
Esser mangiato in questi dì non posso.

Dunque s'io trovo il Gatto, il qual si pone
Spesso in cucina a far l' ammazzasette,
Posso accostarmi, e senza soggezione
Dargli la baia, e far le mie vendette;
Ed in segno di smacco e disistima
Posso fargli sul muso lima lima.

Così filosofando in quella stanza
Entra alla fine, a cui diresse il piede,
E ove, se non lautezza ed abbondanza,
Trovare almen qualche boccon si crede;
Ivi franco e sicuro e quella e questa
Madia o credenza a visitar s' appresta.

Stavasi appunto un Gatto spensierato
Sonniferando al focolar vicino,
Che sui piedi raccolto e rannicchiato
Giusto parea la Gatta di Masino.
Lo vede il Topo, e in aria di gradasso
Ver lui rivolge arditamente il passo.

E con sibili e strida intorno gira,
Quasi il derida, o voglia a lui far guerra;
Ma il Gatto che svegliato alfiu lo mira,
S' alza, e d' un salto il derisore afferra.
Ah, grida il Topo: ah traditor, che fai?
Che c' è il feriate in questi dì non sai?

Non sai che in questi dì non puote alcuno
Carne mangiar? che a te la legge il vieta?
Così dunque conservi il tuo digiuno,
Così la Pittagorica dieta?
Oh costumi perversi! oh reo misfatto!
Contro la legge ha tanto ardire un Gatto?

Mentre in tal guisa ei grida e si lamenta,
L' altro risponde: a dirtela sincera,
Ho un reumatismo fier che mi tormenta,
E ducimi un fianco in orrida maniera.
Ond' io mangio la carne a tutte l' ore,
Ed ho la mia licenza dal Dottore.

E senza più col dente avido e fiero
Prima il trafigge, e lo divora poi.
Così 'l Topo meschin, che sempre il vero
Trovar credè nei pensamenti suoi,
Si avvide alfin che col suo corto ingegno
E' non avea giammai dato nel segno.

È la ragione un luminoso raggio,
Che l' Artefice eterno all' uom concede,
Perchè tra l' ombre dell' uman viaggio
Più franco ei muova, e più sicuro il piede:
E un don celeste, ond' ei quant' altri mai
Son viventi quaggiù vince d' assai.

Ma l' uom spesso ne abusa e troppo fida
Nel vigor tenue di sua mente altera:
Ogni falso baglior si fa sua guida,
Che lo conduce a notte innanzi sera
E il don del ciel, che prezioso bene
Esser per lui dovea, danno diviene.

LXVII.
Il Cervo e il Ragno

Un Cervo languido per lunga via
Sotto un grand' albero steso dormia,
E tanto il torbido sonno il premea
Che un corpo esanime sul suoi parea.
Quand' ecco un celebre maestro Ragno,
Di cui nel tessere non v' è il compagno,
Di quel grand' albero da un ramo basso
Scende a distendere col suo compasso
Un' esattissima tela perfetta,
Da cui non piccolo guadagno aspetta.
Or mentre fervido nelle sue brame
Si cala pendolo da tenue stame,
E va librandosi pian piano intorno
Per l' aer liquido, del Cervo al corno
D' un dolce zefiro l' urto lo guida,
Ed egli un margine tosto vi affida
Della sua fabbrica, senza por mente
Se il corno immobile sia stabilmente.
Il Cervo dormesi ben lunga un ora,
E il Ragno assiduo sempre lavora:
E poi che è celere quanto egli è dotto,
Ben tosto al termine l'opra ha condotto.
Già cauto celasi nel più remoto
Angolo, ed avido con ciglio immoto
Guata se l' ala tra i lacci implica
La mosca, premio di sua fatica.
Ma in questo svegliasi, sorge, e sen fugge
Il Cervo, e l' opera tutta distrugge.

Al Ragno è simile quell' uom sapiente,
Che fa un politico piano eccellente,
Ma per incuria da qualche banda
A base instabile lo raccomanda:
Onde se mettesi quel piano in opra,
La sua gran fabbrica va sottosopra.

