Favole III.
 

Favole II.
 
La Lepre e te Rane
L'Ubriaco
La Moglie, e 'l Marito moribondo
I Litiganti e l'Ostrica
La Volpe e l'Uva
Il Leone e 'l Topo
La Volpe scodata
I due Galli e la Gallina
Il Topo e l'Ostrica
L' Agricoltore e i suoi figli
Il Villano e 'l Serpente
L'Uccellatore e lo Sparviere
Ercole in cielo
Giove e 'l Navigante
Il Gatto e la Volpe
L' Infelice, l'Avaro, e 'l Tesoro
Il Topo prodigo
Il Topo e la Rana
La Fanciulla
La Vedovella
Il Pescatore, e 'l Pesciuolo

XXII.
La Lepre e te Rane

   La lepre timida,
Che si doleva
Della sua misera
Sorte, diceva:
   Io per correggere
Il mio difetto
Fo l' impossibile,
Ma senza effetto.
   E dovrò vivere
Sempre in paura;
Che non sa vincere
L'arte natura.
   Mille perìcoli
Temo nel giorno,
Sempre sollecita
Mi guardo intorno;
   Un' ombra, un tremito
Se veggo, o sento,
Il cor mi palpita
Gia di spavento.
   Così lagnandosi
Ella sovente
Soleva vivere
Mesta e dolente.
   Ma pur insolito
Caso le avenne,
Un di che al margine
D'un lago venne:
   Nell' acqua saltano
Tosto le rane,
E si nascondono
Nelle lor tane
   La lepre attonita,
Oh! quanta gente,
Disse, al mio giungere
Paura sente!
   Fugge precipite,
Orche mi vede!
Di guerra un fulmine
Dunque mi crede?
   Ma donde vienemi
Tanto valore?
Del mio più timido
É d'altri il core.

XXIII.
L'Ubriaco

Non v'è chi sia perfetto;
Ognun a il suo diffetto,
Dove sovente cade;
Nè la canuta etade,
Nè danno, nè timore
Lo sterpa mai dal core.

   Messere Bietolone
Intrepido campione
Di Marte no, di Bacco,
Nel tracannar mai stracco
Del Nume pampinoso
Il nettare spumoso,
Un di, che n' era oppresso
Così, che il tuono istesso
Destato non l'avria
Da quella letargia,
La moglie sua portare
Lo fece, e rinserrare
Per fargli gran paura
In una tomba oscura,
Dov'era alto sospesa
Una lucerna accesa.
   Pian piano ivi il vapore
Si sfuma del liquore;
Alfin egli si desta,
E disse: coa' è questa?
E come mai son morto
Senz' essermea' accorto?
Oimè! la mia consorte
Qual fia per la mia morte?
Ah! poverina, quanti
Sospiri versa e pianti?
Ma pur la vedovella
Ancor vistosa e bella
Saprà per consolarsi
Un altro ritrovarsi
Marito vero, o finto,
In vece dell'estinto:
Le donne sono scaltre,
Farà come tant 'altre.
   Sì disse, e dica quello
Ch'ei vuol, chè nel cervello
Di vino qualche stilla
Ancora gli zampilla.
   Frattanto in quella tomba
Un gran rumer rimbomba
Di ferri e di catene:
A lui la donna viene
Vestita qual Megera,
Pallida in volto, e nera,
Con fronte anguicrinita,
E con voce mentita:
Pluton, disse, ti manda
Per me questa vivanda,
Pluton del nero regno
Imperator ben degno,
   Al dir ei presta fede,
E cittadin si crede
D'Averno. Sulla mensa
I cibi ella dispensa.
Ei quelli attento guarda,
Nè molto a dirle tarda:
Ma qui sul tavolino,
Per Bacco! non e' è vino.

XXIV.
La Moglie, e 'l Marito moribondo

Da'medici spedito
Ormai vicino a morte
Languiva un buon marito;
E la fedel consorte
Si gran dolor sentiva,
Che quasi ne impazziva.
   O morte, vieni orora,
Così dicea costei,
Pria che lo sposo mora,
Deh! tronca i giorni miei:
Vederlo, oh dio! morire
M' è troppo gran martire.
   Sì disse; e avvien che senta
Picchiar alle sue porte:
Ell' apre, e si spaventa
Vedendo della morte,
Che appar all' improviso,
Il brutto orribil viso.
   Nè sa che far, che dire.
Chi quà mi fa venire?
Le chiede, chi m'aspetta?
Non io, l'altra risponde,
Ma in letto ivi s'asconde.

