Favole V.
 

Favole IV.
 
Il Gallo, il Cane, e la Volpe
La Lepre e la Testuggine
I due Ladri e l'Asino
Il Topo nella dispensa
Il Pavone mal contento
Il Leone e la Mosca
Il Ricco e 'l Sapiente
La Spada, e 'l Vomere
Astrea e la Tromba
Il Rosignuolo e 'l Cardellino
La Volpe, il Gatto, e 'l Ragno
Il due Colombi
La Mosca e la Farfalla
I Venti
Il Leone vecchio
L'Amore e la Pazzia
La Moglie vana e lo Specchio
La Fortuna e l'Avaro
I Medici
L'Asino e 'l Cavallo
La Mammola, le Rose, e Zeffiro

LXIV.
Il Gallo, il Cane, e la Volpe

Un par d'amici veri,
Il gallo, e l'altro il cane,
Volean per vie lontane
Veder lidi stranieri.
    Partiron, in quell' ora
Che con ridente aspetto
Dall' inamabil letto
Fuglia la bell' aurora.
    In una selva antica
Fur giunti, quando in cielo
Stendeva il fosco velo
La notte a' ladri amica.
    Ad una querce allora
I nostri viaggiatori
Insin' a' nuovi albori
S'avvisan far dimora.
    Il cane sott' a quella
Riposo e sonno prende;
Il gallo in cima ascende
A star in sentinella.
    Tutto tacea: soltanto
Quel vigile cantore
In quel notturno orrore
Apriva il becco al canto.
    L'ode una volpe, e pensa:
La sorte, se non sogno,
Intende il mio bisogno,
Provvede alla mia mensa.
    E corre al gallo in fretta;
Ma che farà? salire
Non può: sa ben mentire;
Onde così l'alletta:
    Tu come un cigno santi;
Che voce! pare un eco;
Deh! scendi, e vieni meco
A star alcun' istanti.
    Sol una canzonetta
Da te sentir vorrei,
E', se cortese sei,
Larga mercede aspetta.
    Alla volpina lode
Il gallo non si fida,
E con tal dir confida
Punir frode con frode:
    Al tuo desir mi rendo;
Ma un mio compagno desta,
Che là dormendo resta,
A terra mentre scendo.
    Egli è cantor perfetto,
Non gallo, ma cappone;
E non che una canzone
Saprai, ma un bel duetto.
    La volpe presta fede
A quel ch' ai denti giova,
E cerca e presto trova
Un altro, che non crede.
    Ben tosto alla sua tana
Colei fuggir volea;
Ma il can, che desto avea,
La segue, prende, e sbrana.

    L'ingannator felice
Bensì ride talora;
Ma vien l'istante ancora
Che piange l'infelice.

LXV.
La Lepre e la Testuggine

Alla testuggine
La lepre snella
Dicea burlandosi
In sua favella:
Ferma, riposati,
Stanca sarai,
Con quel tuo correre
Ti ammalerai:
Che i ladri rubino
A te dal dorso
La casa, dubiti,
E vai di corso.
    L'altra, non prendere,
Disse, tal cura,
Tu che sol celere
Sei per paura.
Ma vo' scommettere,
Che col mio passo
Pria di te giungere
Posso a quel masso.
    La lepre ridesi
Di tal disfida,
L'accetta, e vincerla
Presto confida,
E disse: corrasi
Tosto, sebbene
A te l' elleboro
Più si conviene.
    Non so che avessero
Tra lor scommesso,
So che partirono
Nel punto istesso.
    La prima accelera
L'andar suo lento
Senza interromperlo
Un sol momento:
E l'altra instabile
Tresca e saltella,
Or l'erba pascola
Fresca e novella,
Or sollazzevole
Quà e là s' aggira,
Or arrestandosi,
L'aura respira.
Ma presso al termine
La sua rivale
Vedendo, spiccasi
Come uno strale:
Ma non può giungere
Come si stima,
Chè la testuggine
Vi giunse prima,
E disse: correre
Più di me sai,
Ma pur di vincermi
Valor non ài.
Che giova l'essere
Leggero e snello,
Se il capo trovasi
Senza cervello?

