I. 
					Il Villano, e 'l Filosofo 
					 
					Nei campi ameni e fertili 
					Viveva un buon villano, 
					Dal cittadino strepito 
					Tenendosi lontano, 
					E nel suo stato modico, 
					Contento sol dei beni 
					Che dan Pomona e Cerere, 
					Passava i di sereni; 
					Sebbene il tempo avevagli 
					La chioma incanutita, 
					Pur era forte e vivido, 
					Qual nell' età fiorita. 
					Uman, modesto, affabile, 
					A' suoi doveri fido 
					Fu sempre: e del suo merito 
					Tal giva intorno il grido, 
					Che un cittadin filosofo, 
					Che spesso impallidiva 
					Su' libri, per conoscerlo 
					Alle sue case arriva. 
					Seco discorre: attonito 
					Ammira la sua mente, 
					Il cor sincero e candido, 
					E la ragion prudente: 
					   E donde in te derivano, 
					Gli disse, tanti lumi? 
					Forse de' gran filosofi 
					Col legger i volumi? 
					Forse ad Ulisse simile, 
					Viaggiando in varie parti, 
					Vedesti molti popoli, 
					I lor costumi, e l'arti? 
					   Dalla natura semplice, 
					Di cui siam tutti figli, 
					Rispose, seppi prendere 
					Soltanto i miei consigli. 
					Appresi dalla tortora 
					Ad esser fedel sposo, 
					Dalla formica, provido; 
					Dall'ape, industrioso: 
					Ad esser padre tenero 
					Mi mostran gli augelletti 
					Nella stagion che allevano 
					I fi-li pargoletti: 
					Il mio Melampo insegnami 
					La fedeltà sincera, 
					E l'umil gratitudine, 
					E l'amistade vera: 
					D' ogni animai che merita 
					Abbonamento e sprezzo, 
					Da'suoi vizj a difendermi 
					Mi sono sempre avvezzo. 
					Qual gufo, par ridicolo 
					Un uom grave severo; 
					E par, qual gazza incomodo. 
					Un uom troppo ciarliero; 
					E simile alla vipera 
					Sarà chi mitre in seno 
					Dell' odio e dell' invidia 
					Il livido veleno; 
					Colui che opprime il debole 
					Che in van piange e si lagna, 
					Imita il lupo perfido, 
					E l'aquila grifagna. 
					   Oimè! sclama il filosofo, 
					E d'aquile e di lupi 
					Le gran cittadi abbondano 
					Più che le selve e rupi, 
					Che ognor voraci e cupidi 
					Di far nuove rapine, 
					Le lor ricchezze ammontano 
					In sulle altrui rovine. 
					   Ah! si, chi vuol apprenderà 
					Una morale pura, 
					Qual tu facesti, esamini 
					La semplice natura: 
					Chi d'essa i semi spigola, 
					E li coltiva in seno, 
					Dai frutti, che producono, 
					Vivrà felice appieno. 
					 
					II. 
					Zenocrate, e 
					l'Uccellino 
					 
					Un uccellino timido 
					Con volo inceito e rapido 
					D'un falco il crudo artiglio 
					Fuggiva, e stanco e debole 
					Alfine venne a scendeie 
					Nel grembo di Zenocrate: 
					Il qual tutt'amorevole 
					In man lo prende, e ponelo 
					Nel seno, e rassicuragli 
					Con vezzi lusinghevoli 
					Quel cor che tanto palpita; 
					E fece il buon filosofo 
					Queste parole intendere, 
					Figlio d'un cor tentibile: 
					Oli quanto è bel eoccorrere 
					Un innocente e misero! 
					 