XXV.
I Litiganti e l'Ostrica

Vedevan due pellegrini,
Passando al mar vicini,
Un' ostrica, che l'onda
Rispinse in sulla sponda.
Ognuno la divora
Cogli occhj, non ancora
Coi denti; che conviene
Saper a chi appartiene.
Per prenderla uno corre,
Ma non la può raccorre,
Che l'altro l' urta, e stende
La man, e sela prende,
Con dir: Io di te pria
La vidi; ond' ella è mia.
L'odor, colui riprese,
Pria mela fe palese:
Ma questi: ebben l' odore
Ti basti, a me il sapore.
Gran rissa s' accendea
Fra lor, se non giungea
Un' uom con passo tardo,
Che a' gesti, al volto, al guardo,
Degno di star parea
Sul tribunal d' Astrea.
Il caso gli s' espone;
Ognun la sua ragione
Allega, e la difende.
Ei l' ostrica in man prende,
E l'apre, e la trangugia;
Nè la risposta indugia;
Che, dandone a ciascuno
I gusci, uno per uno,
Lor disse; Ciò vi manda
La curia, e vi comanda
Di viver sempre in pace;
Chi no, fia contumace.
E volte a quei le spalle,
Seu va per altro calle.

Col litigar a smacco
Va l'oro, e resta il sacco.

XXVI.
La Volpe e l'Uva

Per quelli che disprezzano
Quel che ottener non possono,
Esopo gran filosofo
Racconta questa favola:

Dall' alto d'una pergola
Tra verdi ameni pampini
Pendevan l' uve gravide
Del loro dolce nettare.
La volpe a caso videle,
E ne divien famelica,
E molte volte cupida
In aria snella vibrasi,
Ma perde il tempo e l' opera;
Che non ne coglie un grappolo.
Allor disse infingevole:
Di quelle nulla curomi,
Chè son acerbe ed acide,
Nè vo' le fibre tenere
Della mia lingua offendere:
Ben fiano dilettevoli
A quei villani tangheri,
Che nel palato rustico
Anno la pelle ruvida.

XXVII.
Il Leone e 'l Topo

Mentare un leon dormia,
I topi in allegria
Si stavano ballando,
Correndo, e saltellando:
Un d'essi mal accorto,
Credendo il leon morto,
Vibrando il corpo in alto,
Gli fé sul ventre un salto.
Risvegliasi il leone,
Ma in simile occasione
Ei grande e generoso,
Non men che valoroso,
Si sdegna di far male
Al picciol animale.
Tal ben non fù perduto:
Chi avrebbe mai creduto,
Che il gran leon d'un topo
Un giorno avesse d'uopo?
Il come or udirete:
In una ferrea rete
Ei venne un giorno colto,
E vi rimase involto;
Indarno ei si travaglia
Per romperne una maglia,
La rete addenta e freme,
E rugge d'ira, e geme:
Il topolino l'ode;
Accorre, un ferro rode:
Poi facil fu al leone
D' uscir da tal prigione.

XXVIII.
La Volpe scodata

Una volpe, benchè astuta,
Non so come, avea perduta
La sua coda, e vergognosa
Sene stava sempre ascosa.
Pur alfin lo stare sola,
Senza udir nè dir parola,
Le rincrebbe, e tutte appella
Le compagne, e lor favella:
Io vorrei fra noi la moda
D' esser tutte senza coda
Introdur, per ch' ella è cosa
Vana, incomoda, dannosa,
E non serve, amiche mie,
Se no se a spazzar le vie;
Oltre che di noi ben molte
Per la coda furon colte,
Onde videro meschine
Pria del tempo la lor fine:
E scodar se vi farete,
Vi prometto, non sarete
Men vezzose, nè men belio,
Ma più svelte, ma più snelle.
   Una d'esse: Pria di fare
Tutte noi quel che a te pare,
Ti rivolgi, che vedremo
Date, come noi saremo.
A quel dir, in un istante
La beffaron tutte quante;
E colei fuggi confusa;
Nè la coda si disusa.

   Tal un uomavria diletto,
Ch'alai avesse il suo difetto.