LXVI.
I due Ladri e l'Asino

Un orribile contesa
Per un asino rubato
Fra due ladri s'era accesa:
Un di lor era ostinato
In voler che si vendesse;
L'altro no, ma si tenesse.
    Dal gridar vengon all'onte,
E da queste a crudel guerra;
E con mani audaci e pronte
Afferrati van a terra,
Dove dansi pugna, schiaffi,
Urti, calci, morsi, e graffi.
    Mentre stan entrambi attenti
A dar colpi, a far difese,
Qual due cani d'ira ardenti,
Venne un terzo ladro, e prese
Il somaro, e sopra quello
Monta e trotta via bel bello.
    Finalmente quei cessaro
Stanchi e fiacchi, dalle risse,
E vedendo il lor somaro
Via sparito, un di lor disse:
Mentre noi stiamo in contese,
Ride un terzo a nostre spese.

LXII.
Il Topo nella dispensa

Un topo scarno e snello,
Il qual nel suo cervello
Gran scienza aver credea,
Perche sempre vivea
Fra libri, volle un giorno
Cangiare di soggiorno;
E tacito e soletto,
Passando un buco stretto,
Dov'era una dispensa,
Pervenne: quivi pensa
Fermarsi, e non uscire,
Ma viver, e morire.
Il topolino smunto
Or gongola ivi giunto,
Che vede pe' suoi denti
Salami alto pendenti,
E lardo e mortadelle
E simil cose a quelle;
In pochi di grassetto
Divenne e ritondetto
Mostrando in apparenza
Ch'ei non vivea di scienza.
Ma come spesso avviene
Che il mal succede al bene,
Un di che dopo cena
Aveva l'epa piena,
Sentendo un gran rumore,
Sorpreso da terrore,
Al buco s' appresenta
E indarno passar tenta:
Crede ingannarsi, e spia
Se fosse un' altra via,
E va girando intorno,
E al buco fa ritorno.
E pur qui, disse, dove
Io venni, e non altrove;
E mentre ancor si prova
D' uscir, e non gli giova.
Da un ragno ivi presente
Cosi parlar si sente:
Convien, per quindi uscire,
Qual fosti divenire.

    Chi sol pensa al presente,
Nell' avvenir si pente.

LXVIII.
Il Pavone mal contento

In tal guisa il pavone
Lagnavasi a Giunone:
Io mal contento sono
Del canto, di cui dono
Credevi farmi, o Dea.
A me dar si dovea
Quello del rosignuolo,
Che conveniami solo.
Tu il vedi; quand' ei canta
La gente tutta incanta;
E fugge, se mi sente,
Da me tutta la gente.
Taci, la Dea con sdegna
Disse, animai indegno
D'aver la grazia mia;
Quel collo ti dovria
Bastar, che qual gentile
Di gemme bel monile
Ognun ammira e loda,
E quell' occhiuta coda,
Che allor tutti sorprende
Che in arco si distende.
Vuol Giove i pregi in molti
Divisi, e non raccolti:
Ebbe il falcone in sorte
L'esser leggero e forte;
L'aquila va col volo
Sublime all' alto polo;
Sa il corvo presagire,
La rondine predire;
E tu sei vago e bello
Sopra qualunque augello.
Or bada ch'io non t' oda
Lagnarti, che la coda
Strapparti t'assicuro,
E per lo stige il giuro:
Allora sì che in tutto
Sarai diforme e brutto.

