Favole IV.
 

Favole III.
 
Il Coniglio, la Donnola, e 'l Gatto
Il Consiglio dei Topi
Il Leone atterrato dall' uomo
Il Leone e 'l Lupo
Il Pastore bugiardo
Il Topolino, il Gallo, e 'l Gatto
L'Innamorato della Gatta
Il Ragno e la Rondine
Il Mulo superbo
I due Compagni e l'Orso
Il Vecchio e i tre Giovani
Lo Specchio magico
Il Lupo e la Cicogna
Il Leone ammalato
L'Asino che porta l'idolo
L'Avaro
Il Marito, le Moglie, e 'l Ladro
I Tori combattenti, e le Rane
La Montagna partoriente
La Leonessa e l'Orsa
Il Lupo e i Pastori

XLIII.
Il Coniglio, la Donnola, e 'l Gatto

Un coniglio giovanetto
Senz'aver alcun sospetto,
Quando prima spunta il giorno,
Si parti dal suo soggiorno
Per andar al verde colle,
Dove or pasce l'erba molle,
Or all' aura lieve e fresca
Si trastulla, trotta, e tresca,
Or mirando sta l'aurora
Che di rose il ciel infiora.
   Una donnola vecchietta,
Che partir lo vide in fretta,
Visitò quel suo palagio
Da per tutto a suo bell'agio;
Indi presene possesso.
Ella stava sull'ingresso,
Quando alfin tornò il coniglio,
Che in vederla inarca il ciglio,
E le grida: Oh sommo Giove!
Che mai vedo? vanne altrove;
Che, se no, con questa zampa,
Ti farò una bruita stampa
Su quel ceffo: presto, via,
Se no 'l sai, la casa è mia.
   Io so ben, colei rispose,
Che la terra e l'altre cose
Son di quel conquistatore,
Che sa farsen possessore:
Io quì son, qui voglio stare,
Tu farai quel che ti pare.
   Dove, quando mai s'intese
Tanto ardir? colui riprese;
Che maniere brutte e ladre!
Questa casa ebbi dal padre,
Ei la tenne da mio nonno,
E mio nonno dal bisnonno,
E per legge e per ragione
Son erede, e son padrone.
   Così l' altra: Che m' importa
Di cotesta gente morta!
Se la legge di conquista
È patente a prima vista?
Ma rimetto questo fatto
Al parere di quel gatto,
Che a noi viene, gatto esperto,
Giusto, pio, di sommo merto.
   Giunse il gatto pettoruto
Grosso e grasso e ben paffuto,
Che pareva veramente
Un togato presidente:
Cari amici, tosto ei disse,
Io nemico delle risse,
E di pace mediatore
A voi vengo: ora il tenore
Esponete della lite;
Ma ben presso a me venite,
Che son sordo, mal che accade
Alla mia caduca elade.
   L'un e l'altro litigante
Gli si accosta: in un istante
Quel gattono snello e scaltro
L'un azzampa, come l' altro,
E col farne un lieto pasto
Pose fine al lor contrasto.

Quanti, Astrea, fra tuoi seguaci
Quale il gatto, son rapaci!

XLIV.
Il Consiglio dei Topi

Rondilardo, quel rapace
Vero Cerbero vorace,
Che la favola decanta,
Che de' topi strage tanta
Fece, s'era innamorato,
E co'topi men spieiato
Ei perdea del sonno l'ore
Nelle tresche dell' amore.
   Mentre stracco finalmente
Ei dormia profondamente,
Tutt' i topi s'adunara
Per trovar qualche riparo
Al comune lor periglio,
E tenean fra lor consiglia.
   Molte cose furon dette
Da quei topi, e contradette:
Un'alfin dotto, prudente,
Topo vecchio, che sovente
Viste aveva zuffe e risse,
Sorse in piedi, e cosi disse:
Cari amici, or a me tocca,
Se vi pare, aprir la bocca:
A legar vadasi orora,
Mentre il gatto dorme ancora,
Al suo collo un gran sonaglio,
Che quel suono, se non sbaglio,
Sempre a noi farà palese
E gli assalti e le sorprese,
E potrem fuggir sotterra,
Quando venga a farci guerra:
Ora chi vorrà di noi
Nome aver fra topi eroi,
Vada presto: chi trascura
L'occasion, perde ventura.
   Approvaron tutti quanti
Quel suo dir i circostanti,
E gli diero somma lode;
Ma nissuno d' essi prode
All' imprésa noti s'appresta:
Chi dicea, mi duol la testa;
Chi, le gambe o troppo corte;
Chì, non son a tanto forte;
Chi, appannatigli occhj avea,
E chi zoppo si fingea;
Tal che tornan mesti e muti,
Quale prima eran venuti,
Alle lor native grotte,
Dove abbuja sempre notte.

