I.
Il Villano, e 'l Filosofo
Nei campi ameni e fertili
Viveva un buon villano,
Dal cittadino strepito
Tenendosi lontano,
E nel suo stato modico,
Contento sol dei beni
Che dan Pomona e Cerere,
Passava i di sereni;
Sebbene il tempo avevagli
La chioma incanutita,
Pur era forte e vivido,
Qual nell' età fiorita.
Uman, modesto, affabile,
A' suoi doveri fido
Fu sempre: e del suo merito
Tal giva intorno il grido,
Che un cittadin filosofo,
Che spesso impallidiva
Su' libri, per conoscerlo
Alle sue case arriva.
Seco discorre: attonito
Ammira la sua mente,
Il cor sincero e candido,
E la ragion prudente:
E donde in te derivano,
Gli disse, tanti lumi?
Forse de' gran filosofi
Col legger i volumi?
Forse ad Ulisse simile,
Viaggiando in varie parti,
Vedesti molti popoli,
I lor costumi, e l'arti?
Dalla natura semplice,
Di cui siam tutti figli,
Rispose, seppi prendere
Soltanto i miei consigli.
Appresi dalla tortora
Ad esser fedel sposo,
Dalla formica, provido;
Dall'ape, industrioso:
Ad esser padre tenero
Mi mostran gli augelletti
Nella stagion che allevano
I fi-li pargoletti:
Il mio Melampo insegnami
La fedeltà sincera,
E l'umil gratitudine,
E l'amistade vera:
D' ogni animai che merita
Abbonamento e sprezzo,
Da'suoi vizj a difendermi
Mi sono sempre avvezzo.
Qual gufo, par ridicolo
Un uom grave severo;
E par, qual gazza incomodo.
Un uom troppo ciarliero;
E simile alla vipera
Sarà chi mitre in seno
Dell' odio e dell' invidia
Il livido veleno;
Colui che opprime il debole
Che in van piange e si lagna,
Imita il lupo perfido,
E l'aquila grifagna.
Oimè! sclama il filosofo,
E d'aquile e di lupi
Le gran cittadi abbondano
Più che le selve e rupi,
Che ognor voraci e cupidi
Di far nuove rapine,
Le lor ricchezze ammontano
In sulle altrui rovine.
Ah! si, chi vuol apprenderà
Una morale pura,
Qual tu facesti, esamini
La semplice natura:
Chi d'essa i semi spigola,
E li coltiva in seno,
Dai frutti, che producono,
Vivrà felice appieno.
II.
Zenocrate, e
l'Uccellino
Un uccellino timido
Con volo inceito e rapido
D'un falco il crudo artiglio
Fuggiva, e stanco e debole
Alfine venne a scendeie
Nel grembo di Zenocrate:
Il qual tutt'amorevole
In man lo prende, e ponelo
Nel seno, e rassicuragli
Con vezzi lusinghevoli
Quel cor che tanto palpita;
E fece il buon filosofo
Queste parole intendere,
Figlio d'un cor tentibile:
Oli quanto è bel eoccorrere
Un innocente e misero!
III.
Le due Farfalle
Vide una farfalletta
Un lume, al quale stese
L' instabil volo in fretta.
Sua madre la riprese
Con dir: Ferma, che fai?
A morte, oimè! tu vai.
In quella fiamma infida
L'inganno si ritrova;
Fuggila, a me ti fida:
Tel dico, il so per prova;
Che a luce a quella eguale
Mancai brucciarmi l'ale.
Sì disse, e ben le pare
Prudente la bambina;
E per suo qualche affare
Altrove s' incammina.
La figlia riman sola,
E verso il lume vola.
Nè di mirarlo cessa,
E un bel desio si sente
Destarsi, e vi s'appressa,
E dice arditamente:
Di tutto per natura
I vecchi anno paura.
A quel vage splendore,
Qual ebra, ormai s'aggira;
Sovente al gran calore
Si scotta, e si titira,
Ma sempre torna presta,
E cenere al fin resta.
O madri, a voi diretto
Son que-te mie parole:
Le siglie farfallette
Non restino mai sole;
Che a torlo dai perigli
Non bastano i consigli.
IV.
Il Busto e la Volpe
Giovanetti, a cui fortuna
Die nascendo nobil cuna,
Non perdete i giorni e l'ore
Dell' età sul primo fiore;
Ma v' accenda il bel desire
D' addobbar e il' arricchire
Di dottrina gl'intelletti:
Che se all' ozio, se ai diletti
Gli anni verdi voi spendete,
Bellimbusti un di sarete.