LXIX.
Il Leone e la Mosca

Via di quà, mosca insolente,
Mi frastorna quel ronzio:
Il leon fioro potente,
Se nol sai, quello son io.
    Del tuo titolo reale,
Ell' a lui, mi burlo e rido:
Tu non sei che un animale,
E a pugnar meco ti sfido.
    Sì la mosca disse appena,
Che all'assalto spazio prende,
Vola in alto, e sulla schiena
Del nemico pria discende.
    E lo punge e lo molesta
Dove men egli si crede,
Or sul fianco or sulla testa,
Nè mai tregua gli concede.
    Il leon s'accende d'ira,
E dimena dente e zampa
Sempre in van, che si ritira
Ell'a tempo, e i colpi scampa:
    E con nuovo ardir ognora
Rivolando, al suo rivale
Nelle orecchie si trafora,
Nelle nati anco l'assale.
    Rugge, freme il leon stanco
Della lunga pugna strana,
E si sferza il debil fianco
Colla coda, e i' aria vana;
    Ei stramazza in sull' arena
Donde indarno sorger tenta,
E mancando d'ogni lena,
Per furor se stesso addenta.
   Ella disse: sei perdente,
E perchè tu riconosca,
O leon fiero e potente,
Chi ti vinse, io son la mosca.

    Nella forza por la speme
Non è sempre buon consiglio;
E con chi meno si teme,
Spesso v' è maggior periglio.

LXX.
Il Ricco e 'l Sapiente

Dun cittadini, un povero e sapiente,
Ricco l'altro, ma povero di mente,
    Erano in gran contrasto.
    Perchè dar lode alcuna
    Alle ricchezze, all'oro,
Che dispensa fra noi cieca fortuna?
Si disse il dotto. L'altro pien di fasto
Gli rispose: il saper non è tesoro.
    O voi, gente erudita
Non avete, qualnoi, corte bandita.
    Che giova avere letto
Tanti libri, se avete sotto il tetto
La vostra stanza, e sempre voi portate
Il vestito d'inverno anche l'estate?
    Nè di servi uno stuolo
    Vi seguita, ma solo
L'ombra vostra. Colui che molto spende,
    Al regno util si rende:
    Il come non importa;
Mantiene il piacer nostro tanti e tanti
    Artegiani, e mercanti,
E chi fa le gonnelle, e cui le porta,
    E voi che dedicate
A noi ricchi quei libri che stampate,
    Che in ver tediosi sono,
E pur n'avete gran mercede in dono.
    A tai voci ingiuriose
    Il dotto non rispose;
Avea troppo che dir: ma più la guerra,
    Che satira mordace,
    Lo vendicò. La pace
Marte venne a turbar nella lor terra,
    Ed arse le lor case:
Ambi a fuggir costretti, quei rimase
Privo d'asilo; e ricevea favori
Questi dovunque andasse, e doni, e onori.
La lite ebbe tal fin. Quindi s' apprende,
    Che l'opulenza gracchia,
    Come fa la cornacchia,
Contro il saper, che di sua luce splende.

LXXI.
La Spada, e 'l Vomere

La spada fiera, intrepida,
Un giorno, che aggiravasi
Nei campi, vide il vomere,
A cui vicina fattasi,
Così prese a discorrere:

    Quanto compiango, o misero,
Questo tuo stato ignobile!
Vivi fra gente rustica
Nel fango e nella polvere.
A me dato è risplendere,
In mano a Marte, a Pallade;
Imito il lampo, il fulmine;
Per me talor, si veggono
Fiumi di sangue scorrere,
E monti di cadaveri
In mezzo a' campi sorgere,
E posso ancor imponere
Giogo servile a' popoli.
    Abborro, quel risposele,
Con quel tuo fasto barbaro
Nel sangue umano intiagerno:
M' è caro il viver u mile,
E sel aspiro al merito,
Rendendo i campi fertili,
D' esser altrui giovevole.

LXXII.
Astrea e la Tromba

    Dalle celesti sfere
Astrea di noi pietosa in terra scese;
    Punir l'armi guerriere
Ella volea dell' infinite offese,
    Onde cotante genti
Dello stige varcar l'acque bollenti.

    Fece un rogo la Dea,
Che ad un suo cenno il fulmine tonante
    Accendere dovea.
Le spade, l'aste, e l' armi tutte quante
    Di sangue ancora tinte
Eran condotte a rimanervi estinte.

    Esse aspettar la morte
Parean con vista intrepida e feroce:
    A quella stessa sorte
Venia la tromba, che con flebil voce:
    In che son rea, se mai,
Disse, stilla di sangue non versai?