					III. 
					Le due Farfalle 
					 
					Vide una farfalletta 
					Un lume, al quale stese 
					L' instabil volo in fretta. 
					Sua madre la riprese 
					Con dir: Ferma, che fai? 
					A morte, oimè! tu vai. 
					   In quella fiamma infida 
					L'inganno si ritrova; 
					Fuggila, a me ti fida: 
					Tel dico, il so per prova; 
					Che a luce a quella eguale 
					Mancai brucciarmi l'ale. 
					   Sì disse, e ben le pare 
					Prudente la bambina; 
					E per suo qualche affare 
					Altrove s' incammina. 
					La figlia riman sola, 
					E verso il lume vola. 
					   Nè di mirarlo cessa, 
					E un bel desio si sente 
					Destarsi, e vi s'appressa, 
					E dice arditamente: 
					Di tutto per natura 
					I vecchi anno paura. 
					   A quel vage splendore, 
					Qual ebra, ormai s'aggira; 
					Sovente al gran calore 
					Si scotta, e si titira, 
					Ma sempre torna presta, 
					E cenere al fin resta. 
					   O madri, a voi diretto 
					Son que-te mie parole: 
					Le siglie farfallette 
					Non restino mai sole; 
					Che a torlo dai perigli 
					Non bastano i consigli. 
					 
					IV. 
					Il Busto e la Volpe 
					 
					Giovanetti, a cui fortuna 
					Die nascendo nobil cuna, 
					Non perdete i giorni e l'ore 
					Dell' età sul primo fiore; 
					Ma v' accenda il bel desire 
					D' addobbar e il' arricchire 
					Di dottrina gl'intelletti: 
					Che se all' ozio, se ai diletti 
					Gli anni verdi voi spendete, 
					Bellimbusti un di sarete. 
					Fasto nobile apparente 
					Sol abbaglia la vil gente; 
					Ma chi pensa, sol apprezza 
					Il saper e la saviezza. 
					 
					Fece un celebre scultore 
					Un gran busto d'un signore: 
					Una volpe parte a parte 
					Lo rimira, e loda l'arte; 
					E poi disse: Quanto è bello! 
					Ma sprovisto di cervello. 
					 
					V. 
					Gli alberi 
					protetri dagli dei 
					 
					I numi scesero 
					In terra un giorno 
					Dall' alto e lucido 
					Loro soggiorno, 
					   E s'aggiravano 
					In schiera amica 
					In mezz' agli alberi 
					Di selva antica; 
					   Là dove unanimi 
					Tra lor pensiero 
					Fer di dividersi 
					Di quei l'impero. 
					   Giove, che modera 
					Il tutto e regge 
					Con immutabile 
					Eterna legge, 
					   Per se medesimo 
					La quercia prende, 
					Che fra le nuvole 
					La fronte stende. 
					   D' Appollo è l'arbore, 
					La di cui fionda 
					A' vati celebri 
					Il crin circonda. 
					   E vuole Venere 
					Fra tanti e tanti 
					Il mirto scegliere 
					Grato agli amanti. 
					   Il pioppo prendasi 
					Ercol divino; 
					E Marte il frassino; 
					Cibele il pino. 
					   Disse alfin Pallade: 
					Come voi tutti, 
					Me non dilettano 
					Foglie, ma frutti. 
					   L'olivo scegliere 
					Onde a me piace, 
					Arbor fruttifero, 
					Arbor di pace. 
					   Lieto d'intendere 
					Scelta si bella, 
					Giove amorevole 
					Sì le favella: 
					   Ragione provida, 
					Si vede, o figlia, 
					Che in tutte l'opere 
					Sol ti consiglia. 
					   Perie l'inutile 
					Non ha vaghezza: 
					Ah! tutti apprendano 
					Da te saviezza. 
					 