XXIX.
I due Galli e la Gallina

   Quell' odio, quel furore
   Quell'ira inviperita
Che Troja fe cader incenerita,
   Sol opra fu d'Amore

   E fu di tal rovina
   L'argiva donna oggetto.
Or dico il mal che fe quel fauciulletto
   Per via d'una gallina.

   Vivean due galli amici:
   Costei fra loro venne
Con rubiconda cresta, e vaghe penne,
   Ed eccoli nemici.

   Siguardan con dispetto,
   Le penne ognun rabuffa,
Aguzza il becco, e l'uno l'altro azzuffa,
   E s' urtan petto a petto.

   Entrambi di valore
   Dan prova manifesta,
Combattono gran tempo: alfin un resta
   Dell' altro vincitore;

   E corre alla sua cara
   Quale il gran Turco altero,
E delcrestoso gregge, ond' à l'impero,
   Sultana la dichiara.

   Il vinto si ritira,
   E per celar lo scorno,
Vorria che mai non risplendesse il giorno,
   E s'agita e sospira.

   Trionfa l'altro intanto,
   E sopra un tetto sale,
Ove i suoi vanti a vidta del rivale
   Fa risonar col cauto.

   Un avoltor, che udia
   La voce, in aria romba,
E vendicando quel, su questo piomba,
   L'artiglia, e porta via.

   Nè mai parlar s'intese
   Del gallo impertinente.
Ah! non v'alletti mai fasto insolente,
   Se sorte vi è cortese;

   Che muta in questo mondo
   Costei le sue vicende:
In cima della ruota alcun ascende.
   Ma gira e cado al fondu.

XXX.
Il Topo e l'Ostrica

Un topo vanarello
N qual da saputello
In tutto far soleva,
E che studiato aveva
A scuola d' un pedante,
Nel mondo giva errante;
E, qual la gente sciocca
Che a tutto si balocca,
Un' erta se vedeva,
Un monte gli pareva:
Ecco, dicea, l' Atlante;
E l'altro non distante,
Il Caucaso, e vicini
Quei sono gli Apennini:
Oh quante cose rare
S' imparan col viaggiare!
Gran torto à pur mio padre,
Che mai dalla mia madre
Si scosta, e sol rifiglia
Per crescer la famiglia.
Sì disse: va, cammina;
E giunto alla marina,
Ei vede ivi l'arene
Che d' ostriche eran piene.
Aperta una ven' era:
Ei che papparla spera,
Allonga il collo; e questa
Si chiude, e a lui la testa
Rinserra tanto forte,
Ch'ei n'ebbe tomba e morte.

Chi prender gli altri crede,
Talor se preso vede.

XXXI.
L' Agricoltore e i suoi figli

Un ricco agricoltor, che si vedeva
    Nella cadente etade
    Da un grave mal che aveva,
    A cedere costretto
Alla comune gran necessitade,
    Ai figli che dolenti
    Gli stavan presso al letto,
    Parlò con questi accenti:
Se d'un padre, che muor, amati figli,
    Àn credito i consigli,
    Quei campi, onde sarete
    Eredi, non vendete.
    Ivi un tesor si trova;
Dove non posso dir; ma da voi, tosto
    Che passi il ferragosto,
    Si mova e si rimova
Da per tutto il terreno, né rimanga
Un loco sol, dove la zappa e vanga
    Non passi e non ripassi,
E sgombrate le spine, i sterpi, i sassi.
    Miei figli, abbiate core;
    Se non perdonerete
    Nè a cura, nè a sudore,
Io vel prometto, a capo ne verrete.
Quel padre morto, i figli colla speme
Di trovar il tesor, andaro insieme
    Nel paterno terreno,
    Dove eseguirò appieno
Quanto lor disse, e vider questi un giorno
Quando Cerere ai campi fè ritorno,
    Premio di lor fatiche,
    Non un metal prezioso
Dall' avaro timor sotterra ascoso.
Ma in maggior copia le dorate spiche.

    Quel padre a mio parere
Era un savio, facendo lor vedere,
    Che trovasi un tesoro
Dov' è constante un utile lavoro.

XXXII.
Il Villano e 'l Serpente

Nell' inverno un contadino
Alla casa sua vicino
Sulla neve vide steso
Un serpente, immobil reso
Dal gran gelo, e quasi morto.
L'uom umano, e poco accorto,
L'animai da terra prende,
Porte in casa, e lo distende,
E lo scalda presso al fuoco.
Quel sentendo poco a poco
Ritornar la vita, e l'ira,
Si divincola e s'aggira,
Alza il capo, e già si prova
D'avventarsi a chi gli giova,
E con fargli aspra ferita
Dargli morte per la vita.
Il villan per far vendetta
Corre a prender un' acetta;
Torna, e subito l' uccide,
E in tre parti lo divide,
E ciascuna che ancor guizza
Getta al fuoco, ch' egli attizza.