LXVIII.
La Felicità

In una certa cronaca d' Egitto
Fu ritrovato scritto,
Che un uom porgea fervidi voti a Giove
Acciò che gli mostrasse e come, e dove
Vera potea trovar Felicità.
Giove mosso a pietà,
A lui mandò la più pregiabil Dea
Dell' eterea assemblea;
Dea, ch' è del Sol più lucida e più bella,
E Verità s' appella.
Va', le disse, e quell' uomo
Ne' casi della vita
Reggi, e ove sia felicità gli addita.
Ma dopo alquanti giorni
Agli eterei soggiorni
Tornò la Verità dicendo a Giove:
Signor, vano è il comando
A me tua figlia ingiunto,
Perchè quell uom non mi capisce punto.
Allor Giove con lei
La Ragione mandò, perchè togliesse
L' ignoranza e l' inganno,

E fosse mediatrice e turcimanno.
Ma di quell' uomo al fianco
Starasi un certo antico
Fin dalle fasce sviscerato amico,
Che volea seguitarlo in ogni luogo;
In somma un pedagogo,
Un maestro di casa assai zelante
Detto Amor proprio: or questo compagnone
Disse all' uom nell' orecchio:
E chi è questa Ragione?
Cosa ha da far con noi?
Io, vostro amico vecchio,
Son la vostra ragione, e fo per voi,
Onde in ogni occorrenza,
Quasi avesse dall' uom plenipotenza,
Anelava, sudava,
Gridava, strepitava,
Decideva ogni dubbio, ed ogni piato
Meglio d' un avvocato,
E mentre egli facea tutte le carte,
Tacita la Ragion stava in disparte.
Noiata alfin di stare inoperosa
A quel trist' uomo intorno,
Al celeste soggiorno
Ritornò degli Dei,
E Verità con lei.
E la Felicità?
Ah! dov' ella si sia chi mai lo sa?

LXIX.
Il Rospo

Mentre un rospo tra l' erba era acquattato,
Vide che in parte a lui poco lontana
Un Leon dalla fame stimolato
Trafisse un Cervo, e trasselo alla tana;
Onde pien di pietà pel Cervo ucciso
Si trasse al luogo ancor di sangue intriso.

Quivi trovò di provide Formiche
Stuolo, che intorno a sua magione accolto
Celava i grani delle bionde spiche,
Nè al caso atroce avea badato molto.
A queste il Rospo in voce dolorosa
Disse: vedeste? ed esse a lui: che cosa?

Come! che cosa? e non miraste in questo
Suol, che di fresco sangue io trovo tinto,
Di quel Leone agl' innocenti infesto
Sotto l' unghie cadere un Cervo estinto?
Ma il vedeste pur troppo: e so che al cuore
Ne sentiste pietà non che timore.

E chi potria nel rimirar sì crudo
Scempio serbar di pianto asciutto il ciglio?
Chi del Leon di ogni pietade ignudo
Non odierà lo scellerato artiglio?
Sì, l' odierà qualunque nutre in petto
Verso i simili suoi pietoso affetto.

In quel barbaro mostro è la rapina
Un' arte omai cangiatasi in natura;
Vive di sangue, e con l' altrui ruina
Dar lauto pasto al ventre suo procura;
Credete, amiche, al mio parlar sincero:
Egli è l' orror dell' universo intero.

Giorno non passa mai, che non rimanga
Vittima al suo furor qualche innocente:
Bestia non v' è, che viva ancor non pianga
O l' amica rapita, o la parente;
Ogni bosco vichi pieno è di lutto,
E quel crudele è la cagion di tutto.

S' ei qui non fosse, oh qual beata pace
Faria ridente il nostro suoi natìo!
Ognun potria del cibo ove gli piace
Gir satollando il naturai desìo;
Ognun trarria contento i giorni suoi,
E tornerebbe il secol d' or tra noi.

Ma infin ch' ei vive... al Rospo eccoti intanto
Giungere una Lumaca assai vicina,
Ch' era forse venuta al dolce incanto
Dell' eloquente arringa e peregrina.
Ei nel gestire osservala, e interrotto
Lascia il discorso, e ingoiala di botto.

Or vi so dir che le formiche allora
Fuggiron tutte entro la lor magione
Mandando quel zelante alla malora,
E a quel che parmi, elle n' avean ragione;
Che se rimane un innocente oppresso,
O sia Cervo o Lumaca è poi lo stesso.