Fasto nobile apparente
Sol abbaglia la vil gente;
Ma chi pensa, sol apprezza
Il saper e la saviezza.
Fece un celebre scultore
Un gran busto d'un signore:
Una volpe parte a parte
Lo rimira, e loda l'arte;
E poi disse: Quanto è bello!
Ma sprovisto di cervello.
V.
Gli alberi
protetri dagli dei
I numi scesero
In terra un giorno
Dall' alto e lucido
Loro soggiorno,
E s'aggiravano
In schiera amica
In mezz' agli alberi
Di selva antica;
Là dove unanimi
Tra lor pensiero
Fer di dividersi
Di quei l'impero.
Giove, che modera
Il tutto e regge
Con immutabile
Eterna legge,
Per se medesimo
La quercia prende,
Che fra le nuvole
La fronte stende.
D' Appollo è l'arbore,
La di cui fionda
A' vati celebri
Il crin circonda.
E vuole Venere
Fra tanti e tanti
Il mirto scegliere
Grato agli amanti.
Il pioppo prendasi
Ercol divino;
E Marte il frassino;
Cibele il pino.
Disse alfin Pallade:
Come voi tutti,
Me non dilettano
Foglie, ma frutti.
L'olivo scegliere
Onde a me piace,
Arbor fruttifero,
Arbor di pace.
Lieto d'intendere
Scelta si bella,
Giove amorevole
Sì le favella:
Ragione provida,
Si vede, o figlia,
Che in tutte l'opere
Sol ti consiglia.
Perie l'inutile
Non ha vaghezza:
Ah! tutti apprendano
Da te saviezza.
VI.
La Lucciola
L'ombre notturne tacite
Dai monti ormai cadevano,
Quand' una vana lucciola
Cosi prese a discorrere:
Ben può la notte spegnere
I bei color moltiplici,
Che prima dipingevano
L'erbette, i fiori, gli alberi.
Io so nell' aria stendere
Volando solchi lucidi,
Che della notte vincono
Le dense oscure tenebre;
E splendo non dissimile
A quei diamanti nitidi
Che in seno al sesso amabile
Nell' ombra più sfavillano.
Le stelle in cie l fiammeggiano,
E son del ciel le lucciole;
Io splendo in terra, e d' essere,
Qual esse, stella credomi.
Quel rosignuol, che or odesi
Cantarsi dolce e teneio,
I pregi miei sol celebra,
E 'l mio sublime merito.
Cosi costei vantavasi,
E mentre vola rapida,
I solchi, che descrivere
Soleva, la tradiscono;
Che questi il volo guidano
Del rosignuol che seguela,
La giunge, imbecca, ingozzala!
E rendela invisibile.
Oh fasto umano stolido,
In questo insetto specchiati:
La tomba inevitabile
T'aspetta per estinguerti.
VII.
L'Astrologo
Mi ricordo d'aver letto
Che un astrologo soletto
S'aggirava in un cammino,
E, volendo del dentino
Discoprir il denso velo,
Ei fis ava gli occhj in ciclo.
Cadile il misero in un pozzo,
E gli entrò l'acqua nel gozzo.
Tu pretendi, uno gli disse,
Tra le stelle erranti e fisse
Penetiar, e tu non vedi
Quel che trovasi a' tuoi piedi!
VIII.
L'Infelice e la Morte
Un contadino povero,
A cui la vita logora
Gli stenti e gli anni avevano,
Tornava curvo e tremulo
Dal bosco al tetto rustico;
E non potendo reggere
In sulle spalle dèboli
Fastel di rami, fermasi,
A terra il getta, e posasi,
E di sua sorte misera
Pensieri tanto torbidi
La mente gli funestano,
Che stanco già di vivere
Desia de' mali l' ultimo,
E grida: Oh morte, affrettati,
Questa mia vita prenditi.
Costei si fe' visibile:
Con passi lunghi e celeri
Parca passar sollecita
D'opima preda, e dissegli:
Che brami? presto spiegati;
Che non o tempo a perdere.
Il contadin, vedendola
Si bruita, nera e squallida,
Tremor sentissi gelido
Per tutte l'ossa scorrere,
E le rispose: Pregoti,
Che sol m' ajuti a ponere
Il mio fastel su gli omeri,
E ti sarò gì aiissimo.