Dee ben far ognun che vive;
La natura lo prescrive:
Ma si badi cautamente
A non farlo a un uom serpente.

XXXIII.
L'Uccellatore e lo Sparviere

Lo sparviere perseguiva
La colomba che fuggiva
Dalui timida e smarrita,
E vichi' a esser ghermita
Dalla zampa sua grifagna,
Per ventura in una ragna
Incappò quel predatore.
Venne a lui l' uccellatore,
Tra le mani tosto il prese,
E l' uccello che comprese
Che il voleva far morire,
Tal parole gli ebbe a dire.
A te mai no i feci male.
L'uom rispose: non ti vale;
Tene fè quell'  innocente?
E l'uccise immantinente.

Quì s'addattan questi detti:
Chi fa male, male aspetti.

XXXIV.
Ercole in cielo

   Ercole indomito
Figlio di Giove,
Di cui si vantano
L' eccelse prove,
   Immortai fattosi
Giunse alle porte
Dell 'altane lucida
Celeste corte.
   I numi accorsero
A fargli onore,
Qual convenivasi
Al suo valore.
   Ei tutt' affabile
Pien di rispetto,
Grato mostravasi
Al lor affetto.
   Ma, nello scorgere
Fiuto fra loro,
Dio che conoscere
Non sa che l'oro,
   Si sente accendere
Di nobil ira,
E 'l guardo torbido
Altrove gira:
   E come infingere
Nè sa, né vuole,
Al padre volgesi
Con tal parole:
   De' mostri orribili,
Ch' io vincitore
Seppi distruggere,
Fiuto è il peggiore.
   Figlio degnissimo
D'instabil dea
Ei sa corrompere
Per sin Astrea;
   Per lui germogliano
Mai sempre in terra
E liti, e cabale,
E risse, e guerra.
   Egli è l' origine
Di tanti e tanti
Sospiri, lagrime,
Gemiti, pianti,
   Che spesso spargono
I poverelli,
Le madri vedove,
E gli orfanelli;
   Per lui si tramano
Le frodi ascose.
Per lui si macchiano
Vergini e spose;
   Gli è freno debile
L'onor, la fede:
Qual fosse un fulmine,
Tutto gli cede.

XXXV.
Giove e 'l Navigante

Giove avria doni infiniti,
Se venissero compiti
Tutt'i voti; ma passato
Il pericolo, è gabbato.
Paga in terra per timore
D'ir all' ombra un debitore;
Ma nel cielo Giove è buono,
Dice l'empio: col suo tuono
Brontolando dà terrore;
Ma cos' è? sol un rumore:
E son sbirri, e barigello
Da temersi più di quello.
Ma pur Giove che perdona
Non avverte quando tuona?

Navigava unpassaggero,
E da crudo nembo fiero
Per campar, in voto a Giove
D' immolar non sol un bove,
Ma ben cento ne promise;
E campato lo derise.
Come un sol ei non ne aveva,
Dirne mille ben poteva;
Che il prometter mai non costa.
La sua nave alfin s'accosta
Alla riva, dov'ei scende:
A compir il voto attende.
Molte corna ei vede a caso,
Quelle abbraccia; il fumo al naso
Va di Giove: a te, gran dio,
Pago, ei disse, il voto mio;
Quel che il naso tuo divino
Or respira, è odor bovino.
   Cosi parla: ma fra poco
Si dovrà pentir del giuoco.
Ei dormia placido e quieto:
Vien dal ciel un sogno lieto,
Che per cenno del gran Nume
Verso lui spiega le piume,
E gli svela, ov' è nascoso
Un tesor. Ei frettoloso
Corre a quello; ma tra via
Trova ladri: in van desia
Di fuggir: O bórsa, o vita,
S' ode dir. Ei quelli invita
Seco, e dar promette loro
Buona parte del tesoro.
Essi vanno: ei nulla trova.
Lo scusarsi non gli giova.
Disser quelli: Costui pare,
Che si vuol di noi burlare;
Indi a forza di percosse
Lo mandaron a Minosse,
Che sapendo il suo peccato,
L' à fra gli empj condannato.