    Non vai la tua ragione,
Rispose Astrea; se sangue non spargesti,
     Alla crudel tenzone
Col suono eccitator l'armi movesti;
    E al par del malfattore
Pecca, e punir si de' l'instigatore.

    A questo dir la tromba
Segue l'armi omicide, e 'l rogo ascende.
    Dal cielo che rimbomba
Si precipita il fulmine, e l'accende:
    Distrasse la vorace
Fiamma quell' armi, e n' ebbe il mondo pace.

LXXIII.
Il Rosignuolo e 'l Cardellino

Un fanciullin udiva
Del rosignuolo il canto;
E al bosco, donde usciva
La voce, gli occhj intanto
Volgeva, desioso
Di scorgere dov' era
Quel dolce melodioso
Cantor di primavera.
Lo vede tra le fronde,
E vede a lui vicino
Che ancora si nasconda
Un vispo cardellino,
E questo egli credea
L'augel cantor che fosse,
Chè vaghe piume avea
E bianche e gialle e rosse,
E disse: L'augelletto,
Che va col canto al coro
È questo; l' altro inetto
Mi par al brun colore:
Le penne sue son belle,
Ma belle a meraviglia,
E 'l dolce canto a quelle
Appunto s'assomiglia.
A questo dir, a volo
Vede l' augel ch' ei vanta
Fuggir, e 'l rosignuolo
Ode, che dolce canta.
Allor egli si trova
Confuso nel vedere,
Che l'abito non prova
Né 'l inerto nè 'l sapere.

LXXIV.
La Volpe, il Gatto, e 'l Ragno

Una volpe, e seco un gatto;
Per un voto ch'avean fatto,
Sene gian senza contanti
Visitando i luoghi santi,
E parlavan sol tra via
Dimoral filosofia;
E colei che ne sapeva
Più del gatto, si diceva:
Se facesse ogni animale
Solo il ben, e non il male,
Oh che vivere giocondo!
Quanto bel sarebbe il mondo!
Ma l'opposto spesso avviene;
Fanno il mal, e non il bene:
E pur troppo oimè! si vede
Che ragion a forza cede.
Così l'altro: quanto dici
Tutt' è vero; fra nemici
Noi vivendo sempre inquieti
Non possiamo esser mai lieti.
Ma che fare? gente onesta
Siamo noi, che non molesta
Colla lingua, nè col dente
Nissun' anima vivente.
    Disse, e vedono un feroce
Lupo correre veloce
Verso un pover' agnellino:
Indi vedon l'assassino;
Che l'assale, che lo strozza,
Che lo spolpa, e che l' ingozza:
Ah ribaldo! ah malfattore!
Disser questi, ah traditore!
Come mai sì grande e forte
Dar al debole la morte?
Colui pare un infingardo,
Che a rubare non è tardo,
Che sprezzando onor e fama
Di rapine sol-si sfama.
    I zelanti pellegrini
Tanno, e vedono vicini
D'un casale i rozzi tetti:
Quì fermarsi, e ne' lor detti,
Abborrendo il prepotente,
Compiangevan l'innocente.
Ma la volpe una gallina
Nel veder le s'avvicina,
La sorprende, addenta, e sbrana,
E nel ventre sela intana:
E quel gatto in quell' istanto
Corre a un topo che tremanto
Al suo buco si rifugia,
E l'azzampa, e lo trangugia.
    Sopra un albero vicino
V' era un ragno: il capolino
Ei facea per udir quelli
Due devoti santarelli;
Mascorgendone le azioni,
Si proruppe: Che bricconi!
Quanto sono scellerati?
Ah' quì fossero impiccati,
E squartati adesso adesso
Senza forma di processo.
Disse appena, e mover sente
La sua tela; immantinente
Ei la mosca prende in fretta,
E le sugge, mentre stretta
Fra le zampe sela tiene,
Sangue e vita dalle vene.

Tale un uom condanna spesso
Fuor di se quel che à in se stesso.

LXXV.
Il due Colombi

Amanzi fidi e teneri,
Scrivo per voi la favola
Di due colombi giovani,
Che quale voi s' amavano.