Se par la morte orribile
All' uom dolente e misero,
Qual fia per quei che vivono
Fra gli agj e le delizie?
IX.
L'Orso ballerino
Un orso ballerino,
A gir pel mondo errando
Avvezzo da bambino,
La quiete alfin bramando,
Tornar ebbe desio
All'antro suo natio.
Vi giunse: allora presta
La fama la sua tromba
Imbocca, e la foresta
Tosto del suon rimbomba
Per tutto intorno intorno
Del grato suo ritorno.
Venivano i parenti
In frotta al viaggiatore
Per fargli complimenti
Sinceri e di buon core;
Che mai l' orsina gente
Nè adula, nè mai mente.
Ognuno gli chiedeva,
Che fece, ov'era stato?
Cortes' ei rispondeva
Che con onor ballato
Aveva in mille e mille
Cittadi, borghi, e ville
Tutta la frotta il prega,
Che balli un saltarello.
Le membra egli dispiega
Sopra due zampe snello,
E mentre ognun l'ammira,
Ballando intorno gira;
Si ben, che venne l' estro
A tutti d' imitare
Quel ballerin maestro.
Ognun a ben saltare
Si sforza, e si travaglia,
Nè fa cosa che vaglia.
In sulla dur' arena,
Di quella goffa razza
Chi batte colla schiena,
Sull' anca chi stramazza,
La zampa chi si fiacca,
Il naso chi si ammacca.
Allora quei selvaggi,
Per rabbia o per dispetto,
Gli fecer mille oltraaggi:
Va, saltator inetto,
Dicean, ya per il mondo
A far il vagabondo.
Non fu l'orso sorpreso
Di gente si villana;
Che aveva visto e inteso
Che tra la gente umana
Molti disprezzo fanno
Di quel ch' essi non sanno.
X.
Il Topo
cittadino, e 'l Topo rustico
Ecco una gentil favola,
Che quando ero bambino,
La nonna mia narravami:
Un topo cittadino
L'estate dilettavasi,
Bramando la tranquilla
Amabil solitudine,
D'andar sovente in villa.
Costui, chi' era d'un' indole
Affabile cortese,
Favella, e tosto amicasi
A un topo del paese,
Il qual, sebben economo,
Com parte liberale
A cosi nobil ospite
La mensa sua frugale.
Nei campi lieti vivono
Questi compagni insieme
Ore serene e placide
Senza timor e speme;
Ma quand'avvien che gli alberi'
Il freddo Boiea sfronda,
E che non spira Zeffiro
Fra i rami, nè sull' onda,
Far pensa il topo nobile
Alla città ritorno,
E l'altro invita e pregalo
Venir al suo soggiorno:
Vedrai, dicea, risplendere
L'oro ne' gran palagi,
Vedrai la viva porpora,
E le ricchezze, e gli agj;
Non ceci, fave, brocoli,
Ma starne, ma fagiani
Avrem a mensa, e lodole,
E morbidi ortolani.
Consente l'altro, e partono
Appena il ciel s'oscura,
E a mezza notte giungono
Contenti all' alte mura.
Entrano in casa, e corrono
Alla dispensa, e piena
D'avvauzi la ritrovano
Di saporita cena.
L'odor, la fame stimola
All' esca i loro denti,
Di quella sol si curano,
Nè fanno complimenti:
Ma due gran porte stridono
Su cardini sonanti,
E fuggono, e s'imbucano
I topi allor tremanti,
Erestan quan esanimi
Udendo due molossi,
Che orribilmente latrano
Con rabuffati dossi.
Alfine con lo strepito
Pur cessa lo spavento,
E, disse il topo rustico:
Io fame non mi sento;
Lontano dai pericoli
All' orticello mio
Ora ritorno a vivere
Nella, mia quiete: addio.
XI.
La Cicala e la Formica
Una cicala stridula
Alla formica provida
Sen venne smunta e debole,
E si pregando, dissele:
Formica amabilissima,
Il cielo sempre rendati
Felice e lungo il vivere.
Io son vicina a perdere
La vita, se tu l'anima
Or non ti senti movere.
Fame crudel mi stimola
Il tuo soccorso a chiedere.
Deh! per pietade prestami
Di semi qualche numero,
Che ti prometto rendere
Nella stagion fruttifera
Col frutto dell' imprestito:
Inoltre sempre memore
M'avrai di tanto merito.