LXX.
Le Pernici e le Gru

In certi campi aprici,
A cui poc' anzi avea fidato il seme
Di Cerere un villan, molte Pernici,
E molte Gru si ritrovalo insieme.
Per affamata gente
Era quello un paese
Da trovar buone spese,
E da darsi tempone allegramente,
E a ciascuno è palese
Che tali disinvolti personaggi
Avvezzi ai gran viaggi
Quando trovan di simili locande
Sanno ben fare onore alle vivande.
Perciò senza frappor dimora alcuna
Quella varia genìa
In grata compagnia
Si pose a profittar della fortuna.
E nell' universal piena allegria
Del comune banchetto,
Un scambievole affetto
Nacque tra loro: anzi pur conto fate
Ch' eran già tutte amiche sviscerate.
Che volete di più? fino il commento
Dice, che con solenne giuramento
S' impegnaron di andar per le campagne
Per sempre indivisibili compagne.
Già in si dolce amicizia avea passata
La socievol brigata
Una buon' ora: ed eccoti ansimante,
E di sudor già molle
Il villanello tristo
Del suo gran danno avvisto
Spuntar si vede, e minacciar da un colle.
Allora a tale intimaziou di guerra
Le Pernici fuggiron terra terra;
Alle nubi volarono le Gru,
E l' une all' altre non pensaron più.
Tale in pochi momenti
L' amicizia si scioglie
Fatta tra quelle genti,
Che hanno vari costumi, e varie voglie.

LXXI.
Il Leone e la Mosca

Alla mosca il Leone
Disse: fuor di passione
Parla, e accennami quale
Credi che sia 'l più perfido animale.
E rispose la Mosca:
Fra quanti io ne conosca
Di nessuno mi lagno,
Ma gl' iniqui son due; Rondine e Ragno.

Fate simil domanda
All' uomo: ei vi dirà di por da banda
Ogni rancore antico,
Ma vi nomina intanto il suo nemico.

LXXII.
L' Asino e il Fiume

Passando un fiume torbido
Con soma assai pesante,
Sentia dal fango un Asino
Imprigionar le piante.

Dovea sforzi incredibili
Far per uscir di pena,
E guadagnava il margine
Con affannata lena.

Un dì con ragli queruli
Il misero Somaro
Al fiume rivolgendosi
Fece un lamento amaro.

Perchè mi dai, dicevagli,
Un si difficil guado?
È forza del mio spirito
S' io non vacillo, e cado.

E per maggior disgrazia
A così reo cammino
Sovente riconducemi
Il mio crudel destino.

Dal Fiume in stil laconico
Fu all' Asinel risposto:
Va'; si porrà rimedio
A questo mal ben tosto.

Dopo due lune trovasi
Al consueto varco
Lasso e anelante l' Asino
Sotto pesante incarco.

E vede in alto sorgere
Avanti al suo cospetto
Un ponte alquanto ripido
Novellamente eretto.

Egli si ferma immobile,
E sospirando dice:
Dunque or sì stanco ascendere
Dovrò quella pendice?

O fiume, tu mi liberi
Da un mal con altro male;
Ma il fiume: taci, o querulo
Stoltissimo animale:

Senza cotante smorfie,
Se valicar tu vuoi,
O l' erta, o il guado scegliti:
Ambo evitar non puoi.

Ma l' Asinelio indocile,
Che ha poca riflessione,
Giammai non volle intendere
Che il Fiume avea ragione.

Passo di Fiume torbido
È pur la nostra vita;
Dunque aspettar dobbiamoci
O il fango o la salita.

LXXIII.
La Lingua e gli Orecchi

Un gran medico narrò
Che agli Orecchi un dì parlò
Si la lingua: Eh miei signori,
Agiatissimi auditori,
Perchè mai nelle persone
Voi con poca occupazione
Siete due? ed io son sola,
Io che formo la parola?

E gli Orecchi: e tu non sai
Che dobbiamo udire assai?
E ancor io parlo ben molto.
Sì, ma in bocca d' uno stolto.