    Un d'essi, per apprendere,
Voleva il mondo scorrere:
Crudele, l'altra dissegli,
Dunque vorrai dividerti
Da lei che non sa vivere
Se di te priva vedesi:
Almen temi i pericoli
Del verno, e che ritornino,
Aspetta, i dolci zaffiri.
Orora un corvo, credimi,
Predisse casi orribili.
   Quante funeste immagini
Avrò sempre nell' animo,
Or avvoltori, or aquile.
Or dardi, or reti, or trappole,
Ora te bisognevole
Di vitto e di ricovero;
Nè ti potrò soccorrere.
    Un tal discorso mosselo;
Ma pur l'umore discolo
Lo vinse; e sì risposele:
Ormai cessa di piangere;
Tre giorni sol mi bastano.
Quelli che nulla vedono,
Di nulla san discorrere.
Io tornerò sollecito
A farti consapevole
Di tutto quel che avyennemi,
E si saprò dipingerlo,
Che crederai tu d' esservi.
    Non senza pianti e gemiti
Alfin addio si dissero.
Ei parte: il ciel s' annuvola;
Ei cerca ove ricoveri;
E sol ritrova un albero,
Il quale mal difendelo
Dal nembo e dalla grandine.
    Il cielo rasserenasi;
Ei freddo, molle e debole,
Dopo gran tempo attendere
Che asciutte l'ali fossero,
Rivola, e vien a scendere,
Dove un zimbello adescalo.
E sceso appena, sentesi
Da infida rete avvolgere.
Coll' ali allor dibattesi,
Le zampe, il becco adopera,
E tanto fa che rompere
Vale le fila logore,
E via sen vola libero,
Qual prigioner che fuggesi
Tremante dalla carcere.
    Ma fe' il destino barbaro
Che un avvoltare videlo,
E mentre vola celere
Per farne preda, un' aquila
Piombando dalle nuvole
Su questo si precipita.
Fra lor mentre combattono
Que'due nemici, ei salvasi
Vicin a un tetto rustico,
Dove de' mali l' ultimo
Aver sofferto credesi,
Quand' ecco in aria stridere
Pennuto strale rapido,
Che un villanello scoccagli,
E lievemente offondelo.
    S'invola tosto il misero,
Il quale alfin pentitosi
Del suo desir volubile,
Egro, dolente, e languido
Torna a sedar i palpiti
Della compagna amabile,
Per mai non scompagnarsene.

Amanti fidi e teneri,
Se di viaggiar dilettavi,
Ite alle sponde prossime
D'un fiumicello limpido,
Là dove l' onda mormora:
Là dove i pesci guizzano;
Ite fra l'ombre placida
D' un bosco, dove votano
Mille augelletti garruli,
Dove tra frondi tremolo
I zeffiri susurrano;
E senza mai dividervi,
Il bello e 'l dilettevole,
Che molti errando cercano,
Trovate in voi medesimi.

LXXVI.
La Mosca e la Farfalla

Vide la mosca appena
Una di miei ripiena
Tazza, che vola a quella
Sull' orlo agile e snella,
E libane il liquore,
Che si le tocca il core,
Che per tuffarvi il naso,
Ingorda entra nel vaso:
Uscir indi voleva,
E tal si dibatteva
Colle sue forze frali,
Che alfin v'invesca l' ali.
    La mosca mal accorta
Si tiene allor per morta,
S'affligge, si dispera:
Vedrò l' ultima sera,
Dicea: Sorte crudele,
Mi fai morir nel miele!
    Una farfalla udiva
Costei tra morta e viva
Doleriti amaramente,
E disse: Un' accidente
T' avvenne pur fatale;
Ma che? tu del tuo male
Sei sola la cagione:
Chi fugge la ragione,
E segue il suo desio
Alfine paga il fio:
Alla ragione sorda
Tu fosti, e sempre ingorda . . . .
Volea più dir, e mira
Un lume; a quel s' aggira
Volando intorno intorno,
Si scosta e fà ritorno,
E tanto s'avvicina,
Che alfine la meschina
S' abbraccia, e incenerita
Usci da questa vita.
    La mosca prigionera
Che morta ancor non era,
S'udì con questi detti
Parlar: i suoi difetti
Doveva pur colei
Corregger pria che i miei.