Nelle cose di periglio
Tutti sanno dar consiglio:
S' eseguisca; non si trova.
Chi tenirne ardisca in prova.

XLV.
Il Leone atterrato dall' uomo

Presso un bosco in un cammino,
Sculto in marmo alabastrino
Un robusto si vedeva
Luttator, il qual aveva
Un leon domato e vinto,
E parea vero e non finto;
Tanto l'arte dotta e destra
Imitò la sua maestra.
Ivi un di molti viandanti
S' eran fermi, e tutti quanti
Esaltavano la gloria
Di quell' nom per tal vittoria.
Ma dal bosco esce un lcone
Dove udiva quell'azione
Millantar, e con tal dire
Fece tutti ammutolire:
Se un Leon era scultore
Chi sarebbe il vincitore?

XLVI.
Il Leone e 'l Lupo

Il re degli animali, re clemente,
      Imponere voleva
Nuovi tributi sopra la sua gente,
E questa al suo volere s'opponeva.
      Un re se far potesse
      Tutto quel ch' ei volesse,
      Saria felice appieno.
Ma no: ciascun à guai, chi più, chi meno
Il lupo suo ministro e consigliere,
Si mandi, disse, l'orso capuano
Con molte armate schiere
Ad eseguire l'ordine sovrano,
      E porti ai disleali
La strage, la rovina, e tutt' i mali:
      Voi ne siete il padrone,
      E per farsi ubbidire,
Farsi temer prima convien, o sire.
      A tal dir il leone,
Acceso il cor d'un generoso sdegno!
Involati, rispose, agli occhj miei;
      Or veggo ben che sei,
Da' tuoi consigli, un vil ministro indega
Farmi temer! sappi, che sol desio
Di sempre farmi amar dal popol mio.

XLVII.
Il Pastore bugiardo

Un pastor fece un inganno,
Che finir vide a suo danno.
Era notte, ognun dormiva,
Picciol moto non s'udiva;
Egli sol fra l'ombre nere
Finse un lupo di vedere,
E con grido forte acuto:
Ecco il lupo, ajuto! ajuto!
Ripeteva. Grande frotta
Verso lui s'era ridotta
Dei villani, che svegliati
Egli aveva, tutti armati
Chi con falci, chi con vanghe,
Chi con forche, citi con stanghe,
Chi teneva un gran bastone,
Chi un badile, chi un roncone.
Dove? dove? ognun chiedeva,
E 'l pastore son ideva
Lor dicendo, che scappato
Era il lupo, e rinselvato.
   L' altra notte allastess' ora
Rinnovò la beffe ancora;
E i villani, qual pria, desti
A venire furon presti,
Ma conobber quel pastore
Per mendace beffatore.
   Una notte, indi successe,
Che un gran lupo egli vedesse
Non mentito, un lupo vero,
Affamato, ori ibil, fiero,
E gridando, ajuto chiede.
Ma niun gli presta fede,
Ma niun dal letto dove
Si posava non si move;
E frattanto ch' egli chiama
Quel lupaccio si disfama,
Divorando alcune agnelle
Le più pingui e le più belle.

Quando un labro e menzognero,
Nè men gli si crede il vero.

