Die Fabeln ins Deutsche übertragen.



Favole II.
 



 
Leonardo di ser Piero da Vinci

(Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519)
è stato un ingegnere, pittore e scienziato italiano.

Uomo d'ingegno e talento universale del Rinascimento, incarnò in pieno lo spirito della sua epoca, portandolo alle maggiori forme di espressione nei più disparati campi dell'arte e della conoscenza.
Si occupò di architettura e scultura, fu disegnatore, trattatista, scenografo, anatomista, musicista, progettista e inventore.
È considerato uno dei più grandi geni dell'umanità.

L'autore

Leonardo da Vinci, pittore, scultore, architetto, scrittore, ingegnere, nacque a Vinci (Firenze) nel 1452. Nel 1469 entrò nella bottega di Verrocchio. Nel 1482 fu chiamato alla corte di Ludovico il Moro a Milano. Dopo l'invasione francese di Milano nel 1499 lavorò a Mantova, Venezia, Firenze, Roma. Nel 1517 fu invitato alla corte francese da Francesco I. Morì nel 1519 a Cloux, presso Amboise.


Quelle der Fabeln: ©Bibliotheca Augustana
 
Favole I.
 

Favola I.
Il ligustro e il merlo


I' rovistrice, sendo stimolato nelli sua sottili rami, ripieni di novelli frutti, dai pungenti artigli e becco delle importune merle, si doleva con pietoso rammarichio inverso essa merla, pregando quella che poi che lei li toglieva e sua diletti frutti, il meno nolle privassi de le foglie, le quali lo difendevano dai cocenti razzi del sole, e che coll'acute unghie non iscorticasse [e] desvestissi della sua tenera pella.
A la quale la merla con villane rampogne rispose: »O taci, salvatico sterpo. Non sai che la natura t'ha fatti produrre questi frutti per mio notrimento? Non vedi che se' al mondo di tale cibo? Non sai, villano, che tu sarai innella prossima invernata notrimento e cibo del foco?« Le quali parole ascoltate dall'albero pazientemente non sanza lacrime, infra poco tempo il merlo preso dalla ragna e colti de' rami per fare gabbia per incarcerare esso merlo, toccò, infra l'altri rami, al sottile rovistrico a fare le vimini della gabbia, le quali vedendo esser causa della persa libertà del merlo, rallegratosi, mosse tale parole:
»O merlo, i' son qui non ancora consumata, come dicevi, dal foco; prima vederò te prigione, che tu me brusiata.«


Favola II.
L'alloro, il mirto, il pero


Vedendo il lauro e mirto tagliare il pero, con alta voce gridarono: »O pero, ove vai tu? Ov'è la superbia che avevi quando avevi i tua maturi frutti? Ora non ci farai ombra colle tue folte chiome.« Allora il pero rispose: »Io ne vo coll'agricola che mi taglia, e mi porterà alla bottega d'ottimo sculture, il quale mi farà con su' arte pigliare la forma di Giove iddio, e sarò dedicato nel tempio, e dagli omini adorato invece di Giove, e tu ti metti in punto a rimanere ispesso storpiata e pelata de' tua rami, i quali mi fieno da li omini per onorarmi posti d'intorno.«

Favola III.
Il castagno e il fico

Vedendo il castagno l'uomo sopra il fico, il quale piegava inverso sé i sua rami, e di quelli ispiccava i maturi frutti, e quali metteva nell'aperta bocca disfacendoli e disertandoli coi duri denti, crollando i lunghi rami e con temultevole mormorio disse: »O fico, quanto se' tu men di me obrigato alla natura! Vedi come in me ordinò serrati i mia dolci figlioli, prima vestiti di sottile camicia, sopra la quale è posta la dura e foderata pelle, e non contentandosi di tanto beneficarmi, ch'ell'ha fatto loro la forte abitazione, e sopra quella fondò acute e folte spine, a ciò che le mani dell'homo non mi possino nuocere.« Allora il fico cominciò insieme co' sua figlioli a ridere, e ferme le risa, disse: »Conosci l'omo essere di tale ingegno, che lui ti sappi colle pertiche e pietre e sterpi, tratti infra i tua rami, farti povero de' tua frutti, e quelli caduti, peste co' piedi e co' sassi, in modo ch'e frutti tua escino stracciati e storpiati fora dell'armata casa; e io sono con diligenza tocco dalle mani, e non come te da bastoni e da sassi.«