					VI. 
					La Lucciola 
					 
					   L'ombre notturne tacite 
					Dai monti ormai cadevano, 
					Quand' una vana lucciola 
					Cosi prese a discorrere: 
					   Ben può la notte spegnere 
					I bei color moltiplici, 
					Che prima dipingevano 
					L'erbette, i fiori, gli alberi. 
					Io so nell' aria stendere 
					Volando solchi lucidi, 
					Che della notte vincono 
					Le dense oscure tenebre; 
					E splendo non dissimile 
					A quei diamanti nitidi 
					Che in seno al sesso amabile 
					Nell' ombra più sfavillano. 
					Le stelle in cie l fiammeggiano, 
					E son del ciel le lucciole; 
					Io splendo in terra, e d' essere, 
					Qual esse, stella credomi. 
					Quel rosignuol, che or odesi 
					Cantarsi dolce e teneio, 
					I pregi miei sol celebra, 
					E 'l mio sublime merito. 
					   Cosi costei vantavasi, 
					E mentre vola rapida, 
					I solchi, che descrivere 
					Soleva, la tradiscono; 
					Che questi il volo guidano 
					Del rosignuol che seguela, 
					La giunge, imbecca, ingozzala! 
					E rendela invisibile. 
					 
					Oh fasto umano stolido, 
					In questo insetto specchiati: 
					La tomba inevitabile 
					T'aspetta per estinguerti. 
					 
					VII. 
					L'Astrologo 
					 
					Mi ricordo d'aver letto 
					Che un astrologo soletto 
					S'aggirava in un cammino, 
					E, volendo del dentino 
					Discoprir il denso velo, 
					Ei fis ava gli occhj in ciclo. 
					Cadile il misero in un pozzo, 
					E gli entrò l'acqua nel gozzo. 
					Tu pretendi, uno gli disse, 
					Tra le stelle erranti e fisse 
					Penetiar, e tu non vedi 
					Quel che trovasi a' tuoi piedi! 
					 
					VIII. 
					L'Infelice e la Morte 
					 
					Un contadino povero, 
					A cui la vita logora 
					Gli stenti e gli anni avevano, 
					Tornava curvo e tremulo 
					Dal bosco al tetto rustico; 
					E non potendo reggere 
					In sulle spalle dèboli 
					Fastel di rami, fermasi, 
					A terra il getta, e posasi, 
					E di sua sorte misera 
					Pensieri tanto torbidi 
					La mente gli funestano, 
					Che stanco già di vivere 
					Desia de' mali l' ultimo, 
					E grida: Oh morte, affrettati, 
					Questa mia vita prenditi. 
					Costei si fe' visibile: 
					Con passi lunghi e celeri 
					Parca passar sollecita 
					D'opima preda, e dissegli: 
					Che brami? presto spiegati; 
					Che non o tempo a perdere. 
					Il contadin, vedendola 
					Si bruita, nera e squallida, 
					Tremor sentissi gelido 
					Per tutte l'ossa scorrere, 
					E le rispose: Pregoti, 
					Che sol m' ajuti a ponere 
					Il mio fastel su gli omeri, 
					E ti sarò gì aiissimo. 
					 
					Se par la morte orribile 
					All' uom dolente e misero, 
					Qual fia per quei che vivono 
					Fra gli agj e le delizie? 
					 
					IX. 
					L'Orso ballerino 
					 
					Un orso ballerino, 
					A gir pel mondo errando 
					Avvezzo da bambino, 
					La quiete alfin bramando, 
					Tornar ebbe desio 
					All'antro suo natio. 
					   Vi giunse: allora presta 
					La fama la sua tromba 
					Imbocca, e la foresta 
					Tosto del suon rimbomba 
					Per tutto intorno intorno 
					Del grato suo ritorno. 
					   Venivano i parenti 
					In frotta al viaggiatore 
					Per fargli complimenti 
					Sinceri e di buon core; 
					Che mai l' orsina gente 
					Nè adula, nè mai mente. 
					   Ognuno gli chiedeva, 
					Che fece, ov'era stato? 
					Cortes' ei rispondeva 
					Che con onor ballato 
					Aveva in mille e mille 
					Cittadi, borghi, e ville 
					   Tutta la frotta il prega, 
					Che balli un saltarello. 
					Le membra egli dispiega 
					Sopra due zampe snello, 
					E mentre ognun l'ammira, 
					Ballando intorno gira; 
					   Si ben, che venne l' estro 
					A tutti d' imitare 
					Quel ballerin maestro. 
					Ognun a ben saltare 
					Si sforza, e si travaglia, 
					Nè fa cosa che vaglia. 
					   In sulla dur' arena, 
					Di quella goffa razza 
					Chi batte colla schiena, 
					Sull' anca chi stramazza, 
					La zampa chi si fiacca, 
					Il naso chi si ammacca. 
					   Allora quei selvaggi, 
					Per rabbia o per dispetto, 
					Gli fecer mille oltraaggi: 
					Va, saltator inetto, 
					Dicean, ya per il mondo 
					A far il vagabondo. 
					   Non fu l'orso sorpreso 
					Di gente si villana; 
					Che aveva visto e inteso 
					Che tra la gente umana 
					Molti disprezzo fanno 
					Di quel ch' essi non sanno. 
					 