XLVIII.
Il Topolino, il Gallo, e 'l Gatto

Caminava un topolino
Di prudente madre figlio,
Per il mondo, pellegrino,
Dove incorse un gran periglio:
Nel ritorno suo descrisse
Alla madre il caso, e disse:
   Come quei che van cercando
E di quà e di là fortuna,
Ancor io givo trottando,
Nè m'avvenne cos' alcuna:
Vidi alfine due animali
Di natura disuguali.
   Un affabile, modesto;
Son brillanti gli occhj suol,
E lo sguardo dolce, onesto;
À le orecchie, come noi,
Per la forma, e ben dimostra
Indol simile alla nostra.
   L'altro ch'era non distante,
Una cresta in fronte aveva;
Fiero, inquieto, petulante;
Colle braccia si batteva
I suoi fianchi, e quindi a volo
Innalzatasi dal suolo.
   D'accostarmi fui bramoso
A quel primo; quando io sento
Un gridare strepitoso
Che fe' l'altro, e di spavento,
Penchè timido non sia,
Pur mi volsi a fuggir via.
   Figlio mio, disse la madre,
L'animale, che tu vanti,
Trangugiò vivo il tuo padre,
Che mi costa tanti pianti.
Or secondo il lor ritratto,
Un è gallo, e l'altro un gatto.
   Quel che par dolce, mansueto,
È ribaldo e traditore;
Se non era l'altro inquieto,
Che non à maligno il core,
Ei t'avrebbe allora colta,
E nel ventre suo sepolto.
   Sempre, o figlio, non è vero
Quello che si vede, o s'ode:
Sotto un volto lusinghiero
Spesso celasi la frode,
In quel modo che l' annida
Sotto fior la serpe infida.

XLIX.
L'Innamorato della Gatta

L'istinto di natura
Chi riformar pretende,
Ingegno, tempo, cura,
E l'arte indarno spende;
Con noi nel nostro core
Ei nasce, vive, muore.

   Un uom d' amore ardeva;
Per chi? per la sua gatta;
E porgere soleva,
Affinchè fosse fatta
Donna, con grande zelo
E preci, e voti al cielo:
   O Dei, diceva, impura
Non è la fiamma mia;
Il labro mio vi giura,
Che seco in compagnia
Vivrò sin' alla morte
Legittimo consorte.
   Udendo un tal amante
Gli Dei risero allora,
E rise il gran tonante
Il grave Giove ancora,
Con dir: I cori umani
Àn pur desiri strani.
   Ma non gli bada. Intanto
Colui langue, sospira,
Il letto suo di pianto
Ognor bagna e delira:
Alfin la Dea ciprigna
Si mosse a lui benigna.
   A Giove parla, e dice:
Deh! padre, alfin contenta
Quel povero infelice;
Ora quel di rammenta,
Che tu la barba d'oro
Mutasti in pel di toro.
   Le fè Giove un sorriso,
E quella gatta donna
Divenne all' improviso,
Che senza vel, nè gonna
Apparve giovanetta
Una beltà perfetta.
   Colui che donna in tutto
La vede, vuole il fiore
Raccoglier pria che il frutto
Del suo costante amore,
E quella timidetta
Si mostra e sdegnosetta:
   Dalle cimerie grotte
Co' lievi sogni erranti
Uscia l' oscura notte:
Allor gli sposi amanti
Contenti a letto vanno
A far quel eh' altri fanno:
   S' intende a riposare.
Ma spento appena il lume,
Udendo ella sbucare
Un sorce, dalle piume
Si slancia col piè snello,
E corre presta a quello.
   E per averlo in gola
Lo segue, chè smarrito
A lei sempre s'invola:
Frattanto il suo marito
La prega, la scongiura,
Che torni: essa noi cura.
   Allor Giove si sdegna
Vedendo tal pazzia:
Costei non era degna
Di tanta grazia mia,
Si disse; e la trasforma
Nella sua prima forma.

L.
Il Ragno e la Rondine

V'era un ragno tessitore,
E di mosche uccellatore,
Che sospese ad un balcone
La sua tela in un salone;
E le mosche, che volando
S'aggiravano e ronzando,
Ivi avean prigion e morte
Una rondine per sorte
Nel passare quindi a volo,
Ruppe e fè cader al suolo
Quella tela, e parimente
L'animale a un fil pendente.

Qual la rete, tal la legge
Sol i piccioli corregge.

LI.
Il Mulo superbo

Il mulo d'un prelato
Superbo d' esser nato
Da nobil madre, spesso
Parlava di se stesso,
Vantando a chi l'udiva
La razza, donde usciva:
Mia madre, mentre visse,
Così sovente disse,
Fece prodezze tante,
Ch' io non saprei dir quante,
E deve far l'istoria
Di lei, di me memoria.
Un medico servire,
Io no; chò un avvilire
Sarebbe gli avi miei;
Men guardino gli Dei!
Nel suo peusiur tal era
La nobile chimera:
Ma fatto grave d'anni,
Ebbe a provar gli affanni
Prescritti dal destin:
Allora in un mulino
Servire gli convenne;
Allora si sovenne
Dell' asino suo padre,
Nè il morto di sua madre
Salvollo dal bastone
Del nuovo suo padrone.