Favola IV.
La farfalla e la fiamma della candela

Non si contentando il vano e vagabondo parpaglione di potere comodamente volare per l'aria, vinto dalla dilettevole fiamma della candela, diliberò volare in quella; e 'l suo giocondo movimento fu cagione di subita tristizia; imperò che 'n detto lume si consumorono le sottile ali, e 'l parpaglione misero, caduto tutto brusato a piè del candellieri, dopo molto pianto e pentimento, si rasciugò le lagrime dai bagnati occhi, e levato il viso in alto, disse: »O falsa luce, quanti come me debbi tu avere, ne' passati tempi, avere miserabilmente ingannati. O si pure volevo vedere la luce, non dovev'io conoscere il sole dal falso lume dello spurco sevo?«


Favola V.
La noce e il campanile

Trovandosi la noce essere dalla cornacchia portata sopra un alto campanile, e per una fessura, dove cadde, fu liberata dal mortale suo becco, pregò esso muro, per quella grazia che Dio li aveva dato dell'essere tanto eminente e magno e ricco di sì belle campane e di tanto onorevole sono, che la dovessi soccorrere; perché, poi che le non era potuta cadere sotto i verdi rami del suo vecchio padre, e essere nella grassa terra, ricoperta dalle sue cadenti foglie, che non la volessi lui abbandonare: imperò ch'ella trovandosi nel fiero becco della cornacchia, ch'ella si botò, che, scampando da essa, voleva finire la vita sua 'n un picciolo buso. Alle quali parole, il muro, mosso a compassione, fu contento ricettarla nel loco ov'era caduta. E infra poco tempo, la noce cominciò aprirsi, e mettere le radici infra le fessure delle pietre, e quelle allargare, e gittare i rami fori della sua caverna; e quegli in brieve levati sopra lo edifizio e ingrossate le ritorte radici, cominciò aprire i muri e cacciare le antiche pietre de' loro vecchi lochi. Allora il muro tardi e indarno pianse la cagione del suo danno, e, in brieve aperto, rovinò gran parte delle sua membre.

Favola VI.
La scimmia e l'uccellino

Trovando la scimia un nidio di piccioli uccelli, tutta allegra appressatasi a quelli, e quali essendo già da volare, ne potè solo pigliare il minore. Essendo piena di allegrezza, con esso in mano se n'andò al suo ricetto; e cominciato a considerare questo uccelletto, lo cominciò a baciare; e per lo isvecerato amore, tanto lo baciò e rivolse e strinse ch'ella gli tolse la vita.

È detta per quelli che, per non gastigare i figlioli, capitano male.


Favola VII.
Il salice, la gazza e i semi della zucca


Il misero salice, trovandosi non potere fruire il piacere di vedere i sua sottili rami fare ovver condurre alla desiderata grandezza e dirizzarsi al cielo - per cagione della vite e di qualunche pianta li era visina, sempre elli era storpiato e diramato e guasto - e raccolti in sé tutti li spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte alla immaginazione; e stando in continua cogitazione, e ricercando con quella l'universo delle piante, con quale di quelle esso collegare si potessi, che non avessi bisogni dell'aiuto de' sua legami; e stando alquanto in questa notritiva immaginazione, con subito assalimento li corse nel pensiero la zucca; e crollato tutti i rami per grande allegrezza, paren[do]li avere trovato compagnia al suo disiato proposito - imperò che quella è piùatta a legare altri che essere legata - e fatta tal deliberazione, rizzò i sua rami in[v]erso il cielo; attendea spettare qualche amichevole uccello, che li fussi a tal disiderio mezzano.