Or alla musa mia
Il dir permesso sia,
Che in seno del piacere
Sperando molti avere
Felice e lieta sorte,
Vitiovano la morte.

LXXVII.
I Venti

In un antro radunati
Tutt' i venti, ch' eran stati,
Chi sul mar, chi sulla terra,
A far aspra e crudel guerra,
Rumorosi e trionfanti
Raccontavano i lor vanti:
    Chi nel mar avea sommerse
Molte navi, altre disperse;
Chi alle messi, chi alle viti
Fatti avea danni infiniti;
Altri a terra le' cadere
Mura, torri, e case intere;
Altri fe' crollar uri monte,
E affondar nel fiume un ponte.
Ma fra questi il vento Moro
Si vantava con dir loro:
    Vidi un'uomo gravemente
Camminar qual presidente;
Gli soffiai nella perrucca,
E 'l suo capo restò zucca:
Quella vola, e da lui scappa;
Ei la segue, e non la chiappa,
E, intoppando nella strada,
Stramazone avvien che cada.
Nel veder galante donna,
Le sbuffai solto la gonna,
E fei sì, che al giorno espose
Le bellezze sue nascose,
Tal che mosse molti a riso
Lo spettacolo improvviso:
Di rossor ella si ti use,
E le gambe insieme strinse.
    Mentre il monte cavernoso
A quel dire strepitoso
Risonava in ogni parte,
Stava zeifiro in disparte:
Questi amico sol di pace,
Lor non bada e sempre tace;
Pur chiamato a dir le cose
Da lui fatte, sì rispose:
    Fù mia sola dolce cura
Or cercare l'onda pura
De' ruscelli, e valli erbose,
Colli ameni, e selve ombrose;
Or temprar gli estivi ardori
Alle ninfe ed ai pastori;
Or sul fiume, ora sul prato
Col mio lieve dolce fiato
Increspar facevo l'onde.
Tremolar le verdi fronde,
E l'erbette, e i vaghi fiori;
E rapirne i varj odori
Per portarli meco a volo,
E di tanti farne un solo.
A tal dire quei perversi
Con dispetto a lui conversi
Gli sbuffaron tutti in volto:
Dal furor insano e stolto
Bisognò eli' egli fuggisse,
E dall' antro uscendo, disse:
Ah malnata gente avvezza
A malfar, che i buoni sprezza!

LXXVIII.
Il Leone vecchio

Un leon cadente, annoso,
Da gran tempo pollagroso,
Del suo mal non che guarrire,
Ma volea ringiovinire.
Crede un re quel che desia,
Che possibil tutto sia;
Onde tosto ei fe' sapere
Da per tutto il suo volere:
E venivan d' ogni parte
Quei che uccidon più che Marte;
Vale a dir, operatori,
Alchimisti, e ciurmatori.
    Sol la volpe queta e quatta
Star solea nella sua fratta,
Nè a trovar venne il leone.
Colse il lupo l'occasione,
Com' è l'uso di tal gente,
D' accusar la volpe assente.
A cercar il re la manda;
E che venga, le comanda.
Ella viene; dell'accusa
Consapevole, si scusa
Con tal dir: Sire, perdono,
Se a venir io tarda sono.
Volli prima tutti quanti
Visitar i luoghi santi,
E pregar Giove, che in voi
Un buon re conservi a noi.
Io conobbi ne' miei viaggi
Gran dottori, esperti, e saggi:
Lor descrissi, tal e quale
Voi l'avete, il vostro male;
E son tutti d' un parere,
Che convien, per riavere
Il calore primitivo,
Scorticar un lupo vivo,
E coprirvi nell' istante
Nella pelle ancor fumante.
Sol al lupo il grande onore
Di campar il suo signore
Si riserba, e l' opra è tale,
Che può renderlo immortale.
    Il rimediò fu approvato:
Preso il lupo è scorticato,
E 'l leon ravvolto allora
Nella pelle, almen un' ora
Vi rimase, e delle polpe
Cenar volle colla volpe.