   La favola ci prova,
Che una sventura giova,
Sanando la pazzia
Di vana fantasia.

LII.
I due Compagni e l'Orso

Due compagni nel vedere
Un bell' orso, di parere
Fur di vender la sua pelle,
E fornirsi le scarselle,
Ch'eran piene sol di vento,
Si credevano d'argento.
   Senza chieder permissione
A lui, ch' erane il padrone,
A lui, ch' era vivo, sano,
Non cortese, e non umano,
Trovan prima il compratore,
E vantatogli il valore
Della pelle, e seco fatti
Per il prezzo buoni patti,
Vanno lieti alla foresta
A quell'orso a far la festa.
Giunti appena, in un sentiero
Vien trottando l'orso fiero,
E colpito da paura,
Di salvarsi ognun procura.
Sopra un orino un d'essi ascende:
Prono l'altro al suoi si stende,
Resta immoto e tien il fiato,
Qual se morto fosse stato;
Chè sapea, che l'animale
Corpo morto non assale.
L'orso vien, e gli s'aggira
Per spiar, sesente, o spira;
Oral capo il muso inchina,
All' orecchie or l'avvicina,
Or l'annasa, ora gli fruca
Colla zampa spalle e naca,
E fiutando finalmente,
Un odor ingrato sente,
Un odor sensa rumore,
Ch' era, effetto di timore,
E col muso arcigno e storto:
Costui, disse, è corpo morto;
Come puzza! come impesta!
Per voi, lupi, e corvi, resta
Quest' a voi piacevo! esca,
Che per me vo' carne fresca.
Si dicendo, s' allontana,
E ritorna alla sua tana.
   L'altro scende, vien, e dice,
Al compagno: sei felice,
E ben teco mi consolo,
Che paura è 'l danno solo:
Ma che disse l'orso, quando
Ti veniva bisbigliando
Nelle orecchie? Quasi niente,
Quel rispose; solamente
L'orso pria da voi si prenda,
E la pelle poi si venda.

LIII.
Il Vecchio e i tre Giovani

Non è morte placabile:
L'ultima notte orribile,
Sovente l'alba seguita
Di bella etaile florida.

   In sull' umido margine
Di fresca fonte limpida
Un uom quasi decrepito
Piantando stava un albero.
Tre giovanotti attoniti
Lo guardalo e motteggiano:
Qual mai pazzia nel l'animo
Ti vien di piantar alberi,
Or che gir curvo e tremula
La grave ria condannati?
Tu sudi, e di quest' opera
Il frutto tu vuoi perdere;
Che non vedrai tu crescere
La bèlla pianta e stendere
Le verdi fronde ombrifere.
Forse supponi vivere
Almeno quanto Nestore?
Oimè! buon vecchio, credimi,
La parca inesorabile
In mano tien la forbice
Che a' giorni tuoi recidere
Dovrà lo stame debile.
   Se la mia vita fragile,
Rispose il savio, termina,
Non fia quest'opra inutile:
Altri, avverrà, che godano
Dell'olmo l' ombre placide,
E tal pensiero rendemi
Il mio lavor piacevole.
Ma voi di voi medesimi
Perchè tanto presumere?
Sebbene siete giovani,
Potreste ben precedermi
Nell'ime vie dell' erebo.
   Queste parole che ultime
Ei disse, fur verissime:
Un d'essi per l'America
Per far tesoro imbarcasi;
Appena alf onde fidasi,
Ecco improviso un turbine
Il vasto mar sconvolgere,
E la sua nave immergere
Entro le sue voragini.
   Un altro d'onor cupido
Il fiero Marte seguita,
E al suon di tromba bellica
Corre alla pugna impavido;
Ma il ferro ostile immergere
Si sente nelle viscere,
E 'l sangue versa e l'anima.
   Il terzo volle ascendere
In cima d' alto platano,
E piomba sulla polvere
Inutil pondo esanime.
   Intanto crebbe l'albero,
E al suo cultor vedevasi
Bella mercede rendere
Coll' ombre sue gratissime.
   Quel savio tanto affannasi
Del fato di quei miseri,
Che ne sospira e lagrima.
Per render memorabili
Le loro sorti, erigere
Fece una tomba, e incidere
Nel sasso tali lettere:
Con falce inevitabile
La Parca tanto i giovani
Sa, quanto i vecchi, mietere.