In fra' quali, veduta a sé vicina la sgazza, disse inver di quella: »O gentile uccello, per quello soccorso, che a questi giorni, da mattina, in e mia rami trovasti, quando l'affamato falcone crudele e rapace te voleva divorare; e per quelli riposi che sopra me ispesso hai usato, quando l'alie tue a te riposo chiedeano; e per quelli piaceri che, infra detti mia rami, scherzando colle tue compagne ne' tua amori, già hai usato, io ti priego che tu truovi la zucca e impetri da quella alquante delle sue semenze, e di' a quelle che, nate ch'elle fieno, ch'io le tratterò non altrementi che se del mio corpo generate l'avessi e similmente usa tutte quelle parole che di simile intenzione persuasive sieno, benché a te, maestra de' linguaggi, insegnare non bisogna. E se questo farai, io sono contenta di ricevere il tuo nidio sopra il nascimento de' mia rami, insieme colla tua famiglia, senza pagamento d'alcun fitto.«

Allora la sgazza fatto e fermi alquanti capitoli di novo col salice, e massimo che bissie o faine sopra sé mai non accettassi, alzato la coda e bassato la testa e gittatasi del ramo, rendé il suo peso all'ali, e quelle battendo sopra la fuggitiva aria, ora qua, ora in là curiosamente col timon della coda dirizzandosi, pervenne a una zucca, e con bel saluto e alquante bone parole, impetrò le dimandate semenze. E condottele al salice, fu con lieta cera ricevuta; e raspato alquanto co' piè il terreno vicino al salice, col becco, in cerch[i]o a esso, essi grani piantò. Le quali in brieve tempo crescendo, cominciò collo accrescimento e aprimento de' sua rami a occupare tutti i rami del salice, e colle sue gran foglie a torle la bellezza del sole e del cielo. E, non bastando tanto male, seguendo le zucche, cominciò, per disconcio peso, a tirare le cime de' teneri rami inver la terra, con istrane torture e disagio di quelli. Allora scotendosi e indarno crollandosi, per fare da sé esse zucche cadere, e indarno vaneggiando alquanti giorni in simile inganno, perché la bona e forte collegazione tal pensieri negava, vedendo passare il vento, a quello raccomandandosi, e quello soffiò forte. Allora s'aperse il vecchio e vòto gambo del salice in due parti insino alle sue radice, e caduto in due parti, indarno pianse sé medesimo,
e conobbe chi era nato per non aver mai bene.


Favola VIII.
La fiamma e la candela

Le fiamme, già uno me[se] durato nella fornace de' bicchieri e veduto a sé avvicinarsi una candela 'n un bello e lustrante candeliere, con gran desiderio si forzavano accostarsi a quella. Infra le quali una la[s]ciato il suo naturale corso e tiratasi d'entro a uno voto stizzo, dove si pasceva, e uscita da l'opposito, fori d'una piccola fessura, alla candela che vicina l'era, si gittò, e con somma golosità e ingordigia quella divorando, quasi al fine condusse; e volendo riparare al prolungamento della sua vita, indarno tentò tornare alla fornace, donde partita s'era, perché fu costretta morire e mancare insieme colla candela; onde al fine col pianto e pentimento in fastidioso fumo si convertì, lascian[do] tutte le sorelle in isplendevole e lunga vita e bellezza.

Favola IX.
Il vino e i maomettani

Trovandosi il vino, divino licore dell'uva, in una aurea e ricca tazza, e sopra la tavole di Maumetto, e montato in groria di tanto onore, subito fu assaltato da una contraria cogitazione, dicendo a sé medesimo: »Che fo io? Di che mi rallegro io? Non m'avvedo esser vicino alla mia morte e lasciare l'aurea abitazione della tazza, e entrare innelle brutte e fetide caverne del corpo umano, e lì trasmutarmi di odorifero e suave licore in brutta e trista orina? E non bastando tanto male, ch'io ancora debba sì lungamente diacere in e brutti ricettacoli coll'altra fetida e corrotta materia uscita dalle umane interiora?« Gridò inverso al cielo, chiedendo vendetta di tanto danno, e che si ponessi ormai fine a tanto dispregio, che poiché quello paese producea le piùbelle e migliore uve di tutto l'altro mondo, che il meno esse non fussino in vino condotte. Allora Giove fece che il beuto vino da Maumetto elevò l'anima sua inverso il celabro e quello in modo contaminò, che lo fece matto, e partorì tanti errori, che, tornato in sé, fece legge che nessuno asiatico beessi vino. E fu lasciato poi libere le viti co' sua frutti.