Ma la formica economa,
Che di prestar non curasi,
Con questo dir l'interroga:
Tu, nella lunga estate,
Quando le terre arate
E le colline apriche
Biondeggiano di spiche,
E mentre altri lavora,
Tu che facevi allora?
Cantar, l'altra risposele,
In sulle annose roveri,
O sulle verdi salici
Fu cura mia sol unica.
Se allor cantavi, amica,
Riprese la formica
Con un ridevol scherno,
Or balla nell' inverno.
XII.
Il Corvo e la Volpe
Stava il corvo sulla cima
D'una querce in un boschetto,
Imbeccando un formaggetto,
Che rubalo aveva prima.
Far l'istesso al corvo spera
Una volpe malandrina,
E pianpiano s'avvicina
Sotto l'albero dov'era;
E gli disse: Signorino,
Furti vedo; alfin ritorni.
Dove fosti tanti giorni?
Quanto sei bello e carino?
Alle penne se il tuo canto
Rassomiglia, oh te felice!
Tu di queste selve il vanto,
Tu di lorsei la fenice.
Tal favella il corvo tenta,
Slarga il becco, cantai crede;
E gli cade, nè s'avvede,
La E ua preda: essa l'addenta.
Indi disse: Quest' è mio;
Volentier tei renderei,
Ma di lodi sazio sei;
Io noi son: tu canta; addio.
Imparate a non dar fede
Ai bifronti adulatori;
Che volpini ingannatori
Vento vendono a chi crede.
XIII.
Il Leone, la
Capra, la Pecora
e la Giovenca
Il leon rè d'un paese
Invitar volle cortese
La giovenca coll'agnella
E la capra destra e snella
Seco a caccia: Grande onere
E l'andar con tal signore;
E dovevano spartire
La lor preda con quel sire;
Che promise, le reale,
Di lor darne parte uguale.
Sol la capra un cervo prese
Nella rete cli' ella tese.
E sull' imbrunir del giorno
Tutti essendo di ritorno,
Il leone di quel cervo
Fe' le parti; indi protervo
Disse: A chi sparti, si dia
Questa prima;ond' ella è mia;
Prendo l'altia per ragione,
Che mi chiamo il re leone:
Or la terza dar conviene
Al più torte; onde a me viene:
E quest' ultima che avvanza
Chi toccar avrà baldanza,
Io la strozzo immantinente.
Così dico; e un rè non mente.
A tal dir, le poverine
Sen' andar, le orecchie ohine,
Con gran fame, e con gran pena,
A dormire senza cena.
Le promesse dei signori
Sono frondi, ch' àn bei fiori,
Ma sovente senza frutto:
Cade il fior, svanisce tutto.
XIV.
La Rondine, e gli
Augelletti
Le rondini, che girano
In mille parti e mille,
E che diverse veggono
Cittadi, borghi e ville,
E che da queste varcano
Il mare in altre arene,
S'avvezzan a discernere
Del mondo il male e 'l bene,
E, come se leggessero
Nella region celeste,
I turbini preveggono,
I nembi e le tempeste.
Or un' accorta rondine,
Vedendo un contadino
Che seminava il canape
In un campo vicino,
Il volo tosto accelera
A dar questa novella
Agli augelletti garruli,
E lor così favella:
Di voi quanto rincrescemi!
Mirate quel villano,
Che là nel campo semina;
Mirate quella mano,
Che va, che vien, che spargero
Non cessa, ov' ei cammina,
A tutti voi l'origine
Della comun rovina.
Or via, con ale celeri
Volate tutti insieme
Ad imbeccar solleciti
Ogni fatale seme,
Affin che non germoglino
Le piante, onde si fanno
Le reti e i lacci perfidi,
Che a vostro ultimo danno
Nei boschi van a stendere
Quei veri traditori,
Che col nome s'onestano
Di scaltri uccellatori.
Gli augelli non attendone
A quanto ella sa dire,
E svolazzar fra gli alberi
Sol curano, e garrire.
La rondine benevole
Vedendo i fusti un giorno
Spuntar, a quell'increduli
Di nuovo fé ritorno:
Presti, dicea, prestissimi
Nei solchi, via, volate;
Le piante, che ivi crescono.
Rompete, o le sterpate:
Se no, la vostra perdita
Io veggo ormai vicina.
Gli augelli allor la dicono
Ridicola indovina,
E femminella timida,
E vecchina rimbambita,
Che vagabonda è solita
A vivere la vita.