XXXVI.
Il Gatto e la Volpe

Giva il gatto colla volpe,
Ambi rei di mille colpe,
Sempre avvezzi a far rapine
E di polli, e di galline,
Per il mondo in compagnia;
E per abbreviar la via
Raccontavan come lodi
I lor furti e le lor frodi:
Nè voleva l'un dell'altro
Esser men sagace o scaltro.
Quando un di la volpe al gatto
Disse: Amico, tu sei matto
Se tu credi superarmi
Nelle astuzie, o pareggiarmi,
Che di mille almeno almeno
Il mio sacco è sempre pieno.
Ei rispose: Una mi basta;
Troppe averne il tutto guasta:
Ma che vedo? fa la prova,
Se 'l tuo sacco ora ti giova:
Là quei cani, non m' inganno,
Son mandati a nostro danno.
Disse appena, e non aspestta,
Ma s'arrampica con fretta
D' un abete all'alta cima,
Dove star sicuro stima.
Già di veltri una gran torma
Della volpe seguon l'orma:
Ella fugge la lor ira;
Or di quà e di là s'aggira,
Ors'imbosca, ora s'intana;
Ma qualunque cura è vana,
E de' cani aspri mordenti
Ella cade alfin fra denti.

XXXVII.
L' Infelice, l'Avaro, e 'l Tesoro

Della fortuna tutti
Gli scherzi non son brutti;
Ella ne fa di quelli
Che son graziosi e belli;
È dea, ma qual fanciulla
Si burla e si trastulla,
Nè cura de' mortali
Le preci, l'ire, i mali,
E volge all'improviso
D' alcun il pianto in riso,
E d'alcun altro intanto
Rivolge il riso in pianto.

   Un uom, che sempre avea
Nemica questa dea,
Già stanco di patire
La fame, ebbe desire
Di dar l'ultimo crollo
Con una corda al collo.
Per far si bell'affare
Ei cerca un casolare
Deserto, nè si scorda
D'aver seco una corda.
Ei quella al muro attacca;
S'impicca, ina si stacca
Quel muro poco forte;
E per sua buona sorte
Cader vede un tesoro
Tutto in monete d'oro.
Ei prendelo, nè il conta;
Ma per la via più pronta
Va tosto a consolarsi,
Nè più vuole appiccarsi.
   Ivi di quel denaro
Venne il padron avaro;
No 'l trova, si dispera:
Convien, disse, ch' io pera;
E lega tosto il nodo
Al muro ov'è più sodo;
S' impicca, e calci al vento
Ei tira, sol contento,
Che non gli costi un soldo
La corda e 'l manigoldo.

Che ben finisca, è raro,
Il viver, un avaro:
Egli à la minor parte
Dell'oro, che con arte
Raduna, e die geloso
Ritiene sempre ascoso.

XXXVIII.
Il Topo prodigo

Un topo ricco e prodigo
Padron d'un orticello,
Dove soleva vivere,
Nulla bramando in quello,
   Di topi un grande numero
A mensa sempre aveva,
E generoso affabile
A tutti onor faceva.
   E questi lo pagavano
Con visite frequenti,
Con dargli lodi e titoli,
Con fargli complimenti.
   Così sempre in combriceola
Viveva i di felici,
Credendo suoi che fossero
Quei della mensa amici.
   Un dì, che allegri stavano
Sedendo insieme a desco
Sotto gli ameni pampini,
E che godeano il fresco,
   A tempo ben s' avvidero
Che un gatto a lor venia,
E tutti si sbandarono
Quà e là fuggendo via;
   E corsero a nascondersi
Nelle lor cupe case,
Nè il topo amabil ospite
Nell' orto suo rimase;
   E quando ritornarsene
Volea nel suo ricetto,
Vedeva sempre il perfido
Gattaccio maledetto.
   Ei povero e famelico
Ai topi ebbe ricorso,
Ai quali fù benefico:
Ma gli negar soccorso.
   Di tanta ingratitudine
S'accora, e si dispera;
Alfin ritrova il misero
Pietà dove men spera:
   Un topo che filosofo
Lontan dal fasto visse,
Che appena conoscevalo,
Si lo prevenne, e disse;
   T'invito meco a vivere,
E vieni in questo istante;
La mia fortuna modica.
Sarà per noi bastante.
   Nè ricco son, nè povero;
Ma di buon cor t' accetto:
Vieni: se il fasto biasimo,
La povertà rispetto.