					X. 
					Il Topo 
					cittadino, e 'l Topo rustico 
					 
					Ecco una gentil favola, 
					Che quando ero bambino, 
					La nonna mia narravami: 
					 
					Un topo cittadino 
					L'estate dilettavasi, 
					Bramando la tranquilla 
					Amabil solitudine, 
					D'andar sovente in villa. 
					Costui, chi' era d'un' indole 
					Affabile cortese, 
					Favella, e tosto amicasi 
					A un topo del paese, 
					Il qual, sebben economo, 
					Com parte liberale 
					A cosi nobil ospite 
					La mensa sua frugale. 
					Nei campi lieti vivono 
					Questi compagni insieme 
					Ore serene e placide 
					Senza timor e speme; 
					Ma quand'avvien che gli alberi' 
					Il freddo Boiea sfronda, 
					E che non spira Zeffiro 
					Fra i rami, nè sull' onda, 
					Far pensa il topo nobile 
					Alla città ritorno, 
					E l'altro invita e pregalo 
					Venir al suo soggiorno: 
					Vedrai, dicea, risplendere 
					L'oro ne' gran palagi, 
					Vedrai la viva porpora, 
					E le ricchezze, e gli agj; 
					Non ceci, fave, brocoli, 
					Ma starne, ma fagiani 
					Avrem a mensa, e lodole, 
					E morbidi ortolani. 
					   Consente l'altro, e partono 
					Appena il ciel s'oscura, 
					E a mezza notte giungono 
					Contenti all' alte mura. 
					Entrano in casa, e corrono 
					Alla dispensa, e piena 
					D'avvauzi la ritrovano 
					Di saporita cena. 
					L'odor, la fame stimola 
					All' esca i loro denti, 
					Di quella sol si curano, 
					Nè fanno complimenti: 
					Ma due gran porte stridono 
					Su cardini sonanti, 
					E fuggono, e s'imbucano 
					I topi allor tremanti, 
					Erestan quan esanimi 
					Udendo due molossi, 
					Che orribilmente latrano 
					Con rabuffati dossi. 
					Alfine con lo strepito 
					Pur cessa lo spavento, 
					E, disse il topo rustico: 
					Io fame non mi sento; 
					Lontano dai pericoli 
					All' orticello mio 
					Ora ritorno a vivere 
					Nella, mia quiete: addio. 
					 
					XI. 
					La Cicala e la Formica 
					 
					Una cicala stridula 
					Alla formica provida 
					Sen venne smunta e debole, 
					E si pregando, dissele: 
					Formica amabilissima, 
					Il cielo sempre rendati 
					Felice e lungo il vivere. 
					Io son vicina a perdere 
					La vita, se tu l'anima 
					Or non ti senti movere. 
					Fame crudel mi stimola 
					Il tuo soccorso a chiedere. 
					Deh! per pietade prestami 
					Di semi qualche numero, 
					Che ti prometto rendere 
					Nella stagion fruttifera 
					Col frutto dell' imprestito: 
					Inoltre sempre memore 
					M'avrai di tanto merito. 
					Ma la formica economa, 
					Che di prestar non curasi, 
					Con questo dir l'interroga: 
					Tu, nella lunga estate, 
					Quando le terre arate 
					E le colline apriche 
					Biondeggiano di spiche, 
					E mentre altri lavora, 
					Tu che facevi allora? 
					Cantar, l'altra risposele, 
					In sulle annose roveri, 
					O sulle verdi salici 
					Fu cura mia sol unica. 
					   Se allor cantavi, amica, 
					Riprese la formica 
					Con un ridevol scherno, 
					Or balla nell' inverno. 
					 