    Voi che per favor di sorte
V' innalzate nella corte,
Sempre in vece d' accusarvi,
Procurate di giovarvi:
Se no 'l fate, la vendetta
Tende l'arco, e il tempo aspeta.

LXXIX.
L'Amore e la Pazzia

La faretra, l' arco, i strali
Dell' Amor, la face, l'ali,
E l' età sono misteri,
Che a spiarne i sensi veri
Opra lieve a me non pare;
E mi giova sol narrare,
Come cieco egli divenne,
E dir quel che quindi avvenne,
Forse un bene, forse un male,
Ch'io non so decider quale,
E chi segue il nn m e arciero,
Ne fia giudice più vero.

    Coll' Amore la Pazzia
Stava un giorno in compagnia,
E trescavan: ecco accesa,
Non so come, gran contesa.
Per decider tanto affare,
Volle Amore convocare
A consiglio tutt'i Dei:
Imperversa allor colei,
E percossa tal gli assesta,
Che di luce privo ei resta.
Grida Venere vendetta;
Su nel cielo corre in fretta:
Donna, e madre si decida
Quali fosser le sue strida.
Giove, Nemesi, e Minosse
Non v' è Dio, ch' ivi non fosse,
Fur storditi tutti quanti
Dalle sue querele e pianti:
Ella il caso enorme spiega,
Geme, piange, grida, prega,
Non poteva, disse, il figlio
Di cader senza periglio
Far un passo, nè mirare
Le fanciulle a lui sì care.
    Quel de' Numi alto congresso,
Dopo aver molto riflesso
Al delitto, al bene, al male,
Dal supremo tribunale
Si decise: la Pazzia
Dell' Amore guida sia.

LXXX.
La Moglie vana e lo Specchio

Una moglie vanarella
Nel lisciarsi, e farsi bella,
Consultava l' ore intere
Il suo vetro consigliere.
Il qual, muto benchè fosse,
Pur la voce un giorno mosse
E le disse: Per qual fine
Per ornarti e volto e crine
Tanto tempo meco stai?
Tuo marito, come sai,
Di quel bello sol si cura
Che ti diede la natura.
Se tu fossi ancor fanciulla,
Ben saprei quel che ti frulla
Nel cervello; ma no 'l sei,
E saperlo pur vorrei,
E dovresti a me fidarlo,
Che odo, vedo, nè mai parlo.
    A te sol, ella rispose,
Vo' svelare queste cose,
Che nasconder cautamente
Deve in seri donna prudente;
E dirò, che se la sorte
Mi provvide d'un consorte,
Pur m' è caro, s' altri ancora
Del mio volto s'innamora.

LXXXI.
La Fortuna e l'Avaro

Molti si sdegnano
Colla fortuna,
Che a un sol benefica
Tanti gli aduna
Titoli, onori,
Gemme, tesori;
    Mentre ella mostrasi
A tanti avara,
Che per lei vivono
In sorte amara
Sempre dolenti
Fra pene e stenti.
    Molti s' affannano
Per ritrovarla;
Corrono e sudano
Per afferrarla,
E tener stretto
Quel suo ciuffetto.
    Della volubile
Sua ruota in cima
Altri ritrovasi;
E quando stima
Viver giocondo,
Ei cade al fondo.
    Con un affabile
Volto sereno
Talora vedesi;
E qual baleno
Fra nube oscura,
Passa e non dura.
    Ma pur colpevole
Come altri crede,
Ella non sembrami;
E l'uom si vede,
Che a se procura
La sua sventura.
    Or per difenderla
Contra coloro,
Che mal l'accusano
Dei falli loro,
Un' istorietta
Da me fia detta.