Un cielo alfin più-tepido
Chiamava altrove quella
Per gli altri tanto tenera
Presaga rondinella,
Che del non suo pericolo
Ognor mesta e dolente,
E degl' insulti immemore,
Lor parla finalmente:
Io parto: il core affannami
Veder che non avete
Cura di voi medesimi,
E che ostinati siete:
Ma pure alfin credetimi,
Scorgo le reti ordire,
Le reti che invisibili
Vi debbono tradire:
Dai boschi allontanatevi,
Se 'l vivere v' è caro,
Fuggite, nascondetevi,
Non veggo altro riparo.
Gli augelli allor bisbigliano,
Qual fecero i Troiani,
Che della frigia vergine
Credean gli auguri vani;
E volano, e s'aggirano
Fra gli ormi, pini, e abeti;
Alfine s'imprigionano
Nelle distese reti.
Allora si pentirono,
Ma in van, quei volatori,
E preda e pasto furono
Dei lor insidiatori.
Non vai ragion a vincere
L'istinto naturale,
Nè sa l' uomo conoscere,
Che quando avvenne, il male.
XV.
Il Cavallo e l'Asino
Un ronzino vispo e snello
Camminava in una via
Con un pover' asinello,
Che di grave salmeria
Carco il tergo, con istento
Lo seguiva a passo lento;
E con umil voce mesta
Disse a quello: deh! pie rade
Di me senti; oimè! t'arresta:
Del mio peso la metade
Prendi, e porta: se no 'l fai,
Cader morto mi vedrai.
Quel cavallo discortese
Scosse il capo, alzò la croppa,
Fece il sordo, e pur intese.
In un sasso l'altro intoppa,
E perdendo forza e lena
Ei stramazza sull'arena.
Non morì: per sua ventura
Il padrone a tempo venne,
Che a sgravarlo pose cura.
Al ronzino allor convenne
Supportar tutto il fardello
Dello scarco somarello.
E gemendo sotto il peso
D'aver torto ben s'avvide,
E quell' altro eh' era steso
Sorge intanto, e lo deride.
Così va: chi altrui non giova,
Onta e danno spesso trova.
XVI.
La casa di Socrate
Una casa, che faceva
Fare Socrate, pareva
Troppo picciola alla gente
Per un uom cosi eminente.
Io son grato a tanto zelo,
Ei dicea, ma voglia il ciclo,
Che di veri amici sia
Piena un di la casa mia!
Quel filosofo sapea
Molto ben quel che dicea:
Che un tal nome si frequente
Sulle labra, ben sovente
Chi scorgesse il cor umano
Lo vedrebbe o finto o vano.
XVII.
Il Cervo al Fonte
On stolta umana mente,
Che sol di cose vane s'innamora,
E sprezza ella sovente
Quello che giova, e 'l bel dannoso adora!
Ma de' suoi pregi e vanti
I frutti amari son rimorsi e pianti.
Nella stagion estiva
Si dissetava un cervo ad una fonta
D'acqua lucente e viva,
E la sua nel mirar armata fronte
Superbo s'invaghisce;
Ma nel vedersi i piedi, s'avvilisce.
Da quei gli occhj distorna,
E guarda solo, e innalbera fastoso
Le diramanti corna:
Ma mentre sopra quel distai ondoso
Si specchia, e si vagheggia,
D' alto rumor la valle, e 'l monte echeggia.
A se venir ei guarda
Di can latranti un'improvisa torma:
Egli a fuggir non tarda;
Corre, s' inselva: quei ne seguon l'orma.
Or con suo grave affanno
Del bel che tanto amava, ei sente il danno:
Ritrova il suo soccorso
Nei piedi; ma le corna in ogn' istante
L'arrestano nel corso;
Che nel fuggir tra le ramose piante
Con quelle ognor s'intrica.
E intanto vien la torma sua nemica;
E lo circonda, e infesta
Con aspri morsi a tergo, a fronte, ai lati:
Assorda la foresta
Un flebile ulular misto ai latrati.
Alfin di sua beltade
Dopo lungo anelar vittima ei cade.
XVIII.
L'Agnello e 'l Lupo
Un candido agnellino
Venne al ruscel vicino,
Che da perenne fonte
Sorgendo, per il monte
Discende frettoloso,
Indi in un prato erboso
Va lento serpeggiando
E dolce sussurrando.