					XII. 
					Il Corvo e la Volpe 
					 
					   Stava il corvo sulla cima 
					D'una querce in un boschetto, 
					Imbeccando un formaggetto, 
					Che rubalo aveva prima. 
					   Far l'istesso al corvo spera 
					Una volpe malandrina, 
					E pianpiano s'avvicina 
					Sotto l'albero dov'era; 
					   E gli disse: Signorino, 
					Furti vedo; alfin ritorni. 
					Dove fosti tanti giorni? 
					Quanto sei bello e carino? 
					   Alle penne se il tuo canto 
					Rassomiglia, oh te felice! 
					Tu di queste selve il vanto, 
					Tu di lorsei la fenice. 
					   Tal favella il corvo tenta, 
					Slarga il becco, cantai crede; 
					E gli cade, nè s'avvede, 
					La E ua preda: essa l'addenta. 
					   Indi disse: Quest' è mio; 
					Volentier tei renderei, 
					Ma di lodi sazio sei; 
					Io noi son: tu canta; addio. 
					 
					   Imparate a non dar fede 
					Ai bifronti adulatori; 
					Che volpini ingannatori 
					Vento vendono a chi crede. 
					 
					XIII. 
					Il Leone, la 
					Capra, la Pecora 
					e la Giovenca 
					 
					Il leon rè d'un paese 
					Invitar volle cortese 
					La giovenca coll'agnella 
					E la capra destra e snella 
					Seco a caccia: Grande onere 
					E l'andar con tal signore; 
					E dovevano spartire 
					La lor preda con quel sire; 
					Che promise, le reale, 
					Di lor darne parte uguale. 
					Sol la capra un cervo prese 
					Nella rete cli' ella tese. 
					E sull' imbrunir del giorno 
					Tutti essendo di ritorno, 
					Il leone di quel cervo 
					Fe' le parti; indi protervo 
					Disse: A chi sparti, si dia 
					Questa prima;ond' ella è mia; 
					Prendo l'altia per ragione, 
					Che mi chiamo il re leone: 
					Or la terza dar conviene 
					Al più torte; onde a me viene: 
					E quest' ultima che avvanza 
					Chi toccar avrà baldanza, 
					Io la strozzo immantinente. 
					Così dico; e un rè non mente. 
					A tal dir, le poverine 
					Sen' andar, le orecchie ohine, 
					Con gran fame, e con gran pena, 
					A dormire senza cena. 
					 
					Le promesse dei signori 
					Sono frondi, ch' àn bei fiori, 
					Ma sovente senza frutto: 
					Cade il fior, svanisce tutto. 
					 