Favola X.
Il topo e la donnola

Stando il topo assediato in una piccola sua abitazione, dalla donnola, la quale con continua vigilanza attendea alla sua disfazione, e per uno piccolo spiraculo ragguardava il suo gran periculo. Infrattanto venne la gatta e subito prese essa donnola, e immediate l'ebbe divorata. Allora il ratto, fatto sagrificio a Giove d'alquante sue nocciole, ringraziò sommamente la sua deietà; e uscito fori dalla sua busa a possedere la già persa libertà, de la quale subito, insieme colla vita, fu dalle feroci unglia e denti della gatta privato.


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Favola XI.
La lingua e i denti

Favola della lingua morsa dai denti.

Favola XII.
Il cedro superbo

Il cedro, insuperbito della sua bellezza, dubita delle piante che li son d'intorno, e fattolesi torre dinanzi, il vento poi, non essendo interrotto, lo gittò per terra diradicato.

Favola XIII.
La formica e il seme di miglio

La formica trovato uno grano di miglio, il grano sentendosi preso da quella gridò: »Se mi fai tanto piacere di lasciarmi fruire il mio desiderio del nascere, io ti renderò cento me medesimi.« E così fu fatto.

Favola XIV.
Il ragno e il grappolo d'uva

Trovato il ragno uno grappolo d'uve, il quale per la sua dolcezza era molto visitato da ave e diverse qualità di mosche, li parve aver trovato loco molto comodo al suo inganno.
E calatosi giùper lo suo sottile filo, e entrato nella nova abitazione, lì ogni giorno, facendosi alli spiraculi fatti dalli intervalli de' grani dell'uve, assaltava, come ladrone,
i miseri animali, che da lui non si guardavano. E passati alquanti giorni, il vendemmiatore còlta essa uva e messa coll'altre, insieme con quelle fu pigiato. E così l'uva fu laccio e 'nganno dello ingannatore ragno, come delle ingannate mosche.

Favola XV.
La vitalba scontenta

La vitalba, non istando contenta nella sua siepe, cominciò a passare co' sua rami la comune strada e appiccarsi all'opposita siepe; onde da' viandanti poi fu rotta.

Favola XVI.
L'asino e il ghiaccio

Addormentatosi l'asino sopra il diaccio d'un profondo lago, il suo calore dissolvé esso diaccio, e l'asino sott'acqua, a mal suo danno, si destò, e subito annegò.


Favola XVII.
La neve umile

Trovandosi alquanta poca neve appiccata alla sommità d'un sasso, il quale era collocato sopra la strema altezza d'una altissima montagna, e raccolto in sé la maginazione, cominciò con quella a considerare, e infra sé dire: »Or non son io da essere giudicata altera e superba, avere me, piccola drama di neve, posto in sì alto loco, e sopportare che tanta quantità di neve quanto di qui per me essere veduta pò, stia piùbassa di me? Certo la mia poca quantità non merta quest'altezza, ché bene posso, per testimonianza della mia piccola figura, conoscere quello che 'l sole fece ieri alle mia compagne, le quali in poche ore dal sole furono disfatte; e questo intervenne per essersi poste piùin alto che a loro non si richiedea. Io voglio fuggire l'ira del sole, e abbassarmi, e trovare loco conveniente alla mia parva quantità.«
E gittatasi in basso, e cominciata a discendere, rotando dall'alte spiagge su per l'altra neve, quando piùcercò loco basso, piùcrebbe sua quantità, in modo che, terminato il suo corso sopra uno colle, si trovò di non quasi minor grandezza che 'l colle che essa sostenea: e fu l'ultima che in quella state dal sole disfatta fusse. Detta per quelli che s'aumiliano: son esaltati.

Favola XVIII.
Il falcone impaziente

Il falcone non potendo sopportare con pazienza il nascondere che fa l'anitra fuggendosele dinnanzi e entrando sotto acqua, volle come quella sotto acqua seguitare, e, bagnatosi le penne, rimase in essa acqua, e l'anitra, levatasi in aria, schernia il falcone che annegava.