   Quel che fortuna instabile,
Gli amici ancora fanno:
Se vien, con lei s' affollano,
Se fugge, con lei vanno.

XXXIX.
Il Topo e la Rana

V'era un topo bello e grasso
Che lontano sene giva
Da sua casa un giorno a spasso
D'uno stagno in sulla riva.
Una rana che lo vide
Nel suo cor s'allegra e ride.
   Ella che la sua dispensa
Ben fornir crede con quello,
Prima un bel discorso pensa;
Indi a lui sen va bel bello,
E facendogli gli occhietti
Gli favella in questi detti:
   Tu mi sembri forestiere.
Un signore che quà viene
Da lontano per vedere
Queste canne e queste arene;
E ti prego in cortesia
D'onorar la casa mia.
   Ora che tramonta il giorno,
Vieni ormai: ti vo'mostrare
Quì nell' umido soggiorno
Cose tanto belle e rare,
E tra l'altre una conchiglia,
Che inarcar dovrai le ciglia,
   All' invito egli si rende,
Va nell'onda; e la ribalda
Per la coda tosto il prende
Fra suoi denti, e lo tien salda
Per far si che al fondo andasse,
E sottacqua s'affogasse.
   Ei sentendosi la coda
In pericolo, voleva
Via fuggendo andar a proda,
E con lei si dibatteva.
Mentre fanno a tira tira,
Un falcon d'alto gli mira,
   Per finire quel grifagno
Quella strana e nuova pugna;
Cade a piombo in sullo stagno,
E in un punto entrambi adugna,
E con quelli al lido passa
A far cena magra e grassa.

   Fu quel topo un mal accorto
Nel fidarsi a quella rana:
Ch' ei restasse seco morto,
Non mi pare cosa strana;
Chè col reo troppo sovente
Si confonde l'innocente.

XL.
La Fanciulla

   Le rose spuntano
Su i primi albori,
E liete sembrano
Dei lor colori;
Indi dispiegano
Superbe il seno
Al sol che innalzasi
Nel ciel sereno.
   Ma passa rapido
Quel porporino
Color, che avevano
In sul mattino;
E quando imbrunasi
A sera il cielo,
Pendono pallide
Sul loro stelo.
   Ecco risorgere
La bell' aurora,
E rose, giovani
Spuntano allora;
Nè alcuno curasi
Ormai di quelle;
Tutti vagheggiano
Sol le novelle.

   Fanciulle amabili,
Di voi ragiono;
Le rose immagini
Di voi qui sono:
E d' una giovane
Bella, ma fiera,
Narrarvi giovami
L'istoria vera.

   Costei vedevasi
Vaga e gentile,
Dell' età florida
Sull' primo aprile;
E molti e teneri
Amanti aveva;
Ma dispregiandoli
Tutti, diceva:
   Me solo meriti
Sua sposa quello,
Che sarà nobile,
E ricco e bello,
Garbato e giovine,
Dotto e vezzoso,
Amante fervido,
Ma non geloso.
   Mentre lusingasi
Con tai pensieri,
I mesi scorrono,
E gli anni interi;
Nè, per attendere,
Ella mai vede
Lo sposo giungere
Quai vuole e crede
   Ella persevera:
Crescono gli anni,
E questi adducono
Del tempo i danni;
Che quell' aligero
Canuto ladro
Non teme offendere
Volto leggiadro.
   Ella correggerli
Procura in parte,
Quant'è possibile
Con tutta l'arte;
E 'l viso imporpora
Con quei belletti
Che il dotto chimico
Sa far perfetti.
   Ma che! già snidano
Da lei gli amori,
Che a cercar volano
Novelli fiori;
Questi sol amano
Occhj sereni,
Labra vermiglie,
Turgidi seni.
   In modo simile
D' api una schiera
Ne' giorni tepidi
Di primavera
Cerca, spargendosi
Nei campi ameni,
Sol fiori vividi
Di succo pieni.
   E quel veridico
Vetro die spesso
Consiglia tacito
L'amabil sesso:
Presto, maritati,
Dicea; t'affretta;
Che il tempo peritesi
Da chi l'aspetta;
   E se tu seguiti
Questo costume,
Le notti torbide
In fredde piume
Sempre agitandoli
Passar dovrai,
E d'amor martire
Alfin morrai.
   Tai cose dissele
Quel consigliere.
Ell' avvedendosi
Ch' erano vere,
Non sdegnò prendere
Per suo marito
Un uomo zotico
E scimunito.