LIV.
Lo Specchio magico

      U n dì l'instabil Dea
Volendo favorirmi poverello,
Gli fece ritrovar magico specchio,
      Dove leggiadro e bello
      Ogni volto parea,
Benchè grinzoso fosse, brutto, e vecchio,
      Tosto che in man lo prese,
      Ei l'uso ne comprese;
      E star i giorni interi
      In una via soleva,
      E tutt' i passaggeri
A specchiarsi invitava, a lor diceva:
      Quì la beltà mirate,
Che benigno vi diede il creatore;
Indi a me suo devoto servitore
      L'elemosina fate.
      Quel vetro, e 'l complimento
      Facevano gran frutto;
      Le donne sopra tutto
Erangli generose: egli contento
      All' ora d' ire a cena
Tornava a casa, colla borsa piena.
Un giorno quel cristallo ei raccomanda
Ad un suo figlio, e sulla stessa via
      In vece sua lo manda.
Questi era brutto: va, si specchia, vede
      Sè bello, e tal si crede;
      Allora il modo obblia
Di valersi del vetro, e qual Narciso
Sta vagheggiando solo il proprio viso:
Talchè al finir del giorno
Senza denari a casa fé ritorno.
      Lo sgrida il padre allora,
E gli dice: qual frutto avesti mai
      Dal vagheggiarti ognora?
Sei più ricco, e men brutto? Sappi ormai,
Che se stesso adular vien da sciocchezza,
E che adular altrui vien d'accortezza.

LV.
Il Lupo e la Cicogna

I lupi son voraci
Non men, due son rapaci:
Un d' essi ingordamente
Rotando il forte dente,
Dov'era gran carname
Pasceva la sua fame,
E gli s'affisse in gola
Un osso, nè parola
Gridar egli poteva,
E pur gridar voleva
Per dimandar aita,
Che perdere la vita
Dovea: ma per ventura
A prender di lui cura
Una cicogna venne.
Il lupo allora tenne
La sua golaccia aperta.
Col becco l'osso, e 'l male,
Che divenia mortale,
Gli leva; indi mercede
Dell'opra sua gli chiede.
Che sento! il lupo dice,
Tu sei troppo felice
D'aver il collo tratto
Dalla mia gola intatto.
Mercede! ah! sconoscente,
Se fai l'impertinente
Se presta non vai via,
Temi la zampa mia.

Così al malvagio pare,
Se mal non fa, benfare.

LVI.
Il Leone ammalato

Il leone un di languia
D'una grave malatia,
E voleva ch' ogni classe
De'suoi sudditi mandasse
Deputati a visitarlo
Che potrebbe almen distraila
Dalla sua melauconia
L'aver seco compagnia.
Passaporti fur spediti
Da per tutto ben muniti
Del sigillo e fè reale,
Che venir ogni animale
E tornar potrebbe esente
Dalla zampa e dal suo dente.
Si vedevan comparire
Alla corte di quel sire
Con gran fretta gl' inviati,
Che ben tosto fur guidati
All' oscura stanza interna
Della regia sua caverna.
Venne alfin la volpe accorta:
Ella guarda; ver la porta
Vede l'orme varie molte
Tutte quante esser rivolte,
Nè sol una che indicasse
Piede mai che ritornasse:
A tal vista ella s'arresta,
Pensa, dice: cos'è questa?
Entri pur chi vuol l'onore
D'inchinarsi al gran signore;
Ch' io no 'l curo: ei sarà buono;
Ma star lungi Ora dal trono
Meglio fia; che qui l'entrare
Ma l'uscirne non appare.

LVII.
L'Asino che porta l'idolo

Un somaro in una via
Giva un idolo portando:
Molta gente lo seguia,
Inni, e cantici cantando.
    Egli andava pettoruto,
E con alta testa fiera;
Chè stimavasi dovuto
Quell' onor che suo non era.
    Un s'accorse dell'inganno,
E gli disse: a te, babbione,
Queste lodi non si danno;
Sol tu meriti un bastone:
    Un baston per abbassarti
Quella testa sciocca e vana,
Un baston per risanarti
Da cotesta pazzia strana.