					XIV. 
					La Rondine, e gli 
					Augelletti 
					 
					Le rondini, che girano 
					In mille parti e mille, 
					E che diverse veggono 
					Cittadi, borghi e ville, 
					E che da queste varcano 
					Il mare in altre arene, 
					S'avvezzan a discernere 
					Del mondo il male e 'l bene, 
					E, come se leggessero 
					Nella region celeste, 
					I turbini preveggono, 
					I nembi e le tempeste. 
					   Or un' accorta rondine, 
					Vedendo un contadino 
					Che seminava il canape 
					In un campo vicino, 
					Il volo tosto accelera 
					A dar questa novella 
					Agli augelletti garruli, 
					E lor così favella: 
					   Di voi quanto rincrescemi! 
					Mirate quel villano, 
					Che là nel campo semina; 
					Mirate quella mano, 
					Che va, che vien, che spargero 
					Non cessa, ov' ei cammina, 
					A tutti voi l'origine 
					Della comun rovina. 
					Or via, con ale celeri 
					Volate tutti insieme 
					Ad imbeccar solleciti 
					Ogni fatale seme, 
					Affin che non germoglino 
					Le piante, onde si fanno 
					Le reti e i lacci perfidi, 
					Che a vostro ultimo danno 
					Nei boschi van a stendere 
					Quei veri traditori, 
					Che col nome s'onestano 
					Di scaltri uccellatori. 
					   Gli augelli non attendone 
					A quanto ella sa dire, 
					E svolazzar fra gli alberi 
					Sol curano, e garrire. 
					   La rondine benevole 
					Vedendo i fusti un giorno 
					Spuntar, a quell'increduli 
					Di nuovo fé ritorno: 
					Presti, dicea, prestissimi 
					Nei solchi, via, volate; 
					Le piante, che ivi crescono. 
					Rompete, o le sterpate: 
					Se no, la vostra perdita 
					Io veggo ormai vicina. 
					   Gli augelli allor la dicono 
					Ridicola indovina, 
					E femminella timida, 
					E vecchina rimbambita, 
					Che vagabonda è solita 
					A vivere la vita. 
					   Un cielo alfin più-tepido 
					Chiamava altrove quella 
					Per gli altri tanto tenera 
					Presaga rondinella, 
					Che del non suo pericolo 
					Ognor mesta e dolente, 
					E degl' insulti immemore, 
					Lor parla finalmente: 
					Io parto: il core affannami 
					Veder che non avete 
					Cura di voi medesimi, 
					E che ostinati siete: 
					Ma pure alfin credetimi, 
					Scorgo le reti ordire, 
					Le reti che invisibili 
					Vi debbono tradire: 
					Dai boschi allontanatevi, 
					Se 'l vivere v' è caro, 
					Fuggite, nascondetevi, 
					Non veggo altro riparo. 
					   Gli augelli allor bisbigliano, 
					Qual fecero i Troiani, 
					Che della frigia vergine 
					Credean gli auguri vani; 
					E volano, e s'aggirano 
					Fra gli ormi, pini, e abeti; 
					Alfine s'imprigionano 
					Nelle distese reti. 
					Allora si pentirono, 
					Ma in van, quei volatori, 
					E preda e pasto furono 
					Dei lor insidiatori. 
					 
					   Non vai ragion a vincere 
					L'istinto naturale, 
					Nè sa l' uomo conoscere, 
					Che quando avvenne, il male. 
					 
					XV. 
					Il Cavallo e l'Asino 
					 
					Un ronzino vispo e snello 
					Camminava in una via 
					Con un pover' asinello, 
					Che di grave salmeria 
					Carco il tergo, con istento 
					Lo seguiva a passo lento; 
					   E con umil voce mesta 
					Disse a quello: deh! pie rade 
					Di me senti; oimè! t'arresta: 
					Del mio peso la metade 
					Prendi, e porta: se no 'l fai, 
					Cader morto mi vedrai. 
					   Quel cavallo discortese 
					Scosse il capo, alzò la croppa, 
					Fece il sordo, e pur intese. 
					In un sasso l'altro intoppa, 
					E perdendo forza e lena 
					Ei stramazza sull'arena. 
					   Non morì: per sua ventura 
					Il padrone a tempo venne, 
					Che a sgravarlo pose cura. 
					Al ronzino allor convenne 
					Supportar tutto il fardello 
					Dello scarco somarello. 
					   E gemendo sotto il peso 
					D'aver torto ben s'avvide, 
					E quell' altro eh' era steso 
					Sorge intanto, e lo deride. 
					 
					Così va: chi altrui non giova, 
					Onta e danno spesso trova. 
					 