XLI.
La Vedovella

Oh quanti palpiti,
Quanti sospiri,
Oh quante lagrime,
Quanti deliri,
A donna giovine
Costa talora
Lo sposo amabile.
Se avvien che mora!
Ma il tempo medico,
Che spesso sana
Le cure torbide
Di niente umana,
Di bella vedova
Cambia nel seno
Le tetre nuvole
In bel sereno.

Una mortifera
Febbre un marito
Assale, e mandalo
Presto al cocito:
La sposa tenera,
Ch'era presente,
D' amare lagrime
Sparge un torrente,
E grida: fermati;
Che di te priva
Non è possibile,
Mie ben, eh' io viva:
Se teco a vivere
M'unì la sorte,
Ah! teco uniscami
Ancor la morte.
   Ei che non curasi
Di compagnia,
Soletto e tacito
Se ne va via.
Allor la misera
Smania, delira,
E per le camere
Corre, s'aggira,
Il crine svellesi,
Si batte il petto,
Di grida stridono
Le scale e 'l tetto:
Alfine l'impeto
Del suo dolore,
Si sfoga, e sentesi
Men grave il core.
   Costei, raccontasi,
Clie un padre avesse
Prudente, affabile,
E ch' ei volesse
Quest'ora attendere
Per consolarla;
Onde amorevole
Cosi le parla:
Deh! rasserenati,
Figliola cara;
Sgombra dall' animo
La pena amara;
E pianti e gemiti
Tu spargi a torto;
Eh! pensa a vivere,
Chi è morto, è morto.
Di tale perdita
Dei consolarti;
Mi sarà facile
Di ritrovarti
Un altro giovine
Gentile sposo,
Al primo simile,
Bicco e vezzoso;
Il tempo attendasi
Che l' uso chiede,
E intanto fidati
Sulla mia redo.
Oimè! la vedova
Con un sospiro
Tosto risposegli:
Padre, un ritiro
Io voglio scegliere,
Non un consorte,
Perivi piangere
Sin' alla morte.
   Un mese, flebile
La vedovella
Passa, e non curasi
Di parer bella:
Dell' altro ell' occupa
Non poca parte
A ben disponere
Il crin con arte;
Nel terzo, vedesi
Nel suo bel viso
Che le scintillano
Le grazie, il riso:
   Indi succedono
A poco a poco
E scherzi, e Trottole,
La danza, il giuoco:
Alfin ritornano.
Mille amorini,
Chi al labro tenero
Chi ai biondi crini;
La guancia prendono
Molti vermiglia;
Molti s'annidano
Sotto le ciglia,
Di mirar cupidi
L' occhio sereno;
E i meno timidi
Le vanno in seno.
I mesi scorrono,
Nè il padre parla,
Come promisele,
Di maritarla.
Ella che i stimoli
Sente d'amore,
Onde le sembrano
Secoli l' ore,
Stanca d'attendere,
Ormai non tace:
Padre amatissimo,
Con vostra pace,
Passò quel termine
Che l'uso chiede;
Io sempre fidomi
Di vostra fede.

XLII.
Il Pescatore, e 'l Pesciuolo

Un pescator sul lido
D'un fiume all'amo infido
Un carpiolin aveva
Preso, e si gli diceva:
Oh povero bambino,
Oh quanto picciolino
Tu sei! ma tutt' è buono;
Nè mai ricuso un dono,
Per picciolo che sia,
Che a me la sorte invia:
Or dunque qui ti metto
In questo mio sacchetto.
Deh! ferma, gli risponde
Il pesce; me nell'onde
Riponi, nè t'incresca
D'attendere eh' io cresca;
E fatto grande, allora
A rispescarmi ancora
Un di tu tornerai;
E, credimi, potrai
Col vendermi ben caro
Aver molto denaro.
Cotesta tua linguetta
Oh come ben cinguetta!
Rispose l'uom; ma parmi,
Che cerchi a baloccarmi:
Nel sacco va, e sta zitto,
E tu stasera fritto
Sarai; non sono stolto
Di dare per il molto,
Che spesso mai non viene,
Quel poco che si tiene.