Sempre lagnavasi
Un'uom avaro,
Qual fosse povero,
Perchè denaro,
Quanto voleva,
Ei non aveva.
    Solo fra inospiti
Lidi remoti
Spesso aggiravasi,
E caldi voti
A questa Dea
Porger solea.
    Un giorno apparvegli
Ella ridente,
E favellandogli
Cortesemente
Disse: A quel monte
Alza la fronte.
    Vedi le orribili
Profonde valli,
Torrenti rapidi,
Scoscesi calli,
Nevi, pruine,
E sassi, e spine.
    Là sù si trovano
Arene d' oro:
Va, cerca, prendine,
Fanne un tesoro;
Ma sempre attento
Cammina, e lento.
    Disse, e dileguasi.
Ei tosto ascende
Quel monte altissimo,
Sin dove splende
Il bel metallo
Lucido e giallo.
    S'alfretta, e scordasi
Del buon consiglio;
Le arene accumula,
E al gran pe iglio
Putito non bada,
E avvien che cada;
    E capitombola
Entro una valle,
Dove, rompendosi
E gambe e spalle,
Estingue in Lete
D'oro la sete.

Torno a ripetere
Che l' uom è spesso
Di sue disgrazie
Fabro a se stesso,
Nè la fortuna
A colpa alcuna.

LXXXII.
I Medici

Un uom gran fede avea
Nei medici, o credea
Di viver lungamente
Mercè di questa gente,
A cui solea pagare
Le visite ben care.
    Ma pur gli venne un male,
Che mai si seppe quale.
Costor, che aveano in seno
Ippocrate e Galeno,
E sulla rasa zucca
La dottorai perrucca,
Essendo in disparere
Tra lor, ciascun avere
Ragion voleva, e 'l torto
Alfin cadde sul morto.

LXXXIII.
L'Asino e 'l Cavallo

Chi bevè al castalio fonte
La caduta di Fetonte
Canti pur: a me fìa caro
Narrar quella d'un somaro.

    Quando torna il vago aprile,
Quand' ai campi dall' ovile
Liete van le pastorelle
A condur le pecorelle,
Quando cantan gli augelletti
Nelle selve amorosetti,
Un destriero in sua balia
Giva errande in una via,
Or da questo, orda quel lato,
E si vide a fronte un prato
D' erbe verdi e fiori adorno,
Ma da un fosso cinto intorno.
    A tal vista egli si sente
Stimolar da fame il dente,
E spiccando un salto snello
Si ritrova in sul pratello,
Dove pasce le odorose
Molli erbette rugiadose.
    Un somaro presontuosa,
Che lo vide, fu bramoso
Di mostrar il suo valore:
Ancor io son saltatore,
Disse, alzando la sua testa;
A quel gioco già s'appresta,
Corre, salta, e grande e grosso
Fece un tonfo in mezzo al fosso.

Pria l'impresa ognun maturi,
E le forze sue misuri.

LXXXIV.
La Mammola, le Rose, e Zeffiro

Fiorir vedevasi
Nel verde aprile
Un' umil mammola
Vaga e gentile,
Che non curandosi
Di parer bella
Tra l' erbe stavasi
Qual verginella.
    La vide zeffiro,
E nel suo core
Per lei sentendosi
Un puro ardóre,
Con ali timide
Appena egli osa
L' erbetta smovere
Dov' è nascosa.
    Indi si videro
Fiorir le rose,
Che, appena spuntano,
Son baldanzose;
E queste prodighe
De' lor favori
Tutte l' invitano
Ai lor amori.
    L'incauto giovine
A lor sen vola;
Riman la mammola
Negletta e sola:
Tra lor qual discolo
Ei si solazza,
Sempre volubile
Quà e là svolazza.
    Ma pur accorgersi
Dovette alfine,
Glie queste avevano
Acute spine,
Spine che il punsero
Acerbamente;
Onde tra spasimi
Vivea dolente.
    Ei l'ali movere
Più non potea,
Oppresso e languido
Al suol giacea;
E se mancavagli
L'arte d'Apollo
Ben dava il misero
L' ultimo crollo.

    L'amar è lecito;
Ma sia l' oggetto
Modesta vergine
D'un puro affetto:
E se presentasi
O guancia, o bocca
Tinta di porpora,
Mira, e non tocca.