Favola XIX.
Il ragno e il calabrone

Il ragno, volendo pigliare la mosca con sue false rete, fu sopra quelle dal calabrone crudelmente morto.


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Favola XX.
L'aquila e il gufo

Volendo l'aquila sche[r]nire il gufo, rimase coll'alie impaniate, e fu dall'omo presa e morta.

Favola XXI.
Il cedro ambizioso

Avendo il cedro desiderio di fare uno bello e grande frutto in nella sommità di sé, lo mise a seguizione con tutte le forze del suo omore, il quale frutto, cresciuto, fu cagione di fare declinare la elevata e diritta cima.

Favola XXII.
Il pesco invidioso

Il persico, avendo invidia alla gran quantità de' frutti visti fare al noce suo vicino, diliberato fare il simile, si caricò de' sua in modo tale, che 'l peso di detti frutti lo tirò diradicato e rotto alla piana terra.

XXIII.
Il noce e i viandanti

Il noce mostrando sopra una strada ai viandanti la ricchezza de' sua frutti, ogni omo lo lapidava.

Favola XXIV.
Il fico

Il fico stando sanza frutti nessuno lo riguardava; volendo, col fare essi frutti, essere laldato da li omini, fu da quelli piegato e rotto.

Favola XXV.
Il fico e l'olmo

Stando il fico vicino all'olmo, e riguardando i sua rami essere sanza frutti, e avere ardimento di tenere il sole a' sua acerbi fichi, con rampogne gli disse: »O olmo, non hai tu vergogna a starmi dinanzi? Ma aspetta ch'e mia figlioli sieno in matura età, e vedrai dove ti troverai.« I quali figlioli poi maturati, capitandovi una squadra di soldati, fu da quelli, per torre i sua fichi, tutto lacerato e diramato e rotto. Il quale stando poi così storpiato delle sue membra, l'olmo lo dimandò dicendo: »O fico, quanto era il meglio a stare sanza figlioli, che per quelli venire in sì miserabile stato.«


Favola XXVI.
Il fuoco superbo e il paiolo

Uno poco di foco, che in un piccolo carbone infra la tiepida cenere remaso era, del poco omore, che in esso restava, carestiosa e poveramente sé medesimo notrìa, quando la ministra della cucina, per usare con quello l'ordinario suo cibario offizio, quivi apparve, e, poste le legne nel focolare, e col solfanello, già resucitato d'esso, già quasi morto, una piccola fiammella, e infra le ordinate legne quella appresa, e posta di sopra la caldara, sanz'altro sospetto, di lì sicuramente si parte.

Allora, rallegratosi il fo[co] delle sopra sé poste secche legne, comincia a elevarsi, [c]acciando l'aria delli intervalli d'esse legne, infra quelle con ischerzevole e giocoso transito, se stessi tesseva.

Cominciato a spirare fori dell' intervalli delle legne, di quelli a se stessi dilettevoli finestre fatto avea; e cacciato fori di lucenti e rutilanti fiammelle, subito discaccia le oscure tenebre della serrata cucina; e col galdio le fiamme già cresciute scherzavano coll'aria d'esse circundatrice e con dolce mormorio cantando creava[n] suave sonito.

Vedutosi già fortemente essere sopra delle legne cresciuto e fatto assai grande, cominciò a levare il mansueto e tranquillo animo in gonfiata e incomportabile superbia, facendo quasi a sé credere tirare tutto el superiore elemento sopra le poche legne.

E cominciato a sbuffare, e empiendo di scoppi e scintillanti sfavillamenti tutto il circunstante focolare, già le fiamme fatte grosse, unitamente si dirizzavano inverso l'aria, quando le fiamme piùaltiere percosse[r] nel fondo della superiore

Favola XXVII.
I tordi e la civetta

I tordi si rallegrarono forte vedendo che l'omo prese la civetta e le tolse la libertà, quella legando con forti legami ai sua piedi. La qual civetta fu poi, mediante il vischio, causa non di far perde[re] la libertà ai tordi, ma lo loro propia vita.

Detta per quelle terre, che si rallegran di vedere perdere la libertà ai loro maggiori, mediante i quali poi perdano soccorso e rimangono legati in potenzia del loro nemico, lasciando la libertà e spesse volte la vita.


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