					XVI. 
					La casa di Socrate 
					 
					Una casa, che faceva 
					Fare Socrate, pareva 
					Troppo picciola alla gente 
					Per un uom cosi eminente. 
					Io son grato a tanto zelo, 
					Ei dicea, ma voglia il ciclo, 
					Che di veri amici sia 
					Piena un di la casa mia! 
					   Quel filosofo sapea 
					Molto ben quel che dicea: 
					Che un tal nome si frequente 
					Sulle labra, ben sovente 
					Chi scorgesse il cor umano 
					Lo vedrebbe o finto o vano. 
					 
					XVII. 
					Il Cervo al Fonte 
					 
					     On stolta umana mente, 
					Che sol di cose vane s'innamora, 
					     E sprezza ella sovente 
					Quello che giova, e 'l bel dannoso adora! 
					     Ma de' suoi pregi e vanti 
					I frutti amari son rimorsi e pianti. 
					 
					     Nella stagion estiva 
					Si dissetava un cervo ad una fonta 
					     D'acqua lucente e viva, 
					E la sua nel mirar armata fronte 
					     Superbo s'invaghisce; 
					Ma nel vedersi i piedi, s'avvilisce. 
					 
					     Da quei gli occhj distorna, 
					E guarda solo, e innalbera fastoso 
					     Le diramanti corna: 
					Ma mentre sopra quel distai ondoso 
					     Si specchia, e si vagheggia, 
					D' alto rumor la valle, e 'l monte echeggia. 
					 
					     A se venir ei guarda 
					Di can latranti un'improvisa torma: 
					     Egli a fuggir non tarda; 
					Corre, s' inselva: quei ne seguon l'orma. 
					     Or con suo grave affanno 
					Del bel che tanto amava, ei sente il danno: 
					 
					     Ritrova il suo soccorso 
					Nei piedi; ma le corna in ogn' istante 
					     L'arrestano nel corso; 
					Che nel fuggir tra le ramose piante 
					     Con quelle ognor s'intrica. 
					E intanto vien la torma sua nemica; 
					 
					     E lo circonda, e infesta 
					Con aspri morsi a tergo, a fronte, ai lati: 
					     Assorda la foresta 
					Un flebile ulular misto ai latrati. 
					     Alfin di sua beltade 
					Dopo lungo anelar vittima ei cade. 
					 
					XVIII. 
					L'Agnello e 'l Lupo 
					 
					Un candido agnellino 
					Venne al ruscel vicino, 
					Che da perenne fonte 
					Sorgendo, per il monte 
					Discende frettoloso, 
					Indi in un prato erboso 
					Va lento serpeggiando 
					E dolce sussurrando. 
					Ei stava di quell'onda 
					A bere sulla sponda, 
					Quand'ecco uscir dal bosco 
					Col guardo bieco e fosco 
					Un lupo che veniva 
					Cercando sulla riva 
					Al suo ventre affamato 
					Un pasto delicato. 
					Ei tosto s' avvicina 
					Al rivo: il capo inchina 
					Di bere ivi fingendo; 
					Ma con un ceffo orrendo 
					E digrignando i denti, 
					Gli parla in questi accenti: 
					Per te torbida immonda 
					Sen vien a me quest' onda. 
					Si l' altro: mal tu credi; 
					Perdona; non t' avvedi 
					Che l'onda, ove tu bei, 
					Discendi a' labri miei. . . . 
					Vile animai audace, 
					Un'anno fa, mendace 
					So che di me sparlasti, 
					E che mi diffamasti. . . . 
					Come sarà mai vero, 
					Se nato ancor non ero. . . . 
					Se tu non fosti quello, 
					Fù dunque tuo fratello. . . . 
					Ne men: figlio son' io 
					Unico al padre mio. . . . 
					E ben, sarà tuo padre, 
					Se no, sarà tua madre: 
					Voi razza pecorina 
					De' lupi la rovina 
					Bramate sempre, e antica 
					Foste di noi nemica. 
					Appena il lupo tace, 
					Che avventasi vorace 
					Al misero, e in breve ora 
					Io sbrana e lo divora 
					 
					Ah! contro il prepotente 
					Che vai ragione? niente. 
					 