Ei stava di quell'onda
A bere sulla sponda,
Quand'ecco uscir dal bosco
Col guardo bieco e fosco
Un lupo che veniva
Cercando sulla riva
Al suo ventre affamato
Un pasto delicato.
Ei tosto s' avvicina
Al rivo: il capo inchina
Di bere ivi fingendo;
Ma con un ceffo orrendo
E digrignando i denti,
Gli parla in questi accenti:
Per te torbida immonda
Sen vien a me quest' onda.
Si l' altro: mal tu credi;
Perdona; non t' avvedi
Che l'onda, ove tu bei,
Discendi a' labri miei. . . .
Vile animai audace,
Un'anno fa, mendace
So che di me sparlasti,
E che mi diffamasti. . . .
Come sarà mai vero,
Se nato ancor non ero. . . .
Se tu non fosti quello,
Fù dunque tuo fratello. . . .
Ne men: figlio son' io
Unico al padre mio. . . .
E ben, sarà tuo padre,
Se no, sarà tua madre:
Voi razza pecorina
De' lupi la rovina
Bramate sempre, e antica
Foste di noi nemica.
Appena il lupo tace,
Che avventasi vorace
Al misero, e in breve ora
Io sbrana e lo divora
Ah! contro il prepotente
Che vai ragione? niente.
XIX.
La Rana e 'l Bove
Vide una rana un bove
Grande non men che bello;
E a farsi come quello
Facea tutte le prove.
La sua grinzosa pelle
Gonfiava la vil rana;
Indi superba e vana
Diceva alle sorelle:
Al bove son eguale?
Eh no, diss' una allora.
Gonfiandosi eli' ancora,
Richiede: or chi prevale?
Il bove . . . . Or che ti pare? . . .
Eh via . . . Ma finalmente? . . .
Nè men. . . Or state attente
Mie sorelline care.
Gli sforzi allor radoppia
Per riportarne il vanto,
E ci distende tanto,
Che finalmente scoppia.
Ognun nella sua sfera
Modesto sempre stia.
La favoletta mia
Per chi no 'l fa, s'avvera.
XX.
Il Cane e l'Asino
Un villano in una via
Del suo cane in compagnia,
E d' un arcade ronzino,
Dove um prato era vicino,
In sull' erba si distese
Per posarsi, e 'l sonno il presa.
Il padron mentre dormiva,
Per gran fame il can moriva;
E quell' asino era entrato
L'erbe a pascere nel prato.
Ecco il cane che lo prega
Con tal dire: Deh! ti piega,
Sol ch'io prenda in quel cestone
Del mio pane la porzione;
Chè del pranzo è scorsa l'ora,
E la fame mi divora.
Il somaro sempre ingordo
Al suo dire fece il sordo
Per non perder un boccone;
Pur gli disse: Il tuo padrone
Tei darà; tu pur dovresti
Aspettare che si desti;
Nè aspettare ti rincresca;
Che condisce fame l'esca.
Così detto appena, tace:
Ma venir lupo vorace
Vide: al can si raccomanda,
E soccorso gli dimanda.
Ma quell'altro con ragione
Gli risponde: Il tuo padrone
Tel darà; tu pur dovresti
Aspettare che ti desti:
Or, secondo il mio pensiero,
Giova il ventre aver leggero.
Viene il lupo, che s'avventa
A quell'asino, e l'addenta.
L'animale impaurito
Prima morto che ferito
Cade al suol: il corpo resta
Preda al lupo, e l'ombra mesta
Nel fuggir dal dolce mondo
Va nel Tartaro profondo.
A chi vuol sperar il bene,
Far il ben ancor conviene.
XXI.
Le Rane paurose
Alle nozze d'un regnante
Lieto il popolo godea,
E l'obblio, col vin spumante,
De' suoi mali anco bevea.
Ad Esopo insana e stolta
Sol pareva quella gente,
E dicea: Febo una volta
D'ammogliarsi aveva in mente.
Tal novella fù alle rane
Di gravissimo dolore,
Ed uscia dalle lor tane
Lamentevole stridore.
Che faremo, s'a figlioli?
Al gran Giove dicean tutte:
Splenderanno tanti Soli;
Noi sarem arse e distaine:
Non i laghi, non il mare
Baneran alla lor sete:
Addio canne a noi si care,
Ah! ci aspetta il nero lete.
L'imeneo non ebbe effetto,
Che temean, così fatale:
Pur quel vile animaletto
Non pensava tanto male.
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