LXXIV.
Il Tarlo e le due Tignuole

Sul cominciar di Maggio
Un Tarlo, che venia d' alto lignaggio,
D' un armadio rodeva a tutta possa
L' asse d' un fianco assai tenace e grossa.
Dopo aver roso molti giorni in pace,
Ed aver fatto varii appartamenti
Diretti ai quattro venti,
Alfin più per fortuna che per arte
Dell' armadio forò l' interna parte.
Questo meschino insetto,
Che avea 'l cervello tondo come un uovo,
All' apparir di quell' ignoto aspetto
Credè d' aver trovato un mondo nuovo;
E come appunto il Ligure nocchiero,
Poi che per mare ignoto
Corse vario sentiero,
Alfin vide il remoto
Desiderato lido,
E con festevol grido
Scese, e grand'orma in su l'arena impresse,
Così discese il Tarlo; indi si messe
Sulle vesti che quivi eran distese
A prender lingua, ed a scoprir paese.
Fatta così molta interrotta via
D' oltre a cinquanta miglia
(Miglia s' intende già di Tarlerìa)
Con sua gran maraviglia
Trovò due placidissimi animali
Diritti come pali,
Che in una certa vesta
Fatta a modo di bugnolo sfondato
Involti eran ben ben fuor che la testa,
Come un bambin fasciato;
In somma per finirla in tre parole,
Ritrovò due Tignuole.
Una di queste aveva un bello e fino
Ammanto porporino,
L' altra più vile e nero:
Onde vôlto alla prima il venturiero,
Fe' mille inchini e mille reverenze,
Come s' usa a Firenze,
E disse: al vostro altissimo cospetto
Umilio il mio rispetto,
Bella Madama, a voi,
Che con la vaga e signorile idea
Chiaro mostrate a noi
Essere o qualche Ninfa, o qualche Dea.
Ma dite, e chi è quest'altra? essa ha la cera
D' esser la cameriera.
A questo complimento
Risero senza stento
Le due Tignuole; e quella,
Che sembrava più nobile e più bella
Perchè avea la guarnacca di scarlatto,
Rispose al Tarlo: o matto,
Quanto, oh quanto t' inganni!
Son dissimili i panni,
Ma noi simili siam perfettamente,
Anzi sorelle; e a mente
Tieni quel che or ti dico, o scimunito:
Giudica mal chi giudica al vestito.

LXXV.
Il Lupo

Se un don ti porge una nemica mano
È dono infausto, e frode in esso annida;
Nè si mostra mai tutto all' occhio umano
Il mal che cova entro un' offerta infida:
Scopri un' insidia, ed evitarla tenti?
Guardati: un' altra tace, e non la senti.

Un lupo fu, che dalla fame preso,
Mentre pe' i boschi a foraggiar sen già,
Un bel quarto d'Agnello a un tronco appeso
Sulla pesta trovò d' alpestre via.
Carne ad un tronco era d'insidia cenno;
Ma la fame parlò, si tacque il senno,

Onde a quella s' avventa, e già il pensiero
Predice al ventre una passabil cena,
Ma da una corda scorsa in laccio fiero
Ei sente il collo ritener con pena;
Fa cadergli il timor la preda amata
Di bocca, e vôlto al suo periglio il guata:

Poi fallo cuor, col poderoso dente
Morde il nemico impaccio e forte il rode,
E a poco a poco tra le fauci sente
Cader lacero lino, e in cuor ne gode;
Alfin dopo lung' opra il collo alquanto
Scuote, e il laccio noi tien, che il laccio è infranto.

Fece tre salti, e misurò del suolo
Velocissimamente un lungo tratto;
Torse sprone gli fur la tema e il duolo,
Forse lento s' era disciolto affatto
S' arrestò poi con più sicuro ciglio
Ad osservar da lunge il suo periglio.

Vedeva il tronco e la pendente fune,
Che pur dianzi gli feo lerribil guerra;
E con luci fameliche e digiune
Vedea la carne abbandonata in terra.
Una faceali orrore, e all' appetito
L' altra facea cortesemente invito.

Ecco, dicea fra sè, comprendo adesso
Che quel laccio crudel tese il pastore;
Ma già il laccio svanì, svanì con esso
La cagion che risveglia il mio timore.
Orsù deluso il reo pastor si veda,
S' ei riman senza carne, e senza preda.

Ciò detto, al caro cibo il piede avanza
Lento, e tacito il prende, e fugge tosto;
E a godersi l' amabile pietanza
Va nel bosco più cupo e più riposto.
Va pur, va' iniquo e mangia; or or vedrai
Che per tuo mal non hai pensato assai.

Pronto all' evento il pastorel credea
Il Lupo aver nel teso laccio avvinto;
Ma se indugiando il laccio mai rodea,
Provvide almen ch' ei rimanesse estinto:
E allor che l' esca appesa al tronco mise,
Del veleno più reo tutta l' intrise.

Questa il Lupo si mangia, e mentre lieto
Ei figurasi aver fatto un bel gioco,
Sente nascer nel seno un duol segreto
Che cresce, e a morte il tragge a poco a poco.
E fama è ch' ei dicea venendo meno!
Chi dal laccio campò tema il veleno.