    Tal fra noi sovente ancora
Venerarsi un uom si vede;
Sol la spoglia in lui s' onora,
Nè superbo ei sen' avvede.

LVIII.
L'Avaro

Se potesse i giorni mioi
L'oro accrescere, vorrei
Ammontar l'oro sull oro;
E col darle il mio tesoro
Rimandar vorrei la morte,
Se venisse alle mie porte:
Ma se l'ora nulla vale
Per tardar l' ora fatale,
A me par di se nemico
Chi fra l' or vive mendico.

   Un avaro possessore
D'un tesoro, per timore
Che gli fosse in casa tolto,
Lo tenea sempre sepolto
In un campo, e seco il core;
Seco il cor, chè a tutte l'ore
Colla sua gelosa mente
Al tesor era presente.
Come spesse volte il giorno
A contarlo fea ritorno,
Un villan che il vide, cosa
Sospettò ch'avesse ascosa;
Onde accorto il tempo attende:
Va, lo cerca, trova, prende;
Nè l' avaro non imita,
Che aspettava un'altra vita
Per goderlo; ma con quello
Corre a darsi il tempo bello.
   Mentre l'uno tresca e ride,
Venne l'altro; e quando vide,
Che gli manca il suo denaro
Della luce a lui più caro,
Qual da fulmine colpito
Ei rimase tramortito;
Indi piange, geme, grida.
Un viandante alle sue strida
Corre, e dice: Quale danno
Ti dà mai si grave affanno?
Un tesoro m' àn rapito . . .
Un tesori dove? . . . in quel sito . . .
In quel sito? siamo in guerra
Per nasconderlo sotterra?
E perchè non ritenerlo
Tecoin casa per averlo
Nei bisogni a te vicino
Senza lar tanto cammino? . . .
Meco in casa? qui lontano
Men temevo la mia mano,
Che il denar, qual va, non viene,
E chi nea', fa ben, se il tiene.
   Alfin l'altro: Ma che importa
Disperarti, s' era morta
Quella somma, e un sasso messo
Da te in vece, fia ristesso!

LVIX.
Il Marito, le Moglie, e 'l Ladro

Unmarito era dolente
Nel veder indifferente
La sua moglie al grande affetto,
Che per lei sentiva in petto,
Nè potea molto ne poco
Quel suo gel cangiar in fuoco.
Ben è ver, per dir il tutto,
Ch'ei godea d' amor il frutto;
Ma l' imene seaz' amore,
Non consola, affligge un coro.
Pure questi a tanta fede
Volle alfine dar mercede.
Era notte: spentoli lume
Stavan essi sulle piume:
S'ode un ladro; eli' à paura,
E cercando esser sicura,
S'avviticchia stretta e forte
Petto a petto al suo consorte.
Ladro amico, ei disse allora,
Prendi tutto, e casa ancora;
Per te provo in tal momento
Il maggior d'ogni contento.
Da quel punto fù la sposa
Verso lui sempre amorosa.

LX.
I Tori combattenti, e le Rane

La più terribil guerra,
Che fosse mai su terra,
Ardea fra due campioni;
Nè furono cagioni
D'impero, nè d'onore,
Ma gelosia d'amore,
Che mosse quei rivali
Ai colpi aspri e mortali:
Gl' indomiti guerrieri
Eran due tori altieri,
E l'Eena novella
Una giovenca bella.
Per essa ingelositi
D'orribili muggiti
Empiendo il piano e 'l monte,
Cozzavan fronte a fronte,
E cento volte e cento
Tornaron al cimento.

    Le rane paurose
Fra le lor canne ascose
Vedean la pugna atroce,
Quand' una in mesta voce
All' altre prese a dire:
Oimè! vorrei mentire;
A noi la crudel sorte
Minaccia straggi e morte:
Il toro vincitore
Vorrà solo e signore
Regnare coll' amica
Nella campagna aprica;
E fra pantani il vinto,
Per non restar estinto,
Abbandonando il campo,
Qui cercherà lo scampo.
Allor noi poverine
Vedrem la nostra line;
Che da lui calpestate
Morrem tutte schiacciate.