					XIX. 
					La Rana e 'l Bove 
					 
					Vide una rana un bove 
					Grande non men che bello; 
					E a farsi come quello 
					Facea tutte le prove. 
					   La sua grinzosa pelle 
					Gonfiava la vil rana; 
					Indi superba e vana 
					Diceva alle sorelle: 
					   Al bove son eguale? 
					Eh no, diss' una allora. 
					Gonfiandosi eli' ancora, 
					Richiede: or chi prevale? 
					   Il bove . . . . Or che ti pare? . . . 
					Eh via . . . Ma finalmente? . . . 
					Nè men. . . Or state attente 
					Mie sorelline care. 
					   Gli sforzi allor radoppia 
					Per riportarne il vanto, 
					E ci distende tanto, 
					Che finalmente scoppia. 
					 
					   Ognun nella sua sfera 
					Modesto sempre stia. 
					La favoletta mia 
					Per chi no 'l fa, s'avvera. 
					 
					XX. 
					Il Cane e l'Asino 
					 
					Un villano in una via 
					Del suo cane in compagnia, 
					E d' un arcade ronzino, 
					Dove um prato era vicino, 
					In sull' erba si distese 
					Per posarsi, e 'l sonno il presa. 
					Il padron mentre dormiva, 
					Per gran fame il can moriva; 
					E quell' asino era entrato 
					L'erbe a pascere nel prato. 
					Ecco il cane che lo prega 
					Con tal dire: Deh! ti piega, 
					Sol ch'io prenda in quel cestone 
					Del mio pane la porzione; 
					Chè del pranzo è scorsa l'ora, 
					E la fame mi divora. 
					Il somaro sempre ingordo 
					Al suo dire fece il sordo 
					Per non perder un boccone; 
					Pur gli disse: Il tuo padrone 
					Tei darà; tu pur dovresti 
					Aspettare che si desti; 
					Nè aspettare ti rincresca; 
					Che condisce fame l'esca. 
					Così detto appena, tace: 
					Ma venir lupo vorace 
					Vide: al can si raccomanda, 
					E soccorso gli dimanda. 
					Ma quell'altro con ragione 
					Gli risponde: Il tuo padrone 
					Tel darà; tu pur dovresti 
					Aspettare che ti desti: 
					Or, secondo il mio pensiero, 
					Giova il ventre aver leggero. 
					Viene il lupo, che s'avventa 
					A quell'asino, e l'addenta. 
					L'animale impaurito 
					Prima morto che ferito 
					Cade al suol: il corpo resta 
					Preda al lupo, e l'ombra mesta 
					Nel fuggir dal dolce mondo 
					Va nel Tartaro profondo. 
					 
					A chi vuol sperar il bene, 
					Far il ben ancor conviene. 
					 
					XXI. 
					Le Rane paurose 
					 
					Alle nozze d'un regnante 
					Lieto il popolo godea, 
					E l'obblio, col vin spumante, 
					De' suoi mali anco bevea. 
					   Ad Esopo insana e stolta 
					Sol pareva quella gente, 
					E dicea: Febo una volta 
					D'ammogliarsi aveva in mente. 
					   Tal novella fù alle rane 
					Di gravissimo dolore, 
					Ed uscia dalle lor tane 
					Lamentevole stridore. 
					   Che faremo, s'a figlioli? 
					Al gran Giove dicean tutte: 
					Splenderanno tanti Soli; 
					Noi sarem arse e distaine: 
					   Non i laghi, non il mare 
					Baneran alla lor sete: 
					Addio canne a noi si care, 
					Ah! ci aspetta il nero lete. 
					   L'imeneo non ebbe effetto, 
					Che temean, così fatale: 
					Pur quel vile animaletto 
					Non pensava tanto male. 
					 
					 
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