    Qual disse, il fatto avvenne.
Un d' essi non sostenne
Dell'altro i cozzi crudi,
E fugge alle paludi
Il perditor scornato,
Confuso, disperato,
Che vede il vincitore
Felice possessore
Di lei ch' era cagione
Della fatal tenzone.

   Al suo venir s'intana
Sollecita ogni rana:
Ma il toro lor calpesta
Or zampe, or lombi, or testa;
E furo in pochi giorni
Negli umidi soggiorni
Molte ferite, e molte
Pria di morir sepolte.

Ah! quando un re delira,
Il popol ne sospira.

LXI.
La Montagna partoriente

Un di gli abitatori
Di tutta una campagna
Accorsero ai stridori
Di gravida montagna,
E speran tutti attenti
Vedere gran portenti.
   Sarà qualche gigante,
Alcun di lor diceva;
Un altro, un elefante;
E chi veder credeva
Uscir dal sen profondo
Un regimento al mondo.
   Alfin la partoriente,
Non senza gran dolore,
In vista a quella gente
Ripiena di stupore,
Secondo parla Esopo,
A partorito un topo.

   Molti cervelli vani
S'odono far talora
Di questi parti strani:
D'uno scrittor ancora
Pomposo è l'argomento;
Ma qual la fin? sol vento.

LXII.
La Leonessa e l'Orsa

Da un'astuto contadino
Fu rapito un leoncino
A sua madre leonessa;
E costei turbata, oppressa
Dal dolore, notte e giorno
Assordava tutte intorno
L'ime valli e le foreste.
Colle grida sue funeste;
E al lugubre suo ruggire
Mai nissun potea dormire.
   Finalmente a confortarla
Venne l' orsa, e si le parla:
Senti, amica, una parola.
Quanti mai per la tua gola
Pargoletti son entrati?
Pur avean quei sventurati
Le lor madri; e, come sai,
Non turbaron quelle mai
Colle lor grida indiscrete
Il tuo sonno e la tua quiete;
E quel pianger senza fine
Disconviene alle regine . . .
   Ch' io non pianga! e come, oh Dio
O' perduto il figlio mio,
La mia speme, il mio conforto.
Chi dirà ch' io pianga a torto? . . .
Ma che giova disperarti,
E tu stessa condannarti . . . .
Non son' io che mi condanno,
Ma il destino mio tiranno.

   Di noi tutti le querele
Queste son: il ciel crudele
Non parrebbe, ma clemente,
A chi avesse Ecuba in mente.

LXIII.
Il Lupo e i Pastori

Un lupo penitente
Avendo fisso in mente
Di riformar la rea
Sua vita, un di dicea:
Io son, ahi! che dolore!
Io son l'odio, l'orrore,
Di chi? di tutto il mondo.
E qui un sospir profondo,
E un urlo fece udire;
Indi riprese a dire:
   È pur crudel la sorte
D'un lupo: alla sua morte
E cani, e cacciatori,
E rustici, e pastori,
Intenti sempre sono
Senza pietà e perdono,
E sol perchè tal ora,
Che fame lo divora,
E fame non à legge,
Ei scema il loro gregge
D'un can magro e stizzoso,
O d'un agnel scabbioso.
Or ogni mio potere
Per farmi ben volere
Farò: prometto e giuro
Che fìa sempre sicuro
E illeso dal mio dente
Ogni animai vivente;
E tutta la mia vita
Vivrò, qual eremita,
Sol d'erbe e di radici,
Per non aver nemici:
E se ne manco, allora
Di fame pur si mora;
Che morte è minor male
Dell' odio universale.
   Così dicendo, ei crede
Veder, anzi pur vede
Sette pastori, i quali
Pranzavan commensali
Spolpando un pingue agnello
Ben cotto e tenerello:
Oh! oh! disse, gli umani,
Qual noi, sono inumani,
E fanno quello ch' essi
Vorrian ch' io non facessi!
Orsù, scrupoli, uscita
Dal cor, e via fuggite,
E vadan pur a' venti
Promesse e giuramenti.
O sorte, in questo istante
Fa ch' io ritrovi errante
Qualche animal lanuto,
Com'io, col dente acuto,
Protesto Giove e Bacco,
Di porlo nel mio sacco.
   Voi che precetti date,
Che gli altri consigliate,
Il vostro dir non giova,
Se il far lo disapprova.